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Ma la pace è possibile?


2 Lug , 2024| e
| 2024 | Visioni

Tutti parlano di pace ma nessuno educa alla pace. A questo mondo, si educa per la competizione, e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace.

Maria Montessori

Questa è una delle domande più difficili, ma anche più importanti allo stesso tempo. È una delle domande più importanti non perché stiamo vivendo in un periodo in cui la guerra ha di nuovo occupato l’informazione quotidiana, ma perché le nostre società, le nostre comunità, non sono comunità di pace, anzi, sono esattamente l’opposto. Perché dico questo? D’altra parte, è dal 1945 che l’Italia, come anche il Regno Unito, la Francia, il Belgio, ma anche il Giappone, quindi fuori dalla solita bolla occidentale, non sono, ufficialmente, in uno stato di guerra. Per non parlare degli Stati Uniti, che dalla fine della guerra civile non hanno dovuto combattere una guerra all’interno dei loro confini – non considerando la parentesi di Pearl Harbour naturalmente. Quindi, perché affermo che la nostra società e le nostre comunità non sono in pace? Lo affermo per un motivo ben preciso. Tra i diversi significati, la parola <pace> vuol dire ‘legare, unire, saldare’ (Panigiani, 2018; Encilopedia Treccani, no date). Se pensiamo alla nostra società, alla nostra esperienza di relazione quotidiana con gli altri, possiamo dire che siamo una società i cui membri sono ‘legati, uniti e saldati’ tra di loro? Io direi di no e adesso spiego anche perché.

Una comunicazione che divide

Come riportato nella citazione sopra, Maria Montessori (1970) affermava che nonostante tutti parlassero di pace, nessuno realmente educasse alla pace. Al contrario, la Montessori notò come in realtà si educasse alla guerra attraverso la competizione. Queste considerazioni sono valide ancora oggi. Infatti, noi siamo spinti alla competizione, in ogni ambito, ma non alla competizione sportiva, che avrebbe tutto un altro significato, anche se oggi anch’essa è stata contaminata da un’interpretazione ed una pratica distorta di questo concetto. La competizione cui siamo spinti è quella che prevede la divisione gli uni dagli altri e l’annichilimento dell’altro, sia metaforicamente che materialmente. Uno dei modi attraverso cui è possibile identificare questa forma distorta di competizione è osservare la modalità con cui noi normalmente parliamo a noi stessi e agli altri, cioè il linguaggio che usiamo per comunicare con noi stessi e con gli altri. A questo riguardo, Rosenberg, psicologo e mediatore di conflitti, che ha dedicato la sua vita a cercare di capire da dove originasse la violenza, nelle sue diverse forme, e perché l’uomo a volte la scelga come modalità di interazione, si è focalizzato proprio sulla comunicazione, sul linguaggio e sul ruolo che ha nel creare le condizioni adatte affinché la violenza si possa verificare; affinché l’uomo possa scegliere di utilizzare la violenza.

In particolare, Rosenberg (2003, 2015) ha identificato una forma di comunicazione che ha definito <comunicazione o linguaggio che aliena dalla vita> (life-alienating communication/language). Alla base di questa forma di linguaggio c’è il giudizio moralistico di noi stessi e degli altri, giudizio basato sulla differenza Manichea tra ciò che è giusto, buono e ciò che è sbagliato, cattivo (ibid.). In altre parole, nel tentativo di distinguere in maniera empirica, quindi materiale, ciò che è giusto e bene da ciò che è sbagliato e male, l’uomo classifica sé stesso e gli altri secondo gradi di cattiveria e bontà. Inoltre, Rosenberg osservò anche un’altra tendenza, strettamente connessa alla forma di linguaggio basata sul giudizio moralistico, e cioè quella di identificare nei livelli di cattiveria presenti nell’uomo la causa delle stortezze e del male del mondo (ibid.). In effetti, se ci riflettiamo un attimo, noi spesso parliamo di noi stessi e di altri attraverso categorie cui alleghiamo un giudizio moralistico.

