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La lezione della pandemia su disavanzi e debiti pubblici


3 Lug , 2024|
| Visioni

Se la crisi finanziaria mondiale del 2007-08 e la crisi pandemica da COVID del 2020-21 ci hanno insegnato qualcosa è che, nei sistemi monetari moderni, i) i governi e le banche centrali non possono mai finire i soldi – infatti, al contrario di quanto vale per le risorse reali (come la forza lavoro delle persone, le risorse naturali, le materie prime e così via), che sono risorse limitate (o scarse), la moneta, di per sé, non è e non può essere una risorsa scarsa, nonostante lo sia, in effetti, per ciascuno di noi cittadini privati; ii) le logiche di gestione del budget pubblico non sono le stesse che valgono per i budget individuali privati; iii) le logiche di sostenibilità del debito “pubblico” non sono le stesse che valgono solitamente per un debito privato individuale di famiglia o impresa.

Durante la crisi finanziaria mondiale del 2007-08, così come durante la crisi da COVID, le principali Banche Centrali hanno, direttamente e indirettamente, prestato al sistema bancario e finanziario migliaia di miliardi tra dollari, sterline, yen ed euro per rifinanziare e, de facto, salvare il sistema bancario-finanziario e l’ordine globale del capitale (di quel capitale finanziarizzato, concentrato in oligopoli privati e dominato da posizioni finanziarie ponzi). Dal 2009 in avanti e, di nuovo, nel 2020-21, sempre le Banche Centrali hanno attuato una serie programmata di acquisti dalle banche di titoli di Stato (e di obbligazioni aziendali) nell’ordine di migliaia di miliardi tra dollari, yen, sterline ed euro, un’operazione quest’ultima che prende il nome di “quantitative easing” (o “alleggerimento quantitativo”). Durante la pandemia, gli Stati hanno accreditato bonifici in favore di lavoratori, famiglie e imprese, in alcuni casi, per centinaia di miliardi, in altri, per migliaia di miliardi tra dollari, yen, sterline ed euro.

Nel 2020, lo Stato italiano, ad esempio, ha registrato un rapporto deficit pubblico – PIL pari al 9,4% (dati ISTAT), sia per gli effetti recessivi della crisi sui redditi (PIL) e, quindi, sul gettito fiscale (nel frattempo crollato) e per effetto degli stabilizzatori automatici dell’economia (spese pubbliche per sussidi, cassa integrazione eccetera), sia per via delle politiche economiche di sostegno (altri aumenti di spesa pubblica) realizzate deliberatamente dall’allora governo Conte II.

L’aumento dei disavanzi e dei debiti pubblici ha consentito di porre un freno al crollo dei redditi privati di lavoratori, famiglie e imprese e, insieme alle garanzie pubbliche su rifinanziamenti bancari di emergenza, di porre un freno ad una potenziale ondata di insolvenze private delle famiglie e delle imprese su debiti contratti in passato nei confronti del sistema bancario. Questo ha dato modo a lavoratori, famiglie e imprese di soddisfare, in minima o buona parte, i rispettivi desideri di risparmio e di renderne liquidi i rispettivi bilanci, fornendo un’àncora di certezza in un momento in cui il futuro si mostrava come totalmente incerto.

I governi che hanno speso in deficit maggiormente e più tempestivamente, data la disoccupazione reale ereditata prima del COVID e dato l’impatto della crisi, sono stati i governi più fiscalmente responsabili, i quali hanno messo il bilancio pubblico al servizio dell’interesse pubblico attutendo, così, gli effetti devastanti della crisi stessa ed evitando di innescare un processo distruttivo di deflazione da debito[1]. In altri termini, senza i più ampi disavanzi pubblici la crisi da Covid sarebbe stata ancora più socialmente ed economicamente disastrosa, ponendo ulteriori pressioni esistenziali sulla civiltà umana.                                             

Per il 2020, il disavanzo pubblico complessivo dello Stato italiano è risultato, in termini assoluti, pari a circa 156 miliardi di euro rispetto ai circa 27 miliardi dell’anno precedente (dati Istat). Non male per uno Stato che – ci ripetevano fino allo sfinimento – aveva “finito i soldi” (sic)!

