La Fionda è anche su Telegram.
Clicca qui per entrare e rimanere aggiornato.
Dall’indignazione all’azione

«La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori.»
«Quella rapida successione e quella fitta concentrazione di stimoli nervosi contraddittori […] sollecita costantemente i nervi a reazioni così forti che questi alla fine smettono di reagire.»
G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito
Quante volte capita di sentire, all’interno del soverchiante flusso di informazioni a cui siamo impietosamente sottoposti tutti i giorni, frasi come “le immagini della guerra indignano”, “è opportuno condannare con fermezza le infelici uscite del tal ministro”, “si deve stigmatizzare senza ambiguità il terribile episodio” o, infine, l’immortale “è polemica!”. Queste espressioni si trovano nel linguaggio giornalistico quando si deve riportare brevemente una vasta reazione dell’opinione pubblica, per esempio legata al clamore scaturito da certi fatti. Ma si trovano altresì nel linguaggio istituzionale: sono cioè gli stessi politici o personalità pubbliche che le utilizzano direttamente al di là della mediazione giornalistica. Questo fatto, lungi dal rappresentare un semplice vizio di forma volto magari a rendere fruibile brevemente un pensiero complesso, è sintomatico dell’atteggiamento prevalente con cui si affrontano tematiche di attualità e non nasconde nessun pensiero complesso: è, al contrario, tutto il pensiero. Ciò significa che oltre la presa di posizione, la condanna a parole, la stigmatizzazione estemporanea non c’è nient’altro. A titolo d’esempio, cos’è la richiesta ripetitiva e pedante del PD affinché l’attuale esecutivo “condanni” esplicitamente il fascismo se non una genuina espressione del loro modo di pensare e una effettiva indicazione dell’unica differenza che li separa da FdI? Con quella richiesta il PD si sta rivelando in tutto uguale al suo “avversario” politico tranne che per questa differenza di posizionamento. Se FdI un giorno condannasse il fascismo (non lo farà, essendo un partito effettivamente post-fascista), il PD perderebbe persino l’apparenza di partito d’opposizione.
Lo spettacolo che ci si dipana tutti giorni davanti agli occhi è allora quello di un dibattito pubblico ridotto a quella che si potrebbe chiamare una carrellata di pose estetiche davanti ai più svariati fatti (dalla cronaca alla politica internazionale). D’altronde, questo è del tutto coerente con lo statuto di Nazione colonizzata e a sovranità limitata dell’Italia: infatti, un paese senza il controllo del proprio posizionamento geostrategico e della propria politica economica non può far altro che commentare aspramente e tuonare categoricamente per poi lasciare tutto com’è. Proprio per questo, quindi, l’Italia è un punto d’osservazione privilegiato per tali fenomeni, ma sarebbe un errore considerarli una sua esclusiva. Simmel, citato in esergo, ci ricorda che il presentismo e l’ottundimento dei sensi di fronte al soverchiante bombardamento di stimoli sono una caratteristica della società di massa, dalla belle époque in poi. Informazioni e immagini si alternano senza una coerenza e la reazione di difesa del nostro sistema nervoso è quella di non permettere una partecipazione emotiva che sarebbe impercorribile e distruttiva e di implementare l’attività intellettuale. Di più, questa attività intellettuale spesso non ha la forma dell’elaborazione concettuale, che richiederebbe troppo tempo e anch’essa non potrebbe stare al passo degli stimoli, ma della posa, del commento, della breve risposta. Uno stimolo, un commentino… e più non dimandare.
Queste due forme (elaborazione concettuale e posa estemporanea) hanno però un punto in comune: l’impotenza, l’ineffettualità, non sono cioè in grado di produrre un cambiamento reale. Conviene quindi analizzare queste forme di impotenza, anche appoggiandosi ad alcuni autori, per poi chiedersi cosa può portare a sbloccare queste forme di dissenso.
