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La persona e il sacro di Simone Weil

“Lei non mi interessa. Un uomo non può rivolgere queste parole a un altro uomo senza commettere una crudeltà e ferire la giustizia. La sua persona non mi interessa. Queste parole possono essere pronunciate in una conversazione affettuosa tra buoni amici senza ferire quel che vi è di più delicatamente suscettibile nell’amicizia. Allo stesso modo si può dire senza degradarsi: La mia persona non conta, ma non Io non conto. È la dimostrazione che il vocabolario della moderna corrente di pensiero detta personalista è erroneo. E in questo ambito là dove vi è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero. In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non la sua persona. E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell’uomo. […] Ciò che per me è sacro non è la sua persona né la persona umana che è in lui. È lui. Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto. Non arrecherei offesa a niente di tutto questo senza infiniti scrupoli.”
Così Simon Weil, scrittrice e pensatrice, cresciuta nel solco della tradizione francese, greca e cristiana, postasi incessantemente “istintivamente, più per sdegno che per pietà, al posto di quanti erano vittima di un’oppressione”, nell’incipit de “La persona e il sacro”, opera di filosofia etico-sociale. Scritto durante l’esilio londinese, il saggio muove da una meditazione critica circa la parola “persona” che aveva fondato la corrente del personalismo, inaugurato da Jacques Maritain, proseguito da Emmanuel Mounier, superato irrevocabilmente da Paul Ricoeur: “il vocabolario di quella corrente del pensiero moderno che si definisce personalista è sbagliato. E in quest’ambito, là dove vi è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero”.
Il testo, tuttavia, è davvero molto più che l’estrinsecazione di una pretesa semantica. Le pagine sono una fiammeggiante riflessione filosofica sui concetti di “diritto”, di “democrazia”, di “giustizia”, di “male” nonchè di “bellezza”. Già, verità e della bellezza sono uguali e perfette per tutti, quindi trascendono ogni soggettività.
Weil ragiona sul fondo insabbiato, impersonale, di ciascuno di noi, da cui s’inerpica il quesito: “Perché mi si fa del male?”, il solo capace di offrire il presupposto al rispetto spettante a qualsivoglia essere umano ed al suo bisogno di giustizia. Il “grido muto” che riemergente, nella sua elementare spontaneità, smembra i perni di tutto il pensiero politico occidentale: la superiorità dei diritti individuali, la liturgia delle idee astratte, l’egemonia del linguaggio logico su qualunque altro.
Cos’è sacro in noi umani?
Non la persona bensì l’impersonale e le cose impersonali sono il magazzino dell’autenticità e della bellezza. Nella scienza è sacra la verità; nell’arte è sacra la bellezza. La perfezione è impersonale ed il varco nell’impersonale si attua solamente nell’isolamento dell’uomo, interiore e sociale. L’impersonale è il senso di giustizia che ci abita, è l’”altrimenti” della persona. Ed il collettivo, in questa misura, è la risposta di sicurezza a questo spossessamento, che ci pone su un piano compattante ed eterogeneo.
Ciascun essere umano, “braccia, occhi, pensieri, tutto” implora di non soffrire il male, tuttavia questa non è la preghiera del martire bensì un’esperienza drastica di aderenza all’impersonale, in cui, mediante la sofferenza e la marginalità, ogni essere umano entra in relazione con l’ingiustizia, il sopruso, l’iniquità e la crudeltà, di fronte alle quali non si può restare distaccati e taciti.
Weil, una lottatrice per la giustizia ed il rispetto della dignità umana, appassionata dell’idea di Dio, cui connettersi senza limiti confessionali, ci getta al cospetto della sofferenza, dell’emarginazione ma anche della comunanza, dell’amor proprio e, soprattutto della responsabilità, “Chi è penetrato nell’ambito dell’impersonale vi trova una responsabilità nei confronti di tutti gli esseri umani”, in palese dissidio con lo zeitgeist della sua epoca, scientista e materialista.
Weil ci interroga a proposito dell’”umano” in un tempo storico di piena distruzione dell’”umano”: il grido di strazio e patimento dell’uomo bersaglio di iniquità è parte costituente del suo essere, non può essere cassato e si ode forte e chiaro: “Quel grido sgorga sempre per la sensazione di un contatto con l’ingiustizia attraverso il dolore. Spesso si alzano anche grida di protesta personale, ma quelle non hanno importanza; se ne possono provocare a volontà senza violare alcunché di sacro.”
Bisogna porsi in ascolto attivo e partecipato: “Ascoltare qualcuno significa mettersi al suo posto mentre parla. Mettersi al posto di un essere la cui anima è mutilata dalla sventura, o in pericolo imminente di esserlo, significa annientare la propria anima. (…) Così gli aventurati non trovano ascolto.”
Dunque, cos’è “sacro”? “Ed è questo” dirà Weil “che è sacro in ogni essere umano”, dalla “prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro”.
E’ il bene che è concepito quale sorgente del sacro, ecco dunque perché la sacralità è integralmente riferibile al bene. L’attesa di ricevere il bene è sacra ed impersonale, giacché essa è universale.
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