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“Processo all’articolo 4”: attualità di Danilo Dolci


28 Giu , 2024|
| 2024 | Visioni

Che cosa resta di Danilo Dolci nell’epoca degli “aperitivi” culturali, della discussione intellettuale ridotta alla dimensione spettacolare dei festival o al virtuosismo specialistico dell’accademia o, peggio ancora, alle “pillole” dei talk show? Niente o, forse, al contrario, tutto. A cento anni dalla nascita, la sua figura inclassificabile all’interno degli standardizzati stereotipi degli intellettuali nostrani continua a ispirare una nutrita, seppur minoritaria, schiera di operatori culturali, educatori appassionati, editori e scrittori.

Non siamo dinanzi ad una concezione pastorale dell’intellettuale. Danilo Dolci non ha vissuto in una torre d’avorio, studiando e coltivando anime belle, né ha tentato di catechizzare le persone semplici che incontrava ai presunti valori superiori della propria cultura. Questo è quello a cui purtroppo siamo abituati oggi: incastrati come siamo nel vespaio delle tante false coscienze illuminate, per dirla con Sloterdijk, che detengono il potere del mondo culturale, accademico e editoriale.

‹‹La via presa da Danilo Dolci – affermava Norberto Bobbio – è stata diversa, tanto diversa da essere insolita e singolarissima: è stata la via del non accettar la distinzione tra il predicare e l’agire, ma del far risaltare la buona predica dalla buona azione, e del non lasciare ad altri la cura di provvedere, ma di cominciare a pagar di persona››[1]. Quando Dolci si trasferisce, agli inizi degli anni ’50, nella Sicilia arcana e poverissima, è convinto che solo dalla condivisione delle pene e delle speranze delle persone del posto si possa giungere a una comprensione reale della loro condizione. ‹‹Se l’occhio non si esercita, non vede, / se la pelle non tocca, non sa, / se l’uomo non immagina, si spegne›› recitano alcuni suoi famosi versi[2].

L’intellettuale triestino ha innanzitutto inteso l’attività culturale nel senso più radicale di un vero e proprio processo di umanizzazione: la creazione di una comunità dialogica che contemplasse in sé differenze interne, ma che, cosciente delle sue condizioni, fosse in grado di proporre alternative e di procedere verso la propria emancipazione. I suoi interlocutori sono sempre stati gli ultimi, l’“erbaccia cattiva” del sottoproletariato, che faceva riunire, discutere e di cui ascoltava le istanze, le speranze, le delusioni.

È forse il concetto di risonanza a permetterci di descrivere meglio il suo operato: i suoi libri sono polifonici, un incrocio di tante voci e di tante storie, a cui Dolci permetteva di esprimersi. Non bisogna, però, commettere l’errore di assimilare questo lavoro ad una missione giornalistica, che si limitava a raccogliere testimonianze ed istanze che gli preesistevano. Sfogliando il meraviglioso Banditi a Partinico, si rimane sorpresi e commossi dalle domande che Dolci poneva agli abitanti di Trappeto: “Cosa significa per te festa?”, “Come vorresti fosse il mondo?”, “Cos’è per te la felicità?” e, allo stesso tempo, dallo stupore dei suoi interlocutori a queste domande[3]. Molti “poveri Cristi” di Trappeto, costretti dalle necessità della vita, confessano spesso di non aver mai pensato a rispondere a simili domande. Facendo risuonare però questi interrogativi, Dolci favorisce in loro la creazione di una visione di profondità, di un’idea di bene per sé e per gli altri e, non meno importante, la convinzione che le loro idee al riguardo abbiano un valore. Era il tentativo di porre queste persone in una posizione attiva nei confronti del proprio destino, di coscientizzazione, per usare un termine della pedagogia degli oppressi. Dolci è stato per quella poverissima popolazione della Sicilia arcana ciò che uno strumento musicale può essere per un cantante: ha permesso loro di intonare un motivo, dar forma alla propria voce, creare dei ritornelli di senso da portare sempre con sé, che potessero in qualche modo esprimere un bisogno profondo, un anelito dello spirito.  

Questa risonanza, ingigantendosi, assume subito una valenza politica, poiché frugando tra i motivi del proprio malessere, gli abitanti di Partinico erano in grado di fornire delle motivazioni specifiche al riguardo e di proporre delle strade da percorrere. Nel 1955, infatti, Dolci indirizza una lettera, sottoscritta da circa millecinquecento suoi concittadini siciliani, al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e a tante altre istituzioni nazionali, avanzando precise richieste: ‹‹Desideriamo pertanto che tutti i bambini, i ragazzi, i giovani possano frequentare asili, scuole nuove nello spirito e nell’attività: possibilmente occupati in queste tutto il giorno. Che tutti noi adulti si abbia documento, attraverso Università popolari liberamente accessibili a tutti, di quanto meglio lo spirito dell’uomo, nel mondo, nei secoli, abbia concepito e realizzato: centri dove insieme si cerchi, limpidamente››[4].