Per affrontare questo tema può essere utile indicare alcune dicotomie che aiutano a orientarsi. In particolare, la dicotomia tra struttura e vissuto e quella tra razionalità ed emotività. L’impotenza degli intellettuali è caratterizzata da un forte investimento nell’analisi razionale della struttura socioeconomica, geopolitica, ma anche epocale e spirituale (la spiritualità è un concetto ben più ampio della semplice emotività); ma da una scarsa partecipazione emotiva alle tematiche che si analizzano. Il problema del tipo intellettuale – che non è, come potrebbe sembrare, un ceto, una cerchia di persone, ma un tipo di atteggiamento trasversale – è cioè la difficoltà a connettere struttura e vissuto. L’intellettuale odierno può certamente avere un sapere generale riguardo al modo in cui la struttura influenza certi vissuti, ma non sa creare trasporto e mobilitazione né in se stesso né nelle masse. Il tipo intellettuale è afflitto da quella che Fisher chiamava «impotenza riflessiva»[1], questa locuzione sta a indicare la condizione di coloro che «sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività, non è l’osservazione passiva di uno stato di cose già in atto: è una profezia che si autoavvera»[2].
Di qui, possiamo passare alla seconda forma di attività intellettuale, che abbiamo chiamato “posa estemporanea”. Immaginiamo il tipo intellettuale appena descritto che, disilluso dalla possibilità di calare nella vita propria e altrui la sua lucida consapevolezza dello stato di cose, rinunci alla fatica che richiede l’analisi concettuale e cada nell’«edonia depressa»[3], intesa come «l’incapacità di non inseguire altro che il piacere»[4]. Il nostro tipo intellettuale, vittima della propria impotenza, cade allora nello stato in cui si trova la maggior parte delle persone, che non passa dalla fase di elaborazione concettuale. Uno stato caratterizzato da un flusso costante di stimoli a cui non si può rispondere adeguatamente, perché nel tempo che richiederebbe la risposta un altro stimolo si palesa e poi un altro e poi un altro… L’assenza di reazione fa passare gli stimoli da essere sorgente dell’agire ad essere «storditori ed anestetici: droghe, medicine, finte passioni, Playstation, smartphone, porno, maratone di serie televisive, disimpegno, assenza di pensiero critico, conformismo, gregarismo, passività varie, futilità, deliri narcisistici, edonismo annoiato»[5].
Chi sta in questo stato, come abbiamo detto, di norma non passa dalla fase di elaborazione concettuale. Per cui, il rapporto tra razionalità ed emotività e quello tra struttura e vissuto è diverso. La razionalità è appunto quella della posa estemporanea, commento fugace, scollegato. L’emotività subisce un mutamento simile: non può essere elaborazione emotiva approfondita, ma diventa puntuale, agitazione senza sbocco, rabbia che si esaurisce subito. Per questo motivo, si sviluppano delle sensazioni diffuse che non sono propriamente emozioni, ma sintomi di emozioni non elaborate: l’ansia e la depressione. Ansia e depressione sono sintomi di emozioni e disagi che non si sa da dove vengano, sono malattie di un desiderio che non può esprimersi, che non sa come orientarsi nel mondo, che, in fondo, non sa cosa desidera. Quindi se da una parte c’è un flusso costantemente rinnovato di emozioni fugaci, dall’altra c’è una sensazione diffusa e generalizzata di ansia e depressione che non dà tregua. Se nella forma dell’elaborazione concettuale c’era perlomeno consapevolezza della struttura, qua manca anche quella: sia l’emotività che la razionalità sono senza direzione, senza senso, sballottolate di qua e di là. Il vissuto subisce passivamente la struttura e non sa da dove viene il suo disagio, né razionalmente né emotivamente.