Per esempio, se un nostro collega è uso non completare il lavoro assegnatogli o se i nostri fratelli non rimettono in ordine la loro stanza, li definiremmo, e li definiamo, <pigri> o <inaffidabili>. Al contrario, quando qualcuno porta sempre a compimento il lavoro assegnatogli, questa persona sarà definita, ad esempio, <efficiente> o <affidabile> o ancora <brava>. E questo lo facciamo anche con noi stessi. Quante volte ci siamo definiti, per esempio, pigri perché non volevamo andare a fare attività fisica o non volevamo uscire di casa o andare a lavorare? E ad alcuni di noi sarà capitato di esserci detti che eravamo stati bravi perché avevamo raggiunto un obiettivo o perché avevamo preso un buon voto a scuola.

Inoltre, se riflettiamo bene, è anche vero l’altro punto che sottolinea Rosenberg e cioè che, quando le cose non vanno o vanno male, cerchiamo la responsabilità nell’altro, in ciò che non va nell’altro o anche in ciò che non va in noi. Questo perché valutiamo e giudichiamo noi stessi e gli altri sempre in base a gradazioni di cattiveria e di bontà. Perciò se qualcosa va male, deve essere per forza perché l’altro non ha fatto qualcosa o l’ha fatta in maniera errata, oppure perché io non ho fatto qualcosa o l’ho fatto in maniera errata. Quindi, perché c’è essenzialmente qualcosa di sbagliato o che non va nell’altro o in me. La conclusione di questo ragionamento – la conclusione errata, come verrebbe definita dal Movimento Darsi Pace (Guzzi, 2011) – è che, se eliminiamo le cose o le parti di noi stessi e degli altri che non vanno, cioè ciò che giudichiamo sbagliato e male, o se addirittura eliminiamo l’altro o persino noi stessi, o parte dell’altro e parte di noi stessi, le cose nel mondo andranno bene.

Questa riflessione ci dimostra e ci aiuta a renderci conto di come le nostre relazioni, a partire da quella con noi stessi e a finire con quelle con gli altri, sono intrise di giudizio. Il giudizio non può far altro che tenerci lontani gli uni dagli altri e anche da noi stessi. Infatti, se ogni caratteristica e azione viene associata ad un giudizio moralistico, che mira quindi a separare materialmente ciò che dell’uomo è bene da ciò che dell’uomo è male, financo a distinguere chi tra gli esseri umani è intrinsecamente buono e chi intrinsecamente cattivo, finiremo per tenere, prima di tutto, noi separati dagli altri, poi finiremo per separare le persone tra di loro e, infine, finiremo persino per separare noi da noi stessi. Quest’ultimo sembra un paradosso, ma in realtà, se ci riflettiamo attentamente, è proprio così perché cercheremo di annichilire quelle parti di noi e degli altri che giudichiamo e vengono giudicate negativamente, cioè come parti non buone. È proprio per questo che Rosenberg chiama questa modalità di comunicazione e di linguaggio alienante perché ci rende estranei a noi stessi. Lo psichiatra James Gilligan (2001) usa una terminologia più forte: egli definisce questo linguaggio disumano in quanto fondamentalmente snatura progressivamente la nostra umanità, il nostro essere umani. Qui, oggi, non ho la possibilità di approfondire il perché Gilligan, ma anche Rosenberg sebbene usi terminologie un po’ diverse, lo consideri un linguaggio disumano. Tuttavia, evidenzio due punti, secondo me, chiave.

Innanzitutto, nel momento in cui applichiamo giudizi moralistici su noi stessi e sugli altri, creiamo automaticamente una graduatoria di chi è migliore e di chi è peggiore (Gilligan, 2001; Rosenberg, 2015; vedi anche Sandel, 2021). Chi è migliore è generalmente colui che è superiore agli altri, che quindi merita di più e che ha più diritti di altri (Gilligan, 2001; Rosenberg, 2015). In sostanza, chi è migliore è più umano (Gilligan, 2001). Al contrario, coloro giudicati peggiori, sono inferiori, sono coloro che meritano di meno o addirittura nulla, sono coloro che hanno meno diritti o nessun diritto. In breve, sono meno umani o non sono umani per nulla (Gilligan, 2001).