Come conseguenza, da un lato, del crollo del PIL e del gettito fiscale, dall’altro dell’aumento della spesa pubblica, il rapporto debito pubblico-PIL è parimenti aumentato raggiungendo il livello più alto della storia del Paese dal secondo dopoguerra, pari al 155%. Tuttavia, nonostante gli aumenti significativi dei disavanzi e debiti pubblici in rapporto al PIL e i picchi storici raggiunti dai due rapporti, i rendimenti sui titoli di Stato (e nel caso dell’eurozona gli spread) sono diminuiti fino a raggiungere i minimi storici![2]                                                 

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Non esiste alcuna correlazione strettamente positiva tra la dimensione del debito pubblico e i rendimenti sui titoli di Stato (interessi sul debito).

Non è assolutamente vero che a debito pubblico (più) alto corrispondono, sempre e comunque, interessi (più) elevati!

La lezione della pandemia su disavanzi e debiti pubblici

[Fonte: elaborazione dell’autore su dati Banca d’Italia; rendimenti lordi mensili dei BTP italiani a 10 anni (valori percentuali) e rapporto debito pubblico-PIL italiano (valori percentuali), Italia, periodo 2002 – 2023]

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A rigor di logica, come ci dicono ogni giorno e ogni notte che Dio ha comandato, se il budget di uno Stato e il debito pubblico seguissero, rispettivamente, le stesse logiche di gestione e di sostenibilità di un budget e di un debito privato, allora durante la pandemia avremmo dovuto avere uno Stato che tagliava le spese esattamente come un privato fa durante una crisi per effetto dell’incertezza totale verso il futuro e avremmo dovuto assistere ad un’ esplosione dei rendimenti sui titoli di Stato (italiani e non solo), dati i livelli record dei rapporti deficit e debito pubblico-PIL. Avremmo dovuto assistere a più Paesi costretti, già nel 2020, o a dichiarare default o a richiedere una procedura di ristrutturazione del debito pubblico (magari accedendo, nel caso dell’euro-area, all’altra camera istituzionale delle “torture da austerità” qual è il MES che, con una BCE che si fa da garante di ultima istanza dei debiti pubblici in euro, diventa un’istituzione totalmente inutile, oltre che dannosa).

Per i Paesi dell’euro, privati del controllo monopolistico delle rispettive monete nazionali, evitare il default è stato possibile solamente grazie al sostegno e alla garanzia-contro-il-default che la BCE – nuovo monopolista della moneta (euro) – ha dovuto fornire durante la pandemia ai detentori – domestici e stranieri – di titoli di Stato (in euro), sulla scia di quanto fu già fatto dall’istituzione monetaria di Francoforte nel luglio 2012.

Inoltre, l’euro-area non ha avuto una seconda crisi degli spread durante la pandemia, nonostante i debiti pubblici di più Stati della zona-euro fossero decine di punti percentuali di PIL superiori rispetto ai livelli registrati durante lo scoppio della “crisi dei debiti pubblici” del periodo 2010-prima metà del 2012. Se, nel luglio 2012 (e nel marzo 2020), la BCE non avesse compiuto (e ribadito) la svolta verso un operato più simile a quello di una tradizionale Banca Centrale – volto a garantire, direttamente e/o indirettamente, la liquidità dei titoli di Stato – l’euro sarebbe cessato di esistere già da un po’ di anni.

Le logiche di gestione del budget pubblico e di sostenibilità del debito pubblico non sono quelle che valgono, rispettivamente, per un budget e un debito privati.                                         

Sia in seguito alla crisi finanziaria mondiale che con la crisi da COVID, abbiamo appreso, dunque, che la sostenibilità finanziaria del debito di uno Stato non dipende dalla dimensione di quel debito (come potrebbe valere per un tradizionale debito privato di famiglia o impresa), ma dipende dalla struttura istituzionale del sistema monetario, ovvero da un’architettura istituzionale del sistema monetario che preveda la presenza di una garanzia sul debito “pubblico” da parte della Banca Centrale (da noi la BCE).

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La sostenibilità finanziaria del debito pubblico non dipende dalla dimensione del debito in rapporto al PIL…..

La lezione della pandemia su disavanzi e debiti pubblici

[Fonte: elaborazione di Folk Economy su dati Banca d’Italia; rendimenti lordi mensili dei BTP a 10 anni (blu, valori percentuali, asse sx) e rapporto debito pubblico-PIL italiano (arancione, valori percentuali, asse dx), Italia, periodo 2002 – 2023]

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Non sono i mercati finanziari e la loro attività speculativa a determinare i rendimenti sui titoli di Stato (e, nell’eurozona, gli spread). Ma è semplicemente la Banca Centrale di uno Stato (da noi, la BCE-senza Stato) a guidare o a controllare i rendimenti sui titoli di Stato e a garantire contro il default il debito pubblico. All’interno della zona euro, lasciare la determinazione dei rendimenti e degli spread sui debiti pubblici in euro alle decisioni speculative dei mercati finanziari è sempre e solo una scelta politica della BCE.                                           

