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La guerra per la pace, la pace per la guerra


5 Lug , 2024| e
| 2024 | Visioni

La storia della guerra coincide, in larga parte, con la storia dell’umanità. Questa tremenda constatazione dovrebbe farci riflettere, più che sulla genesi di ogni singola guerra, sulla natura bellica costitutiva di un certo modo d’essere umani. Di questo livello antropologico del discorso relativo alla natura “ontologica” della guerra, quasi nessuno sente il dovere di parlarne. Eppure, stando a quanto afferma uno dei più grandi antropologi del Novecento, Bronisław Malinowski: “L’opinione secondo cui la guerra è una necessità biologica, è assolutamente insostenibile. Tuttavia, dal punto di vista biologico, la guerra che è condotta con uno scontro diretto, dove le forze si oppongono alla forza, il coraggio al coraggio, e l’abilità all’abilità, è completamente consona al principio della durata del più capace”.

Questa lucida osservazione, fatta dall’antropologo e sociologo polacco, è stata vera fino a quando alla guerra dei corpi contro i corpi si è sostituita la guerra meccanizzata, quella fatta con l’impiego di armi a distanza. Da molti secoli ormai: “La guerra — come ci ricorda sempre Malinowski — è diventata una prova di forza tra macchine, imprese industriali e organizzazioni finanziarie”. In un certo senso, abbiamo potuto assistere a un progressivo allontanamento dell’essere umano, inteso come soggetto portatore di valori e di ideali, dal campo di battaglia. O, per lo meno, possiamo dire che vi è stato un distacco fra l’occhio umano di chi sferra il colpo e l’occhio umano di chi lo riceve. Dalla guerra “umana”, con tutte le annesse aberrazioni, siamo passati alla guerra “dis-umana”, dove di umano non vi è più nulla.

Dall’invenzione della polvere da sparo, fino ad arrivare alla più recente Cyber-war, ciò che sembra radicalmente cambiato è il fattore antropologico. Prima l’uccisione del nemico, nonostante fosse comunque un gesto deprecabile e inaccettabile (a maggior ragione per noi contemporanei), avveniva necessariamente tramite un confronto di forze che si esprimevano sul piano biologico, ideologico, e quindi antropologico. Per ammazzare l’altro bisognava superare quel freno inibitorio che ora, per via del potente filtro tecnologico, non è più necessario. Come scrisse anni fa lo psicologo Luigi Zoja, nel suo celebre libro La morte del prossimo: “La tecnica e l’economia perfezionano il prodotto, ma i loro procedimenti separano gli uomini contribuendo all’isolamento e alla privazione sensoriale”[1]. Ciò vale per tutti i prodotti… comprese le armi da fuoco.

Per essere ancora più chiari, Malinowski dice che: “L’uccisione meccanica e di massa di sconosciuti e di innocenti — uomini, donne e bambini — da una posizione sicura non può trasformare il coraggio in assassinio. È l’atto di un crimine premeditato e codardo su scala gigantesca”. Chissà cosa avrebbe detto Malinowski se avesse potuto vedere i migliaia di morti civili che stanno cadendo ora in Palestina o le migliaia di vittime innocenti che sono morte in Iraq perché bersagliate da militari USA, che se ne stavano seduti comodamente su elicotteri da guerra giocando a fare i cecchini sulla popolazione inerme (vedi fonte WikiLeaks).

Nelle guerre del XXI secolo non c’è più niente di umano, di eroico, di valoroso. Siano esse guerre combattute in nome della libertà, della pace, della salvaguardia della nazione o guerre di espansione territoriale. L’inumano è diventato il perimetro della guerra e l’uomo è posto al centro del bersaglio. In questo senso aveva ragione Malinowski quando già nel 1936 sosteneva che: “La futura guerra non sarà condotta da eroici volontari ma da uomini reclutati, ossia costretti con la forza ad essere assassini o ingaggiati per questo scopo”[2]. Direi che, osservando gli ultimi dati, ci siamo arrivati. Infatti, non tutti sanno che nelle guerre che sono tuttora in corso — in particolar modo quella Russo-Ucraina e quella Israelo-Palestinese —, vengono impiegati dagli stati belligeranti un numero davvero impressionante di mercenari. In un dossier del 2023, fatto da Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo, si legge che: “Sono sempre più i mercenari o contractor utilizzati nei vari contesti di guerra. Si tratta di soldati privati, dipendenti di società di sicurezza, ingaggiati dagli Stati per adempiere ai compiti più disparati. Nel tempo queste organizzazioni paramilitari sono diventate delle vere e proprie forze armate parallele, sempre più utilizzate dalle superpotenze per gestire i conflitti nei casi in cui non vogliano usare i propri soldati, ma anche per controllare aree di interesse strategico”[3].