In secondo luogo, e strettamente connesso a questa prima considerazione in quanto ne è conseguenza inevitabile, proprio questa graduatoria, che misura fondamentalmente il grado di umanità in ogni essere umano, non fa che dividere le persone sempre di più, mettendole sempre più l’una contro l’altra e, di nuovo, anche contro sé stesse. Questo non solo perché si cercherà di eliminare quelle parti e/o coloro ritenuti sbagliati o cattivi e quindi causa del male del mondo, ma anche perché, come spiega bene Gilligan (2001), l’essere sottoposti a giudizio moralistico provoca un dolore molto grande dentro l’essere umano, proprio perché va a ferirlo nella sua dignità, stabilendo quanto sia umano e se sia umano. Conseguentemente, sempre secondo la logica del colpire, tenere a bada, tenere lontano ed anche annichilire ciò che viene identificato come fonte del dolore e del male, ci si allontanerà sempre di più, da sé stessi e dagli altri, e si renderà l’uso della violenza, nelle sue molteplici forme, contro sé stessi e contro gli altri sempre più possibile e giustificabile, in quanto mezzo necessario a contrastare ciò che causa dolore e male.

Dunque, in conclusione, all’inizio di questo breve articolo ci siamo domandati se la pace fosse effettivamente possibile. Seguendo il ragionamento proposto da Rosenberg e Gilligan, ma anche da tanti altri, come ad esempio figure come Gandhi o più recentemente filosofi ed intellettuali di diverse discipline come Marianella Sclavi (2003, 2008), Roberto Mancini (2015, 2017, 2021) e Michael Sandel (2021), la risposta a questa domanda è sicuramente positiva e cioè: sì, la pace è possibile. Tuttavia, come si suol dire, non può cadere dal cielo. In altre parole, la pace è possibile nel momento in cui siamo noi stessi a cambiare modalità di relazionarci e di interagire con noi stessi e con chi e cosa ci circonda. Questo cambiamento relazionale potrebbe incominciare proprio dal riflettere sulla nostra comunicazione quotidiana, sul nostro linguaggio quotidiano, in quanto le parole che usiamo e che rivolgiamo a noi stessi e a gli atri ci rimandano a dei significati ben precisi e a delle interpretazioni del mondo e dei rapporti umani ben precisi, determinando quindi le nostre scelte di comportamento nei nostri confronti e nei confronti degli altri (e.g., Goodman, 1978; Sarbin, 1986; Sclavi, 2003).

Riferimenti

Encilopedia Treccani (no date) ‘Pace’, Treccani. Istituto della Enciclopedia Italiana Fondata da Giovanni Treccani, S.p.A. Available at: https://www.treccani.it/vocabolario/pace/.

Gilligan, J. (2001) Preventing Violence. Thames Hudson.

Goodman, N. (1978) Ways of Worldmaking. Hassocks: Harvester Press.

Guzzi, M. (2011) Darsi Pace. Gruppi di liberazione interiore. 3rd edn. Paoline Editoriale Libri.

Mancini, R. (2015) La rivolta delle risorse umane. Appunti di viaggio verso un’altra società. Verrucchio, fraz. Villa, Rimini: Pazzini Editore.

Mancini, R. (2017) ‘From Conflictual Systems to a Society of Peace: Nonviolence facing organized evil’, Diogenes, 61(3–4), pp. 59–70. Available at: https://doi.org/10.1177/0392192117701056.

Mancini, R. (2021) Gandhi. First. Milan: Feltrinelli (Eredi).

Montessori, M. (1970) Educazione e Pace. Garzanti Libri.

Panigiani, O. (2018) ‘Pace’, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana Online. Forgotten Books. Available at: https://www.etimo.it/?term=pace&find=Cerca.

Rosenberg, M.B. (2003) Le parole sono finestre [oppure muri]. Introduzione alla comunicazione non violenta. Reggio Emilia: Edizioni Esserci (Dire, fare, comunicare).

Rosenberg, M.B. (2015) Nonviolent Communication: A Language of Life. 3rd edn. PuddleDancer Press.

Sandel, M.J. (2021) The Tyranny of Merit. Can We Find the Common Good? Picador. New York.

Sarbin, T.R. (1986) Narrative Psychology: The Storied Nature of Human Conduct. Westport, Connecticut: Praeger.

Sclavi, M. (2003) Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte. Bruno Mondadori.

Sclavi, M. (2008) ‘In Theory. The Role of Play and Humor in Creative Conflict Management’, Negotiation Journal, 24(2), pp. 157–180.

 

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