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Astensione di massa e vincolo esterno
Il vero dato politico delle elezioni europee, per quello che riguarda l’Italia, è la vastissima astensione: non era mai successo in queste proporzioni. È il segno di una crisi radicale di legittimazione, le cui cause profonde andrebbero indagate, invece di fermarsi alla superficie (come avviene nei talk show televisivi, ma anche in quello che resta dei giornali, tranne rarissime eccezioni). Il minimo che si può dire è che il popolo italiano nella sua maggioranza non ha raccolto l’appello di Mattarella a “consacrare” la “sovranità europea” nel rito elettorale. Un invito retorico, emotivo, perciò forzato e precario in quanto non fondato sul piano concettuale e dottrinale: l’UE non è uno Stato (né nazionale né federale), quindi non può possedere alcuna sovranità. L’UE è una strana costruzione tecnocratica, finanziaria e giurisdizionale, vocata prevalentemente ai dogmi mercatisti neo- e ordoliberali, frutto di accordi internazionali i cui “signori” continuano a essere, logicamente, gli Stati (i quali infatti possono recedere da quegli accordi, come si è visto con la Brexit). Un’istituzione a bassa intensità politica, dominata dai particolarismi, senza una visione unitaria (ma subalterna alla NATO); un costrutto “hayekiano”, funzionale a presidiare il vincolo esterno mercatista (e atlantista), a disciplinare i più deboli ma in generale i riottosi, che si ostinino eventualmente a credere nell’autonomia della politica, nella legittimità del conflitto sociale, nella sua proiezione democratica. L’UE ha nel Consiglio dei Capi di Stato e di governo (statali) la propria camera di compensazione politica degli interessi nazionali, e nella BCE il proprio custode dell’ortodossia monetaria ordoliberale, simboleggiata dall’euro (una moneta senza Stato: cioè un paradosso che non può funzionare, perché alla lunga ha costi sociali e democratici insostenibili). In tale contesto, il Parlamento europeo, non casualmente, non è un vero Parlamento legislatore, quindi non garantisce un’autentica legittimazione democratica. Il Trattato di Lisbona, benché strumentalmente definito “costituzionale”, non è affatto una “costituzione”, ed è subentrato al fallimento di quella che fu presentata come una costituzione (non lo era), bocciata da alcuni popoli europei (francesi e olandesi): per tutta risposta, l’eurocrazia ha fatto finta di niente cambiando di nome alla costituzione, riconoscendo di fatto che si trattava di un trattato (quindi soggetto a ratifica internazionale, non al vaglio di un potere costituente), appiccicandoci addosso la qualifica di “costituzionale” a fini propagandistici, tanto per ingenerare ancora più opacità e confusione. Parlare di “Europa sovrana” (come fanno Padoan e Guerrieri in un recente volume Laterza) è una contraddizione in termini: segno o di ignoranza (giuridica, politica e storica), o di un atteggiamento “wishful thinking” senza costrutto né fondamenta reali; insomma, l’ennesima commedia degli inganni.
La defezione democratica degli italiani è avvenuta per buone ragioni. I ceti popolari, i poveri ma anche un pezzo di ceto medio inferiorizzato hanno capito benissimo che votare non serve a niente: del resto, non ci era stato spiegato anni fa da Draghi? Votate, votate, tanto “c’è il pilota automatico”. Ovvero, l’agenda è predeterminata, non c’è niente di sostanziale su cui confliggere e decidere, niente che possa essere cambiato. “There is no Alternative”, appunto: nichilismo neoliberista in atto, su scala europea. Ne consegue che viviamo in un “nulla di politica”. La politica in Italia oggi semplicemente non c’è, è Vannacci o Soumahoro: pertanto nulla può accadere di rilevante alle elezioni, se non una poderosa secessione democratica (la quale non può impedire, almeno per ora, una infima, miserabile riproduzione di ceto politico parassitario e autoreferenziale). Il nulla di politica (che è anche un nulla di cultura e di eticità) nel quale siamo precipitati ha delle cause, che andrebbero indagate seriamente. La causa prima sta nel dominio assoluto del vincolo esterno al quale le cosiddette élites del Paese ci hanno consegnati nel 1992/93, producendo un fallimento politico, economico, sociale senza precedenti. Siamo dunque a valle di una frana epocale, che rischia di sfociare in una vera e propria catastrofe morale e civile. L’Italia vive una doppia crisi: una interna, l’altra esterna. Il problema italiano si colloca cioè nel quadro della più generale crisi dell’Occidente devastato dal neoliberismo terminale e dalle aporie della globalizzazione, che ne hanno prodotto la crisi. Non è un caso che il fantasma della guerra totale stia lì a ricordarcelo. Tanto che possiamo chiederci, legittimamente: chi siamo noi, oggi? Esistiamo ancora, politicamente? L’urgenza di tentare una risposta a tali domande si lega strettamente all’esigenza di andare alla radice di quella scelta dissennata che ci ha privati di un patto con noi stessi, il cui azzardo si sarebbe dovuto cogliere ed è stato invece nascosto, coperto. Compiere tale genealogia critica è fondamentale per capire l’Italia deprivata di oggi, ed individuare eventuali, non agevoli vie realistiche per risalire la china.
