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Appunti su Pampaluna di Sara Durantini

Pampaluna di Sara Durantini (Dalia) racconta del tempo che passa, di un’epoca di cambiamenti divenuti storia non ancora assimilata – il crollo del muro di Berlino, per esempio – e lo fa con una malinconica cristallizzazione, quasi il tempo si arrestasse per rammemorare l’epoca che fu e che mai ci è stato dato di metabolizzare, o anche solo di digerire. Racconta l’ultimo scorcio del secolo in cui siamo nati: la televisione, le canzoni, gli ultimi bagliori di un periodo chiamato Prima Repubblica, in cui di certo non si stava meglio di ora, ma forse era meno complesso raccontarsi una presenza del quotidiano. Tra le pagine un mondo mitico si srotola, il mondo contadino, colto nella sua fase estrema, prima della scomparsa preconizzata da Pasolini, e si assapora un periodo mitico della vita, l’infanzia.
Abbiamo quindi una doppia mitologia e un doppio romanzo di formazione: quello della protagonista e quello dell’epoca in cui, in fondo, siamo ancora immersi: due albe di cui oggi vediamo il pieno giorno – senza tuttavia accoglierlo o accettarlo passivamente.
Ma forse quello che riluce con più forza è la storia di una bambina disarmata, che non riesce a esprimersi come vorrebbe, che non ha radici, perché la sua famiglia è un albero tagliato, e che in progressione trasforma la sua diversità, il suo sradicamento, in scrittura.
La scrittura.
Tutti coloro che la praticano sono in qualche modo sradicati, diversi, scandalosi, esorbitanti, complici e innocenti. Scrivere è tagliarsi il ricordo dal sangue, evaporare nella sublimazione dell’indicibile. La scrittura porta alla luce la parte nascosta, ciò di cui ci si vergogna, tanto che occorre poi dire a gran voce: non sono io, non me. E invece Sara ha il coraggio e la forza di dire io, mentre avanza implacabile la storia e, nella sua avanzata, disgrega ciò che resta dell’identità personale.
L’identità è ricostruita nel ricordo, laddove sopraggiunge un altro io che non coincide con la persona, ma si fa personaggio di una micro-storia nella macro-storia. Per me la trama non ha mai avuto senso o importanza, è solo il dire che resta della propria storia a farne un frammento della storia universale del mondo; dove tempo, identità e natura sono confuse e trasfigurate da un soggetto altro che emerge prepotente nella voce di un personaggio.
Mai ricondurre il personaggio alla persona. Ciascuno inventa la propria autobiografia e la distrugge.
Nella grazia della prosa di Durantini non scorgo una ricerca di sovversione o scandalo, ma forse non è improprio accostare la protagonista, con i suoi problemi di elocuzione, a quelle donne perdute che il mondo contadino condannava perché avevano sperato di stare con l’uomo che amavano o perché troppo vivaci e diverse.
La diversità dà scandalo, anche la diversità gentile. Forse la gentilezza è la forma più radicale di diversità, di scandalo e di protesta. E mi viene da pensare che la protagonista di queste pagine trovi, sì, il modo, scrivendo, di trasformare un male ricevuto in un bene donato, ma non trovi per sé la pace, in quanto la scrittura è un fare che s’adempie solo in chi legge e mai in chi scrive, a cui resta il tormento di scrivere e mai la pace conciliatoria dell’aver detto l’ultima parola sui fatti.
Ricordando Nietzsche: Non esistono fatti, solo interpretazioni.
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