La società abitata da soggetti a questo grado di inconsapevolezza è «la società dell’indignazione»[6]. Questa è caratterizzata appunto da frequenti e ricorrenti ondate di indignazione che emergono, occupano lo spazio della discussione pubblica e svaniscono senza lasciare traccia, «per via della loro natura fluida e volatile non sono in grado di strutturare il discorso e lo spazio pubblico: per questo scopo sono troppo incontrollabili, imprevedibili, instabili, effimere e amorfe»[7]. La dispersione propria dell’indignazione non sa arrivare alla strutturazione necessaria a creare un discorso, un pensiero; «dunque non costruiscono alcun Noi stabile, che mostri una struttura di cura per la società nel suo complesso»[8]. La società dell’indignazione rende dispersivo e scollegato non solo il pensiero razionale, ma anche l’emotività: la rabbia che porta con sé l’indignazione «non dispiega alcuna forza in grado di produrre azioni»[9], essa non costruisce un nuovo orizzonte del sentire, un’emotività strutturata e diversa da quella proposta e incarnata dalla struttura presente. Essa cioè non significa nulla, non è iscritta in un orizzonte di senso, ma è pura fluttuazione singolare, idiosincrasia privata. In ciò è totalmente diversa dall’ira di Achille, quell’emozione aveva un senso, portava ad azioni e apriva un futuro e per questo poteva essere oggetto di narrazione. Invece, la rabbia indignata «non è cantabile»[10].
Questo è dunque il quadro che ci si presenta, ma come fare per dare effettualità all’impotenza così descritta? Per aggiustare l’economicismo deterministico dei marxisti ortodossi, che sfociava nell’inazione, György Lukács (che fu, tra le altre cose, allievo di Simmel) introduce il concetto di “coscienza di classe”, esso serve a descrivere il fatto che nonostante si diano le condizioni economiche per una rivoluzione, l’azione politica manca l’obiettivo. Lukács sostiene che se il proletariato non ha coscienza dei rapporti socioeconomici in cui è immerso, la sua azione politica sarà sempre inefficace. La classe proletaria deve quindi spogliarsi di ogni ideologia e prendere coscienza della reificazione della sua forza lavoro all’interno del meccanismo capitalista, solo così la rivoluzione avrà successo. Scrive Lukács: «la destinazione di una classe al potere significa che è possibile, a partire dai suoi interessi di classe, organizzare l’intero della società secondo questi interessi. L’elemento che alla fine decide ogni lotta di classe è il possesso in un dato momento da parte di una delle classi in lotta di questa capacità, di questa coscienza di classe»[11]. Per tradurre il discorso di Lukács con le categorie usate qui, potremmo dire che ciò che serve alle classi subalterne per avviare proficuamente una rivoluzione è mediare l’opposizione emotiva (rabbia, frustrazione, insoddisfazione) con un’elaborazione razionale in grado di collegare vissuto e struttura. In questo modo, la spinta emotiva oppositiva può incanalarsi in azioni efficaci.
Tuttavia, se è indubbio che «negli esseri umani esistono diverse mediazioni tra le emozioni e le motivazioni all’azione, la principale delle quali è la coscienza»[12] e che i partecipanti a una rivoluzione «devono usare la capacità di elaborare cognitivamente la frustrazione per capirne le cause politiche, economiche e sociali, per capire che tali cause possono essere rimosse con un’azione collettiva»[13]; tutto questo, è inservibile oggi se non viene integrato e ampliato con alcune osservazioni. Abbiamo infatti notato come l’elaborazione concettuale porti egualmente a una forma di impotenza, che, con Fisher, abbiamo chiamato “impotenza riflessiva”. È quindi il momento di notare che c’è una seconda caratteristica – oltre all’impotenza – che riguarda sia l’elaborazione concettuale che la posa estemporanea: l’assenza di elaborazione emotiva. Questo è il motivo per cui la coscienza di classe – pur necessaria – non è sufficiente a generare il cambiamento. Bisogna notare infatti che Lukács dava per scontata l’elaborazione emotiva degli operai del suo tempo: essi erano arrabbiati, delusi, insoddisfatti e desiderosi di cambiamento, ma nell’azione rivoltosa mancavano sistematicamente l’obiettivo rivoluzionario. Oggi, purtroppo, occorre fare ancora un passo indietro: infatti, come già abbiamo notato, i soggetti immersi nella società dell’indignazione non hanno un’emotività alternativa strutturata, avvertono solamente un disagio senza forma che si manifesta come ansia e depressione. Il neoliberismo non ha colonizzato solo le menti ma anche le emozioni, i desideri, le aspirazioni: si è infiltrato sotto pelle, è l’aria che respiriamo. Quando l’emotività non riesce a strutturarsi, «quando la frustrazione resta latente, gli stati d’animo possono tendere alla cupezza senza un’apparente motivazione. In molti casi in cui ci si aspetta che un elevato livello di frustrazione porti allo scatenamento dell’aggressività sociale, può accadere invece che il soggetto entri in uno stato depressivo che lo porta alla passività. Quindi la domanda che dobbiamo porci ora è la seguente: se è vero che uno stato d’animo negativo spesso spinge l’individuo e reagire passivamente alle provocazioni, i soprusi, le ingiustizie, le vessazioni, quali sono le condizioni sotto cui quello stesso stato d’animo lo spinge invece a portare la frustrazione alla coscienza e a elaborare motivazioni razionali per una risposta attiva?»[14].
