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Scisma di Ilaria Palomba

Ilaria Palomba, con Scisma (Les Flâneurs, 2024), è arrivata all’osso, ha spolpato se stessa e la sua scrittura. È difficile sostenere la lettura di questo poema diviso secondo i giorni dell’ospedalizzazione. Il filo conduttore è il lento ma prodigioso recupero dopo un suicidio da cui è uscita viva per miracolo. Un tema crudissimo, che l’autrice affronta con scrittura scabra, diretta, ma trasfigurata.
Qualcuno potrebbe dire che in questa poesia non c’è luce: ma non è vero: non ce n’è nel testo, ma ce n’è intorno, nel fatto stesso che lei abbia saputo scriverlo. Non basta aver avuto la forza di attraversare l’abisso, di averlo agito, subito: Ilaria ha avuto anche quella di tornarci su, di cercare le parole esatte per descriverlo, e, per chi conosce come me il lavoro di stesura del poema, di tornarci su più volte, andando sempre più all’essenza, riaprendo sempre più la ferita in cerca del nome che corrispondesse a quel dolore. Un andare all’essenza che mette a dura prova chi ha vissuto un’esperienza così estrema e che lo costringe a superarla. Palomba ha spalancato il ricordo e lo ha sezionato chirurgicamente. Leggerla fa male, perché chi legge non ha la lucidità spaventosa di chi scrive: non si resiste a quello che ha scritto, bisogna prendere aria, fermarsi, pensare, e solo poi tornare a alla lettura. La sofferenza è insopportabile, l’oscurità incandescente, e l’autrice la viviseziona con un bisturi affilato, esegue un’operazione senza anestesia con totale freddezza sul proprio corpo così sofferente. È un dolore invivibile.
Eppure, c’è che tutto questo è stato fatto, c’è un’anima capace di sentire tutto e non esserne rovinata mai. L’esposizione estrema causa rimozioni, suscita meccanismi di difesa che sporcano la persona esposta di cinismo, le costruiscono addosso una corazza fatta con la bruttezza del mondo. A Ilaria Palomba sembra non accade mai. Alla fine del poema, la sentiamo integra: scissa, rovinata, abbattuta, distrutta, ma integra. È una purezza scandalosa. Per questo torno a dire che c’è luce, non nella silloge ma intorno alla silloge, e che c’è spiritualità non nelle parole ma nella forza che ha impresso le parole sulla pagina: c’è tutto ciò che fa male e l’umanità che ha reso possibile la pagina. Con Scisma, la poetessa salentina ha scritto la sua Passione, con le frustate, i chiodi e la croce: la resurrezione è fuori, ma c’è: è la possibilità stessa del poema.
Nella maggior parte dei componimenti la poesia è puro fatto che accade, e la parola coincide con l’accadere della cosa: il dettato ha l’evidenza della musica, delle immagini, l’aderenza tra parola e cosa è così perfetta che sembra non vi sia mediazione. Solo in alcuni momenti la parola si stacca e torna ad essere parola, qualcosa che circonda la realtà nominata, la accosta, la sfiora senza però fondersi con essa: momento di tregua dell’autrice da una materia tanto ribollente, o forse ennesimo scisma: chi ha vissuto un’esperienza traumatica -non so, un incidente stradale- dice spesso di ricordarla come in una visione dall’alto, come se fosse uscito dal suo corpo. Il poema di Ilaria richiede un duplice moto: verso l’interno, per approfondire, e verso l’esterno, per dichiarare.
*
Da Scisma
Giorno 0
La casa vuota dei nomi
la casa del deserto
per il suono dell’organo
nera luce intorno
non hai più Dio è il Dio
dell’abbandono
il tuo nome di grafite
decomposto parla
con i morti
il cimitero della mente
epidemia
diecimila voci rapaci
il nemico armato
è l’occhio
il nemico interno
è l’altro
un plotone di sguardi
i blister
la finestra
le gambe raccolte
i palazzi al rovescio
scempio.
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