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Politica e ontologia lacaniana
Recensione di Poderes de la abyección: Política y ontología lacaniana I di Ricardo Laleff Ilieff (Barcellona/Buenos Aires: Miño y Dávila, 2022, pp. 136)
Notoriamente l’Argentina, ma l’America in generale, è terra di immigrazione europea. Il libro che ci accingiamo a trattare mostra a nostro avviso la grande fecondità della migrazione di due figure ingombranti del panorama teorico europeo in Argentina: la psicoanalisi e il pensiero del politico. Poderes de la abyección: Política y ontología lacaniana I di Ricardo Laleff Ilieff(Barcellona/Buenos Aires: Miño y Dávila, 2022), è l’opera di un giovane teorico politico argentino che parte proprio dall’intersezione di questi due temi. Quello del politico e della politica (a partire da Schmitt e ben oltre Schmitt) e quella che lui stesso definisce ontologia lacaniana, ovvero l’uso delle categorie psicanalitiche in funzione della definizione di un apparato categoriale filosofico-politico. Va detto, come non manca di sottolineare l’autore stesso, che questa operazione non è di per sé pionieristica (p. 18), si pensi a pensatori del calibro di Slavoj Žižek, Ernesto Laclau (anch’egli argentino) e Yannis Stavrakakis, solo per citarne alcuni tra i più importanti. Ciononostante l’operazione teorica di Laleff Ilieff, la sua specifica modalità di pensare il politico attraverso le categorie della psicoanalisi lacaniana, è un lavoro che segue piste interne a questo discorso ma originali nella loro intersezione, andando a comporre una teoria di notevole interesse per gli studi politici, aprendo anche percorsi inusitati in autori diversi e lontani dallo stesso Lacan.
Il teorico politico argentino parte in particolare dalla categoria di abiezione per pensare, usando le sue parole “il reale nella politica” (p. 15, tutte le traduzioni dallo spagnolo sono nostre), che significa anche, con altre parole, pensare come il Reale operi nel simbolico, non come esteriorità ma come estimità. Se il Reale infatti resiste sempre al simbolico secondo il noto insegnamento lacaniano, e quindi l’ordine politico è sempre fallito, con la categoria di abiezione per Laleff Ilieff possiamo comprendere come questo avvenga da una paradossale interiorità del simbolico/politico.
Alla luce di quanto detto non sorprenderà che il punto di partenza del libro sia il noto concetto freudiano di Unheimlich come il perturbante che mina dall’interno il noto, l’intimo. L’estraneità non come esteriorità appunto, ma come il farsi sinistro dell’abituale. Questo topos freudiano nella rilettura di Lacan viene a mostrare l’impossibilità di una definitiva costituzione identitaria dovuta a una mancanza strutturale che sì dà sempre nel soggetto (p. 29). È a partire da qui che Laleff Ilieff definisce la sua categoria fondamentale, quella dell’abietto, “più che come il nome di questa mancanza, come il nome impossibile che cerca di colmarla; l’immagine ominosa di una identità che si trova intrinsecamente dislocata, senza accettare il fallito di ogni norma, la sua incapacità.” (p. 29).
Passando criticamente da alcune riflessioni di G. Bataille e da un’analisi della ricezione del tema in J. Kristeva, dove l’approccio si lega al tema della costituzione del linguaggio, e J. Butler, l’autore giunge a pensare l’abietto come un momento di ritorno e allo stesso tempo di esclusione/simbolizzazione di un residuo o di un’eccedenza che mina dall’interno (e questo è ciò che è più rilevante) ogni sistema significante (pp. 29-34). Se un possibile rischio, a partire da Kristeva è quello di interpretare il simbolico come qualcosa di anteriore al Reale, di sbilanciare quindi la comprensione di questo dualismo dell’abiezione, W. Benjamin rappresenta per Laleff Ilieff la deriva opposta, ovvero l’affermazione – in Per la critica della violenza – di un “puro reale” come “negazione del simbolico come tale” (p. 41). “La violenza divina benjaminiana – scrive l’autore – esclude ogni senso. […] non è altro che la violenza di un puro reale svincolato che porta la politica alla sua dissoluzione, sospendendo ogni mediazione simbolica […]”(p. 48) e quindi impedisce di pensare l’abiezione. Divino – nella forma della violenza – e Reale qui si sovrappongono eliminando ogni possibilità di produttività politica che si dà invece solo nella connessione “di reale, simbolico e immaginario” (p. 49), tornando così all’ontologia lacaniana.