I tassi d’interesse ufficiali a breve termine della Banca Centrale, i rendimenti sui titoli di Stato a più scadenze e gli spread (o i differenziali di rendimento verso titoli equivalenti tedeschi), non sono variabili di “mercato”, ma variabili politiche. In particolare, rappresentano delle variabili sotto il controllo e l’influenza della politica monetaria della Banca Centrale. Lo abbiamo visto anche in questi anni post-Covid in cui alla decisione delle banche centrali di aumentare i tassi d’interesse ufficiali a breve termine, sia questi ultimi che tutti gli altri tassi d’interesse nell’economia sono aumentati di conseguenza, dimostrando ancora una volta che le decisioni sui tassi d’interesse sono decisioni politiche di competenza della Banca Centrale[3].

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……ma dalla struttura istituzionale del sistema monetario o, nell’eurozona, dalla presenza di una garanzia esplicita e credibile da parte della BCE sui debiti pubblici in euro!

La lezione della pandemia su disavanzi e debiti pubblici

[Fonte: elaborazione dell’autore su dati Banca d’Italia; rendimenti lordi mensili dei BTP italiani a 10 anni (valori percentuali) e rapporto debito pubblico-PIL italiano (valori percentuali), Italia, periodo 2002 – 2023]

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Una banca centrale, nel nostro caso la BCE, non ha alcun potere discrezionale nel decidere se garantire o meno la solvibilità e la liquidità dei titoli di Stato, in quanto l’assenza di una garanzia da parte della BCE sui debiti pubblici in euro, ossia di quell’istituzione che ha il monopolio sulla liquidità (riserve bancarie, banconote) in euro, condurrebbe ad una perdita del controllo dei tassi d’interesse da parte della banca centrale stessa e ad una crisi finanziaria e del sistema dei pagamenti, determinando una violazione illegale degli obiettivi stabiliti nel mandato istituzionale di qualsiasi banca centrale, quali il mantenimento della stabilità finanziaria e della stabilità del sistema dei pagamenti all’interno della propria giurisdizione, in aggiunta all’obiettivo della stabilità dei prezzi al consumo (che verrebbe minacciato dalle pressioni deflazionistiche generate da una potenziale crisi bancario-finanziaria e da una crisi del sistema dei pagamenti).

Il problema dell’eurozona restano le regole e i vincoli antiscientifici di bilancio, così come sanciti nel Fiscal Compact e nel Patto di Stabilità e Crescita, nonché l’assenza di un programma ufficiale di controllo degli spread e, dunque, di garanzia permanente, esplicita e credibile dei debiti pubblici in euro da parte della BCE. Tutto ciò lascia i governi nazionali, che sono ostili ai vincoli soffocanti di bilancio, nelle mani della speculazione dei mercati finanziari. Se un governo vuole fare politiche economiche espansive, lo scontro politico con la Commissione Europea (e con diversi governi dell’euro-area, a partire da quello tedesco) sarebbe praticamente inevitabile, date le regole sancite nei Trattati – che obbligano gli Stati con disavanzi e debiti pubblici superiori a determinate soglie percentuali, arbitrariamente fissate, di ridurre, nel medio termine, il disavanzo e il debito pubblico mediante politiche di tagli e tasse – poco importa se proprio le politiche di austerità sono quelle che determinano un aumento del rapporto debito pubblico-PIL![4].

Insomma, se non accetti la camera delle torture perenni dell’austerità, allora l’economia del Paese sarà sottoposta dalla BCE e dalla speculazione finanziaria ad una logorante spirale al rialzo di interessi e spread che determinerebbe una crisi bancaria e finanziaria che, a sua volta, costringerebbe un governo nazionale e le istituzioni europee a prendere una decisione: ritornare nella morsa della gabbia dell’austerità oppure uscire dall’euro. In altre parole, la BCE è un’istituzione politica ordoliberale e, perciò, tecnocratica e antidemocratica al servizio delle oligarchie finanziarie e non un’istituzione “tecnica a-politica”. Non esistono banche centrali “a-politiche”!

E’ necessario guardare ai vincoli di scarsità naturale delle risorse reali, e non ad arbitrari vincoli di bilancio.