Dolci intercetta una speranza condivisa dagli abitanti del luogo: quella di poter offrire ai propri figli un futuro migliore, di uscire dalla miseria che fa morire di fame i bambini, di combattere le ingiustizie che si perpetuano sul proprio territorio e di essere in grado di concepire un mondo diverso. E lo fa, traducendo queste richieste generali in atti concreti, legati al contesto geografico e sociale di Partinico: la richiesta della costruzione di una diga sul fiume Jato, la messa al bando della pesca illegale da parte dei pescherecci che affama le persone del posto, la creazione di centri educativi.

Dolci si muoveva in un mondo in cui la distinzione di classe era evidente, negli aspetti sia interiori che esteriori; oggi, però, in una società in cui le persone più emarginate sembrano condividere gli stessi obiettivi e valori di denaro e potere di imprenditori alto-borghesi, l’azione maieutica di Dolci è, al contempo, più necessaria e disperata. Si aggiunge, infatti, una propedeutica azione di decolonizzazione delle coscienze, che al Gandhi di Sicilia evidentemente non occorreva. Si tratta di inventare pratiche che possano affrontare adeguatamente il capitalismo non più come tritacarne economico-sociale, ma come una vera e propria forma di vita.

Resta attuale, dunque, anche la concezione di rivoluzione carsica e non-violenta dell’intellettuale triestino, la quale ai tempi di una sinistra arroccata intorno ad un’ortodossia marxista poteva sembra inadatta e “moderata”. Carsica – in quanto pertiene alla progressiva autocoscienza del singolo, che ha sempre bisogno di tempi lunghi e pluralità di discorsi. In Poema umano, Dolci scrive: ‹‹Rivoluzione / è incontrarsi con sapiente pazienza / assumendo rapporti essenziali / tra terra, cielo e uomini: ostie sì, / quando necessita, sfruttati no, / i dispersi atomi umani divengano / nuovi organismi e lottino nettando / via ogni marcio, ogni mafia›› e ancora: ‹‹Rivoluzione è distinguere il buono / già vivente, sapendolo godere / sani, senza rimorsi, / amore, riconoscersi con gioia. / Rivoluzione è curare il curabile / profondamente e presto, / è rendere ciascuno responsabile››[5]. Il richiamo alla rivoluzione mediante l’assunzione di rapporti essenziali tra gli uomini è forse già un’indicazione preziosa per i nostri tempi, dominati dal frastuono e dai temi irrilevanti o ideologici dei media: significa essere in grado di indirizzare l’attenzione delle persone sui rapporti essenziali, come il lavoro, l’organizzazione dell’economia, i rapporti di genere e non ultimo, i temi della pace e della guerra. Far ragionare le persone insieme sulle origini dell’attuale malessere. Si tratta di ereditare una concezione di rivoluzione che è, innanzitutto, di matrice pedagogica.

La sfida non è facile, considerando che la solitudine pubblica a cui le classi subalterne sono da decenni esposte ha favorito l’espansione di una disabitudine alla riflessione politica sul proprio destino di classe e uno scollamento vistoso tra le narrative del sé e la reale condizione sociale degli individui. Per un certo verso, l’azione aggregante e dialogica che Dolci ci ha lasciato in eredità è più attuale che mai.

Non deve trarre in inganno nemmeno il clima di maggiore opulenza in cui di fatto viviamo nei confronti della Partinico degli anni ‘50. Dolci scriveva all’epoca: ‹‹Aspiro – se non voglio agitarmi come, pare, lo stercoforo frenetico – ad una chiara visione, ma so che potremo intuire sempre più delle finalità della storia e di ciascuno, quanto più tutti insieme. Purtroppo, non si è arrivati nemmeno a lasciar esistere tutti››[6]. L’intellettuale triestino sottolineava la difficoltà dell’instaurazione di un dialogo in un contesto difficile come quello di Partinico, in cui si verificavano quotidianamente omicidi, soprusi da parte delle forze di polizia, malattie debilitanti, persone ridotte alla fame. Tuttavia, l’impostazione di un dialogo sociale è anche oggi complicata e per ragioni diverse: l’accelerazione della vita cui siamo sottoposti, i livelli altissimi di stress che danno luogo a disagio psichico e sociale, la flessibilità lavorativa richiesta all’individuo che ha sortito effetti antropologici rilevanti, come sottolineano gli studi di Richard Sennett[7], danno luogo ad una desertificazione degli spazi politici, dei tempi e delle modalità per creare del collante comunitario.