Ora, questo dato ci può servire per provare a ragionare partendo da due semplici considerazioni. La prima è una considerazione di natura economica e politica. L’utilizzo di battaglioni di assoldati macellai ben addestrati, che però non fanno parte necessariamente dello stato che li ingaggia, permette un risparmio economico-politico che è calcolabile in termini di risorse umane e di controllo dell’opinione pubblica interna. In quanto, da una parte, essendo i mercenari dei killers professionisti, il lavoro sporco lo sanno fare molto bene, cioè senza inutili perdite; dall’altra, non morendo molti giovani soldati di ruolo, lo stato ha meno morti da dover giustificare alla nazione, di fronte alle madri e ai padri che altrimenti chiederebbero giustizia per i loro figli.

La seconda considerazione, forse meno scontata della prima, riguarda proprio l’aspetto antropologico. La mia impressione è che una parte consistente dell’umanità si sia stufata di dover risolvere i problemi tramite l’uso della violenza e delle armi. Non sopporta più la retorica della guerra fatta per la pace o della pace fatta per la guerra (significativa, in tal senso, è la recente batosta elettorale che il capo dei guerrafondai europeisti, Emmanuel Macron, si è presa in Francia nelle ultime elezioni europee).

Schifata di vedere persino la morte in guerra disumanizzarsi fino al punto di smarrire le tracce minime del contorno umano, una parte dell’umanità, quella più sensibile e cosciente, è diventata radicalmente non violenta. Quindi lo stato anche quando decide, criminalmente, di fare una guerra, è costretto a mandare avanti i boia, i macellai, gli apolidi assassini, invece che far combattere direttamente dei soldati di ruolo in nome dei non più solidi ideali di patria, bene, giustizia, democrazia, Dio o pace. A parole i capi di stato cercano ancora di coprire questo inedito dato antropologico, inneggiando alla guerra di civiltà; ma poi, nei fatti, si ritrovano costretti a dover fare i conti col fatto che nemmeno i soldati regolari vogliono più combattere. (In Ucraina nel settembre del 2023 si contavano circa 200.000 “disertori”[4]; adesso il numero è sicuramente aumentato.)

Ovviamente so bene che ci sono ancora tanti soldati che vengono arruolati per andare al fronte, e che, purtroppo, questi sono riempiti dalla mattina alla sera di chiacchiere nazionalistiche e moralistiche per evitare che siano troppi coloro che disertano. Ciononostante, quello che emerge da questo dossier molto interessante è che: “La guerra, pensata in genere come il mezzo attraverso il quale preparare l’avvento della pace, può tuttavia trasformarsi nel più violento e spietato degli scontri”, come dice il filosofo Miguel Benasayag. Ciò è confermato dalle guerre di religione del passato, ma anche dalle guerre tecnologiche e trans-umane più moderne[5]. Ed è per questo motivo che, nel 2024, a uccidere in nome della pace sono sempre meno soldati regolari e sempre più bande di criminali al soldo degli stati codardi.

“La pace, concepita e perseguita come fine della guerra — dice sempre Benasayag —, trasforma la guerra in strumento della pace, e nel nome della pace rende possibile accettare l’inflazione illimitata della violenza”[6]. È questo il terribile giochino che si usa fare nelle “democrazie” postmoderne. Si mistifica la realtà e si cambia il significato delle parole. Piuttosto che assumere una posizione che sia radicalmente non violenta, ma fortemente a favore di una lotta diplomatica, a colpi di parole, fino all’ultimo respiro, si preferisce camuffare la disumanizzazione degli scenari di guerra (e, più in generale, dell’intera società), andando contro la Costituzione e la morale condivisa.

Il passaggio antropologico che stiamo vivendo ci impone la ricerca della pace, quella vera, come unica via di salvezza biologica e spirituale. “Il pacifismo — scriveva Ernesto Balducci in un suo articolo del 1992 intitolato Addio alle armi? — è l’unica via della legalità internazionale”. In quanto: “Ogni logica che ricorra allo strumento guerra è fuori dalla legalità internazionale”. Questo nesso fra la pace come principio spirituale e l’azione pacifica come nuova forma di giurisdizione globale, dovrebbe essere ormai evidente. Specialmente se pensiamo alla possibilità, sempre più concreta, della guerra nucleare.

Saremo in grado di comprendere questo messaggio, che è insieme pacifico e rivoluzionario, senza dover passare per le forche caudine di un’ennesima guerra di sterminio? Riusciremo a capire che la pace autentica è l’antitesi della guerra e che ogni guerra, ogni minaccia, ogni provocazione è solamente l’anticamera di una prossima guerra, sempre più oscena e sempre più disumana?


[1] B. Malinowski, Sulla guerra, Bonanno, Acireale-Roma, 2008, p. 22

[2] Ivi. p.44

[3] https://www.atlanteguerre.it/notizie/dossier-la-guerra-come-mestiere-i-mercenari-nel-mondo/

[4] https://ilmanifesto.it/gli-uomini-contro-dellucraina-quasi-200-000-i-disertori

[5] Su questo punto, suggerisco di vedere il mio recente dialogo proprio con il filosofo argentino Benasayag:

[6] M. Benasayag, Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano, p. 52

Di: e

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