Quando parliamo di “bilancio” pubblico possiamo, dunque, iniziare a mettere da parte le oramai stucchevoli, false analogie alle quali la propaganda neoliberale ci ha indotti, con inganno, a credere. Ne rappresenta un esempio l’equiparazione, rispettivamente, delle logiche di gestione di un budget familiare individuale e le logiche di gestione di un budget pubblico-statale, nonché l’equiparazione delle logiche di sostenibilità di un debito privato con le logiche di sostenibilità di un debito pubblico. In estrema sintesi, la questione non è e non dovrebbe essere se uno Stato può permettersi finanziariamente di spendere di più, ma se lo Stato dovrebbe spendere di più e, se sì, per chi e per cosa dovrebbe spendere di più. Si tratta, in altre parole, di questioni non strettamente finanziarie o “tecniche”, ma di questioni eminentemente politiche. L’economia è politica e la “tecnica” a-politica non esiste, perché la società è divisa in classi e gruppi sociali che hanno ruoli e posizioni differenti e interessi in contrapposizione, che la politica è (sarebbe) chiamata a mediare in linea con i principi costituzionali del ’48.

I limiti all’impiego socialmente produttivo e sostenibile delle risorse reali che abbiamo come nazioni – dalla forza lavoro delle persone alle materie prime, dai terreni ai macchinari e così via – non sono dettati dalle risorse finanziarie – potenzialmente illimitate e, per definizione, non scarse – ma dalla scarsità delle risorse reali che, a sua volta, richiede che la società sia capace di garantire il soddisfacimento delle condizioni per la riproduzione di quelle stesse risorse comunque scarse. I limiti alla spesa in deficit dello Stato sono dettati, dunque, non da una scarsità finanziaria artificialmente imposta da regole antiscientifiche e arbitrarie, ma dalla scarsità naturale delle risorse reali, quali la forza lavoro umana e le risorse naturali, così come dai colli di bottiglia settoriali (situazioni di carenze nella disponibilità di materie prime e/o di semilavorati industriali fondamentali alla produzione di altri beni intermedi e alla produzione di beni e servizi di consumo).

Se, in linea con gli articoli 1, 2, 3.2, 4, 31, 35, 36, 37, 38, 41, 45 e 46 della Costituzione italiana, un’economia operasse a livello di piena e buona occupazione delle risorse reali del Paese (con “stabilità dei prezzi”), allora un ulteriore aumento della spesa in deficit dello Stato potrebbe benissimo generare inflazione da eccesso di spesa (o da eccesso di domanda di merci e di forza lavoro). In tal caso lo Stato starebbe spendendo troppo. Qualora, invece, un’economia operasse ben al di sotto delle proprie possibilità e capacità produttive, ossia con disoccupazione reale di massa (vedi il caso dell’Italia, specie del Sud), allora significherebbe che lo Stato starebbe spendendo in deficit troppo poco, date le decisioni di spesa di famiglie, imprese e resto del mondo.

Questa è esattamente la situazione che riguarda il nostro Paese da almeno tre decenni a questa parte in cui lo Stato italiano ha registrato avanzi primari record, drenando in tal modo continuamente risorse finanziarie e reali dall’economia privata di lavoratori, famiglie e imprese. In aggiunta, la maggiore spesa pubblica di cui necessiterebbe un’economia così depressa (e le minori tasse) dovrebbe(ro) essere indirizzata(/e) a chi ha maggior bisogno: i lavoratori disoccupati e sottoccupati, le imprese sociali no profit, le cooperative di lavoratori, gli artigiani, i liberi professionisti, la micro, piccola e media impresa, i disabili, i non-autosufficienti, gli infermi, i bambini e gli anziani. Non agli oligopoli privati europei e americani delle armi, della finanza speculativa, della farmaceutica e delle piattaforme digitali, non ai banchieri, non ai rentier baroni delle privatizzazioni e non ai grandi rentier immobiliari. Ma alla parte più sofferente del 90% della popolazione.

Tuttavia, per fare questo, è necessario, prima di ogni cosa, emancipare le nostre menti e la nostra cultura politico-economica dai falsi miti dell’ideologia (nei fatti, fascio-liberista) dell’austerità e dell’annessa propaganda neoliberale sul debito pubblico. Altrimenti, chiunque dirà che ”non ci sono i soldi” e “non possiamo permetterci (nel XXI secolo) di stare tutti bene!”, non sembrerà l’equivalente di un terrapiattista, ma apparirà come un politico (o un economista) che, nelle proprie analisi, è mosso da un approccio “fiscalmente responsabile”, come una persona che, presumibilmente, opererebbe per il bene di tutti, specie va da sé, delle future generazioni.