Nelle tre sezioni che seguono questa prima parte definitoria, Leleff Ilieff si apre all’analisi di figure del pensiero filosofico, politico, giuridico, antropologico ecc…, leggendole attraverso le lenti lacaniane che ha deciso di indossare, intorno però a dei nuclei concettuali specifici: Il sacrificio, la guerra e l’Uno. In questo percorso emergono i tratti fondamentali della proposta dello studioso argentino, in un dialogo fra le categorie di cui fa uso e la concettualità specifica degli autori che tratta, facendo continuamente emergere i contorni della sua sfida teorica.
Il tema del sacrificio è affrontato a partire dall’opera di R. Girard e G. Agamben, laddove l’emersione dell’abiezione, secondo Laleff Ilieff, si dà nella tensione fra sacralità, violenza e potere, ma è sempre limitata nel suo portato dislocante. In Girard, attraverso il religioso che assorbe il problema dell’abiezione (p.62), in Agamben, al contrario, nella positivizzazione dell’indeterminazione della nuda vita nel dispositivo sovrano come cornice totalizzante del moderno (pp. 68 e 70-71). In entrambi i casi è cioè operata una chiusura del gioco di politicizzazione che sì dà nella reciproca implicazione/esclusione di reale e simbolico laddove invece il sacrificio viene a configurarsi come una logica di totalizzazione (del pieno, nella forma del religioso in Girard, o del vuoto, nella forma dell’eccezione, in Agamben).
La sezione sulla guerra fa compiere un passo in avanti nel rintracciare nella tradizione un pensiero dell’abiezione come affermazione e fallimento del politico, attraverso l’analisi della trattazione schmittiana del problema del nemico e del partigiano. Se vogliamo riassumere, per Laleff Ilieff, la distinzione amico-nemico, pensata come possibilità sempre reale ed operante di ostilità radicale, costituisce il punto in cui la simbolizzazione, come esclusione di una esteriorità costitutiva in funzione di un ordine specifico, si produce e mostra al medesimo tempo la propria contingenza. La politicità stessa del politico sottomette il suo stesso criterio all’azione dislocante della mancanza costitutiva, dell’abietto, – in una radicalizzazione di Schmitt fedele e insieme infedele – minando così ogni possibile uso totalizzante delle categorie del giurista tedesco (p. 82 e p. 84). È poi nella figura del partigiano, che supera l’idea di un’applicazione semplicistica del criterio del politico allo statale e alla guerra fra stati sovrani, dove si fa un passo avanti verso la categoria di abiezione, mostrando l’interiorità dell’esteriore, cioè l’inimicizia interna come il Reale nel politico, che resiste a ogni messa in forma. Più dell’ostilità esterna è la guerra civile la figura dell’inimicizia assoluta, perché – richiamando in questo certe note pagine di Ex captivitate salus – si rivolge contro la propria stessa identità. E qui si mostra l’abiezione che ha a che vedere con quel punto di inflessione dove la simbolizzazione (decisione in termini schmittiani (p. 91)) mostra la propria impossibilità nella sua necessità – cioè mira a rappresentarsi fuori dallo spazio di rappresentazione. Se non può essere il dominio del reale, l’abietto è proprio l’impossibilità di darsi del Reale come tale e al medesimo tempo la sua sopravvivenza dentro il tentativo fallito della sua stessa simbolizzazione (e viceversa). Solo includendo la figura del partigiano quindi, per Laleff Ilieff, Schmitt diviene utile per l’epoca attuale (pp. 91-92), in una radicalizzazione del giurista tedesco possibile a partire dalla sua stessa ontologia politica, qui riletta con le categorie lacaniane. Si scopre così che data questa impossibilità intrinseca al politico – che è ciò che rende possibile la politica stessa – non abbiamo a che fare con altro che con rappresentazioni fantasmatiche del nemico, ovvero che, come scrive provocatoriamente l’autore, “nemmeno fra amici e nemici esiste il rapporto sessuale” (p. 94).