Si pone così, al centro della nostra attenzione, un tema cardine della riflessione e dell’operato di Danilo Dolci: il lavoro, definito come una ‹‹verità che incarnandosi in vita migliora il mondo››[8]. Sfogliando le pagine sul processo cui è stato sottoposto Dolci nel 1956, dopo aver inventato con i disoccupati di Trappeto un nuovo e rivoluzionario metodo di contestazione, lo sciopero al rovescio, si nota che la colpa penale maggiore di cui sarebbe reo l’imputato sarebbe stata quella di aver proferito: ‹‹Chi va contro i lavoratori è un assassino››[9]. Dolci aveva radunato i disoccupati una mattina di febbraio e avevano iniziato a restaurare una strada dissestata, senza alcun permesso da parte delle autorità. Se lo Stato non dà il lavoro, i cittadini, in piena osservanza dell’art. 4 della Costituzione che prescrive il dovere morale dell’attività lavorativa al fine di contribuire al progresso materiale e spirituale generale, sono liberi di prenderselo. È su questo principio che Dolci imposta il suo sciopero, il quale invece di prevedere una sospensione dal lavoro, lo intensifica. Durante la manifestazione, Dolci sarebbe stato allontanato più volte dalle forze di polizia, ma sarebbe poi sempre ritornato pronunciando la suddetta invettiva contro gli agenti.

Malgrado poi, durante il processo, sia emerso da più testimoni che questa frase non sia stata pronunciata nelle forme riferite, resta vero il carattere vitale e altamente morale che Dolci conferisce all’attività lavorativa. Se c’è il lavoro – affermava Dolci – non c’è banditismo e degradazione morale. Il processo di emancipazione non può che avvenire tramite e nel lavoro – idea antica, oggi forse obliata. Viceversa, la mancanza di lavoro favorisce il parassitismo, la criminalità e l’abiezione morale.

Al primo colloquio in tribunale, Dolci e gli altri organizzatori della manifestazione sottoscrivono un documento che recita: ‹‹Il gruppo di polizia che giovedì è intervenuto, ha impedito violentemente a dei cittadini la libertà dell’esercizio delle proprie funzioni costituzionali; per l’art. 4 della Costituzione, infatti, oltre che un diritto il lavoro è un dovere. Non riusciamo a capire perché si vuole tenere una gran parte della popolazione con le mani in mano, ché il lavoro, è ovvio, oltre che ad una indispensabile funzione economica, assolve ad una altissima funzione educativa, morale››[10].

Il tribunale avrebbe quindi sbagliato imputato: sarebbe stata la polizia a commettere un reato, ad aver impedito l’esercizio di un diritto costituzionale, il lavoro. La posizione di Dolci è forte e radicale e trova in Calamandrei un grande sostenitore, il quale, durante il processo, arringa magistralmente:

‹‹La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunciatrici del futuro: “pari dignità sociale”; “rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”; “Repubblica fondata sul lavoro”; “diritto al lavoro”; “condizioni che rendano effettivo questo diritto”; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia “una esistenza libera e dignitosa”…

Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno udito queste promesse, e che vi hanno creduto e che ci si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possano ora esser condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente e senza far male a nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?››[11]

Non occorre nemmeno spendere altre parole per rimarcare l’estrema attualità di queste parole. Le delocalizzazioni selvagge, i salari da miseria, lo sfruttamento talora normalizzato dell’attuale capitalismo mettono di nuovo sotto processo l’articolo 4 della Costituzione e, forse, come indicava il nostro Danilo Dolci, occorre ripartire da lì, dalla difesa di questo sacro articolo, inventando nuove e radicali forme di contestazione.

Insieme: cercando di sviluppare piccole comunità che siano accomunate da visioni ampie e legami umani profondi, poiché, come recitano altri famosi versi di Danilo Dolci, ‹‹ciascuno cresce solo se sognato›› da altri – ma è sottinteso – che lo amano.


[1] N. Bobbio, Prefazione, in D. Dolci, Banditi a Partinico, Sellerio, Palermo 2024, p. 15.

[2] Cfr. D. Dolci, Poema umano, Mesogea, Messina 2016.

[3] Cfr. Id., Banditi a Partinico, Sellerio, Palermo 2024, pp. 84-180. Far riferimento al lungo capitolo “In alcune case di Partinico”.

[4] Ivi, p. 395.

[5] Cfr. D. Dolci, Poema umano, op. cit.

[6] D. Dolci, Banditi a Partinico, Sellerio, Palermo 2024, p. 329.

[7] Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, trad. it. di M. Tavosanis, Feltrinelli, Milano 2016.

[8] D. Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio, Palermo 2011, p. 46.

[9] Ivi, p. 54.

[10] Ivi, p. 79.

[11] Ivi, p. 308.

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