Riferimenti bibliografici.

Papadimitriou, D. B., & Wray, L. R. (2024). Still flying blind after all these years: The Federal Reserve’s continuing experiments with unobservables. Society and Economy.


[1] Una situazione in cui famiglie, imprese e banche private sono costrette a liquidare in massa i propri beni (attivi) al fine di ottenere liquidità con cui pagare i propri debiti privati; questa liquidazione di massa porterebbe i prezzi dei beni (o degli attivi) privati a crollare al di sotto del valore nominale dei debiti privati: da una crisi di liquidità, causata ad esempio da politiche fiscali poco espansive o addirittura austere, si passerebbe così ad un effetto domino di insolvenze dei privati sui propri debiti con distruzione accelerata di posti di lavoro e di redditi, capitali e ricchezze private.

[2] Nell’arco dei 269 mesi di euro-zona (gennaio 2002 – maggio 2024), solo in 20 mesi i rendimenti sui BTP decennali sono stati pari o inferiori all’1%: di questi, ben 18 mesi sono relativi ai 2 anni di pandemia, 2020 e 2021, in cui il rapporto debito pubblico – PIL è stato ai livelli più alti dal secondo dopoguerra, rispettivamente al 155% e al 147,1% (gli altri due mesi sono relativi al 2019 quando comunque il rapporto debito pubblico-Pil era ai livelli storicamente più elevati). In particolare, in 6 mesi del 2020 e nei 12 mesi del 2021, i rendimenti dei BTP non hanno quasi mai superato l’1%. Il dato più alto è stato quello del dicembre 2021 pari all’1,04%, il più basso quello di dicembre 2020 pari allo 0,57% (dati Banca d’Italia).

[3] La maggior parte delle banche centrali, da circa tre decenni, ha automatizzato le decisioni sui tassi d’interesse ufficiali a breve termine vincolandole all’andamento del tasso d’inflazione effettivo rispetto ad un’inflazione obiettivo (target) di medio termine (fissata al 2%). Questa strategia politica, che prende il nome di inflation targeting, risponde ad una cornice ideologica di teoria economica che ha perso ogni credibilità e autorevolezza scientifica allo scoppio della crisi finanziaria globale del 2007-08 e che, per quanto riguarda la capacità delle banche centrali di governare, da sole e senza costi sociali, l’inflazione e la crescita del PIL nel breve termine, si è dimostrata pressoché fallimentare sia prima che dopo la crisi finanziaria globale, ma anche dopo la crisi da Covid-19 (si veda a riguardo Papadimitriou e Wray 2024).

[4] La speculazione dei mercati finanziari inizierebbe a colpire il Paese che sarebbe ostile alla gabbia delle torture dell’austerità perenne, in quanto i mercati inizierebbero a scontare il maggior rischio di cambio che deriverebbe dalla maggiore probabilità che, in seguito allo scontro con Bruxelles, il Paese in questione possa, alla fine, uscire dall’euro. A quel punto, la BCE ribadirebbe che non sarebbe lì per “chiudere gli spread” o che non sarebbe lì per garantire i debiti pubblici di singoli Paesi dell’euro – ovvero di quei Paesi ostili all’austerità – andando così ad aggravare e ad alimentare le pressioni speculative sul debito pubblico del Paese in questione (specie laddove il rapporto debito pubblico-PIL è relativamente più elevato, come in Italia). Le pressioni speculative dei mercati finanziari, l’aumento effettivo dei rendimenti e dello spread e l’assenza di una garanzia esplicita e credibile sui debiti pubblici in euro da parte della BCE costringerebbero il governo di quel Paese o a piegare la testa di fronte al ricatto dello spread reso possibile, in ultimo, dalla posizione politica selettiva assunta dalla BCE e a ritornare, così, nella gabbia dell’austerità oppure ad uscire dall’euro. Se è vero che la BCE, in quanto banca centrale, non ha discrezione nel garantire, in ultima istanza, la liquidità di tutti i titoli di Stato in euro, è anche vero che, in quanto monopolista della liquidità in euro, la BCE ha comunque il potere di puntellare il ricatto dello spread, ossia di lasciare il governo di un Paese ostile al pilota automatico dell’austerità sotto le forti pressioni della speculazione dei mercati finanziari, fintanto che non accetti di piegare la testa, a fronte di una crisi finanziaria che potrebbe coinvolgere il continente o dell’alternativa ritenuta molto “costosa” di un’ “uscita dall’eurozona”.

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