Giunto a questo punto della trattazione ontologico-politica, Laleff Ilieff non può che problematizzare apertamente il rovescio speculare di questa scissione: il problema dell’Uno. Inteso però questo, sempre in una rilettura interna all’apparato categoriale di cui si serve, come “una metafora che allude alla chiusura immaginaria del sociale” (p. 103). In tal senso l’autore si colloca nella consapevolezza piena che senza l’Uno, o il suo fantasma, non si dà politica, ma anche che l’Uno è sempre di fronte all’Altro ed è internamente scisso (p. 105). Questo tema è affrontato da Laleff Ilieff a partire da due prospettive diverse, da un lato l’idea di una critica radicale della sovranità per l’affermazione della comunità-Uno in senso ancestrale nell’opera dell’antropologo P. Clastres, e dall’altro invece nella prospettiva di una critica interna dell’Uno-sovranità da parte di J. Rancière volta ad affermare il valore della scissione senza però negare la necessità spettrale dell’unità. È infatti con il filosofo francese che l’autore ritrova quella messa in mostra della mancanza fondamentale, della scissione interna al processo di simbolizzazione – la riemersione del reale – nella forma della parte di chi non ha parte che sfida la totalità articolata secondo gerarchie (partizioni). La sfida della parte però non implica la rinuncia a pensare l’unità del simbolico, ma piuttosto chiede di pensarla come una proiezione di una parte che si presenta come Uno, attraverso l’azione sovvertitrice-istituente dell’uguaglianza (p. 119). Se il paradigma della sovranità è sovvertito, d’altro canto si riafferma che “il problema dell’unità e del comune continua ad essere il problema cruciale del politico” (p. 123). In questa idea di una frattura che al medesimo tempo produce il suo rovescio – il processo di unificazione/simbolizzazione – è dove, così ci sembra, Laleff Ilieff trova il terreno più fertile per pensare questa ontologia politica lacaniana, dove cioè il tema dell’abiezione scopre la sua forza produttiva di politicità.
Per concludere quindi il libro di Laleff Ilieff ci mostra come attraverso il pensiero lacaniano si possa avanzare in una comprensione del politico che tuttavia deve servirsi di figure, metafore (p. 126) che non sono interne allo stesso apparato concettuale psicoanalitico. Non c’è cioè la possibilità di iniziare e finire con Lacan, che si inizierebbe e finirebbe con la pratica psicoanalitica. Al contrario l’ontologia lacaniana rende possibile la scoperta di una dinamica fondamentale del politico come tale, e di leggere così sotto un’altra luce le alternative che la tradizione teorica ha proposto. Pensare il nesso fra simbolico e Reale, e l’abietto come figura di questa tensione ci consegna una prospettiva sul politico, sul tema dell’unità, del negativo, della scissione e della pluralità che probabilmente non è nuova in senso assoluto rispetto a come è stata pensata in classici come Platone, Hobbes o Hegel, ma che si apre a una prospettiva diversa, che li osserva da un’altra angolatura. Portare quindi la psicoanalisi dentro il dinamismo del politico di certo non lo farà guarire dai suoi sintomi (e chi dice deve essere questo l’obiettivo?), ma ci permetterà di rapportarci ad essi in maniera differente e forse più cosciente (o cosciente dell’impossibilità della piena coscienza).
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