In Italia c’è dunque un dissenso passivo, o perlomeno una sfiduciata disaffezione, che si sono manifestati disertando le urne: è un dissenso, o perlomeno una diffidenza, d’istinto, anche verso la guerra, l’avventurismo bellicista in Ucraina e l’insopportabile doppio standard occidentale rispetto all’eccidio di civili a Gaza. Contro tale deriva neo-bellicista purtroppo non c’è (ancora) una mobilitazione di massa adeguata, ma certamente non c’è consenso né mobilitazione a favore (nonostante la propaganda indecente veicolata dai media di regime e il clima da caccia alle streghe verso i non allineati che è stato scientemente alimentato). Questo è un problema per chi controlla governi e media perché senza un vero seguito è impensabile trascinare opinioni pubbliche riluttanti in una guerra dalle molte incognite.
Differentemente dall’Italia, in Francia e in Germania è successo un vero e proprio terremoto dentro il sistema politico. Le cui cause sono certamente sociali ed economiche: in Francia da anni ci sono manifestazioni di massa, che vedono la partecipazione dei sindacati ufficiali oltre ai vari movimenti del dissenso, contro il progetto di demolizione dello Stato sociale e amministrativo francese portato avanti dal Presidente prodotto nel laboratorio tecno-finanziario globalista. La Germania, per parte sua, sta facendo i conti con gli effetti della demolizione del suo modello (energia a basso costo grazie ai rapporti con la Russia, affari commerciali con la Cina) per opera dell’alleato americano. Le rimane l’euro come strumento per ottenere cospicui surplus commerciali infra-europei (a nostro danno), ma certo anche sull’eurozona gravano ormai sempre più dubbi e incertezze. Detto ciò, è chiaro che anche in tal caso la guerra, l’isterico bellicismo Nato a cui sia Macron sia Scholz hanno alla fine aderito, c’entra con questo voto: che è anche, per fortuna, un netto no all’avventurismo atlantista. È vero che fatica ad emergere una proposta politica alternativa sul terreno internazionale. Ma certo colpire Macron e il governo tedesco (condizionato dall’estremismo guerrafondaio di Verdi e Liberali, oltre che dall’incapacità politica dei socialdemocratici di smarcarsi, assumendo una posizione più equilibrata e realista) ha il chiaro significato di dare un colpo alla propaganda da “scontro di civiltà”, funzionale alla prospettiva aberrante di una terza guerra mondiale (non più a pezzi) e a una compensazione identitaria della crisi in cui versano l’Europa e l’Occidente.
I francesi (così come i tedeschi, ovviamente) ancora non hanno sperimentato l’esperienza toccata agli italiani nella scorsa legislatura, quando hanno votato maggioritariamente per forze critiche, qualificate come “antisistema”, e si sono ritrovati alla fine con il governo Draghi, cioè con una barzelletta, una vera e propria irrisione della sovranità popolare. Il fallimento della speranza nel cambiamento consumatasi nella scorsa legislatura ha generato una profonda sfiducia nella politica in quanto tale. Può darsi che Marine Le Pen e Jordan Bardella si rivelino, se davvero riusciranno a rompere il cordone sanitario che si sta stendendo contro di loro, la versione francese del governo di Giorgia Meloni: cioè un governo apparentemente contro, che realizza l’Agenda Draghi e Ursula, cioè quella della destra economica e finanziaria, al di là di qualche compensazione simbolica e qualche regalia corporativa. Vedremo (ma non bisogna sottovalutare che lo Stato francese è un’altra cosa rispetto a quello italiano, soprattutto a ciò cui esso è stato ridotto nell’ultimo trentennio). Certo è che la differenza di situazioni (noi abbiamo provato a mettere in questione il vincolo esterno, e abbiamo fallito, sia per cause endogene alle forze “populiste”, sia per fattori esogeni, mentre i francesi in fondo ancora devono vivere un vero scossone politico), spiega il fatto che in Francia delle cose politicamente significative ancora possano accadere, mentre in Italia l’unico vero evento politico è la defezione dalla politica, cioè il non voto di massa.
Giorgia Meloni ha un solo obiettivo: durare. E tuttavia la Destra appare anche più a proprio agio nel contesto attuale, perché sembra avere più a che fare con la realtà. Naturalmente, è soprattutto il linguaggio che usa ad essere percepito come “diverso”, più radicale e capace di prendere di petto la realtà sociale; mentre le politiche concrete si sono prontamente adeguate al vincolo esterno (compreso quello atlantista, che viene onorato con un atteggiamento particolarmente servizievole, anche per compensare un deficit di legittimazione che la Destra sente provenire dalla propria storia e dalla diffidenza iniziale dell’UE). In tutto questo si inserisce il calcolo della vera “destra economica” – il mainstream tecno-finanziario – la quale ha probabilmente valutato che, a fini di stabilizzazione, una “destra” che nasce ideologicamente estremista e si fa nei fatti governativa, del tutto ossequiente all’Occidente americano sul tema della guerra, ma ancora capace di raccogliere un buon pacchetto di voti popolari grazie al suo discorso “scorretto”, a un atteggiamento da underdog, potrebbe tornare utile. Naturalmente, poiché Giorgia Meloni potrà cambiare ben poco, alla lunga perderà anche lei consenso: ci vorrà più tempo, ma accadrà. La questione metapolitica aperta davanti a noi è tragicamente chiara: davvero non è possibile sottrarsi a questo pendolo senza sostanza politica, fatto di finte polarizzazioni e casting di maschere impolitiche, che ci impedisce di affrontare le vere questioni del Paese? Tornare a fare discorsi di verità sull’Italia, che ci pongano in condizione di ricostituire un vincolo interno, un “noi” condiviso, è il presupposto ineludibile perché torni a sgorgare una fonte di politica autentica.
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