La strada verso l’azione è lunga e accidentata. Essa passa sicuramente tramite l’elaborazione concettuale, ma altresì attraverso l’elaborazione emotiva. La differenza tra le due è una differenza di direzione: l’elaborazione concettuale passa dall’analisi della struttura a quella del vissuto, essa comincia dall’alto, dai fattori epocali e socioeconomici, per poi passare alla descrizione del vissuto delle soggettività che abitano queste strutture. L’elaborazione emotiva invece parte dal basso, dal vissuto di disagio per poi darsi il tempo di approfondire le cause profonde, i disturbi generatori di questo disagio. È una strada di percorrenza molto più incerta perché ad ogni passo i soggetti sono direzionati verso false conclusioni e strategie difensive, ma se si mette capo a un vero «lavoro di svelamento»[15] lo scopo passa da essere adattivo a rivoluzionario. Il soggetto impegnato in questo lavoro non cerca più piccole strategie di riparazione, aggiustamenti marginali, per sentirsi meglio, ma si incammina nella ricerca delle cause. Ed è allora che incontra la struttura. «Con le strategie di riparazione l’attribuzione di responsabilità tende a essere: specifica, nel senso che è centrata su uno o pochi episodi particolari; instabile, poiché dura solo finché durano quegli episodi; interna, in quanto l’individuo la orienta su se stesso, considerandosi appunto il principale responsabile degli episodi frustranti. Invece nel lavoro di svelamento l’attribuzione tende a essere: globale, cioè è rivolta non a pochi specifici episodi bensì al sistema sociale, economico e politico che li ha determinati; stabile, nella misura in cui il sistema delle cause è considerato permanente e capace di agire attraverso diversi episodi; esterna, nel senso che è orientata a individuare fattori causali esterni all’individuo»[16]. L’emotività passa allora da essere quell’ibrido di indignazione puntuale e disagio generalizzato a essere una strutturata rabbia sistemica, precondizione di un’azione efficace.
Concludendo brevemente, possiamo delineare così il programma rivoluzionario: passare dalla depressione e dall’ansia alla rabbia sistematica e alla voglia di cambiamento tramite l’elaborazione emotiva del proprio vissuto; poi, connettere il proprio vissuto alle cause strutturali tramite l’elaborazione concettuale. I soggetti avranno così espulso il sistema sia dalla loro mente che dal loro cuore e saranno quindi pronti per attuare una rivoluzione.
[1] M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma 2018, p. 58.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 59.
[4] Ibidem.
[5] P. Fagan, “Pensare con Mark Fisher”, in https://pierluigifagan.com/
[6] B.-C. Han, Nello sciame, Nottetempo, Roma 2015, p. 18.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 19.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973, p. 68
[12] E. Screpanti, Liberazione, Tedaliber, Firenze 2023, p. 248.
[13] Ivi, p. 249.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 252.
[16] Ivi, p. 253.
La Fionda è una rivista di battaglia politico-culturale che non ha alle spalle finanziatori di alcun tipo. I pensieri espressi nelle pagine del cartaceo, sul blog online e sui nostri social sono il frutto di un dibattito interno aperto, libero e autonomo. Aprendo il sito de La Fionda non sarai mai tempestato di pubblicità e pop up invasivi, a tutto beneficio dei nostri lettori. Se apprezzi il nostro lavoro e vuoi aiutarci a crescere e migliorare, sia a livello di contenuti che di iniziative, hai la possibilità di cliccare qui di seguito e offrirci un contributo. Un grazie enorme da tutta la redazione!