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“Se vuoi sapere che cosa è uno Stato e il suo diritto, la sua giustizia e la sua libertà, devi solo chiederti quanti innocenti tiene in prigione e quanti criminali lascia in libertà” (Ivo Andrić)
L’odierna vicenda dell’inchiesta e dell’arresto cautelare del presidente della Regione Liguria suggerisce spunti e motivi per una riflessione più ampia e incisiva.
Nel merito specifico, si deve preliminarmente riconoscere a G. Toti, politico navigato di lungo corso, un’acuta perspicacia nella valutazione dell’opportunità politico-istituzionale, e utilità personale, di “dimissioni irrevocabili”. Infatti, la conseguente ipotizzata revoca della misura cautelare varrebbe ad eliminare i presupposti del “giudizio immediato” e, inoltre, caducando il passaggio per Cassazione, sottrarrebbe l’indagato al rischio cieco di una pronuncia di legittimità intra-processuale e delle sue inevitabili ricadute sull’iter giudiziale di merito. È, infatti, di tutta evidenza che, a differenza del ministro Guardasigilli, il quale dichiara di “non averci capito nulla”, la S. C. comprenderebbe perfettamente l’ordinanza del tribunale del Riesame di Genova…
A volte ritornano. Com’è noto, le frequenti lagnanze di matrice politica nei confronti della magistratura censurano, tra l’altro, la sua pretesa, giudicata unilaterale e intrusiva, di fare pulizia in casa altrui, ambito politico incluso, e solo di rado e superficialmente in casa propria. Non v’è dubbio che, in qualche caso, i magistrati abbiano suscitato una percezione siffatta, mediante condotte in apparenza omissive e compiacenti, rispetto alle più o meno gravi devianze dei propri colleghi. Di fatto, invece, può anche accadere, come accade, che l’obbligo costituzionale del controllo di legalità non risparmi neppure colleghi e persino cariche apicali dell’ordine giudiziario. La legge penale viene puntualmente applicata, in costanza di gravità indiziaria e nelle ipotesi di pericolo di inquinamento probatorio o di reiterazione del reato, debitamente salve le garanzie di riesame, di merito e legittimità, se attivate.
Se non che, il profilo in sommo grado rilevante della vicenda concernente G. Toti rimanda a uno sfondo costituzionale di alto spessore sistemico, altro da quello impropriamente evocato da un ipotetico costituzionalismo…d’accatto. Per quanto sembri (comprensibilmente) urticante, il nesso autentico agevolmente si rinviene nell’art. 3 Cost.: “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”. A scanso di equivoci, tutt’altro che infrequenti, è il caso di evidenziare che si parla di cittadini non eguali in senso assoluto, bensì davanti alla legge, “Senza distinzione”. Nello stesso tempo, opportunamente si ricorda, si deve ricordare di continuo, che vige un divieto intransigente: nessun giudizio di colpevolezza fino a sentenza irrevocabile. Un alto principio di Civiltà giuridica, in un Paese lungamente devastato dalle pratiche perverse della (il)legalità penale fascista, distinta dal nesso funzionale/causale, invalso de facto, entro le procedure istruttorie/inquisitorie anticipatrici della condanna in giudizio.
Dunque, “presunzione di non colpevolezza”, in conformità alla Carta fondamentale, che ne sancisce il principio, nonché al dibattito e alle conclusioni dell’Assemblea Costituente, dove prevalse la tesi secondo cui il concetto di “non colpevolezza” fosse più adeguato, dal momento che il lemma “innocenza” esprime un’idea piuttosto “romantica”, come tale ontologicamente estranea alla giurisdizione penale. Senza, tuttavia, sottacere che la locuzione “presunzione di innocenza” riapparirà successivamente nel testo europeo dell’art. 6 CEDU.
In ogni caso, il giudizio di non-colpevolezza, in corso di procedura o finale, a rigore, sembra più che pertinente ed esplicativo, e in consonanza speculare con gli ordinamenti giuridici democratici di common law. Forse, anche perché la qualificazione di “innocente” non può comunque risarcire la persona sottoposta a un processo, che “di per sé è già una pena”, come – nel solco del costituzionalismo illuministico e repubblicano, centrato sui diritti dell’uomo, di C. Beccaria – sostenevano F. Carnelutti, nel 1946, e P. Calamandrei, nel 1953, pur entro le dinamiche e le necessità intrinseche dell’obbligatorietà costituzionale dell’azione penale e della potestà/funzione punitiva dello Stato.
Indubbiamente, le ipotesi delittuose gravanti su G. Toti appaiono tanto più rilevanti, in quanto coinvolgono un politico di primo piano e presidente di una Regione. Nella propria dirompenza accusatoria, le fattispecie concernono talune specifiche manovre volte ad alterare il regolare funzionamento dell’istituzione regionale ligure. Rispetto alle quali, inoltre, sembra che le condotte incriminate configurino apprezzabili probabilità di pericolosità sociale. Comportamenti antigiuridici, che molti ordinamenti democratici, come la legge penale USA, trattano con estrema severità cautelare ancor prima del giudizio. Rileva, altresì, che il politico indagato risulta ora formalmente sottoposto a ulteriori investigazioni preliminari, per un episodio della medesima specie, donde il rafforzamento prognostico del pericolo di reiterazione, concreto ed attuale, e/o di inquinamento probatorio.
Certamente, ripugnerebbe, se gli amici degli amici avessero ragione. Se, vedi caso, gli strali di L. Tolstoij, in “Guerra e Pace”, potessero rivolgersi, oltre che all’amministrazione zarista della giustizia, anche all’A.G procedente di Genova: “Dov’è Tribunale è l’iniquità”. Di converso, resta sempre attuale una massima enunciata dal drammaturgo Publilio Sirio, più di duemila anni fa: “L’assoluzione del colpevole condanna il giudice”. Vale anche per la condanna dell’incolpevole, evidentemente.
Ebbene, “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, nel senso che la loro subordinazione non è solo rispetto alla norma di legge, ma all’insieme del diritto oggettivo prodotto dall’ordinamento statale, nel quadro della distinzione dei poteri. Si vorrà ragionevolmente convenire che, se le toghe non possono porsi al di sopra o al di fuori della legge, non possono neppure porre indagati e imputati politici (più o meno) eccellenti al di sopra o al di fuori della legge, sul presupposto, arbitrario e fantasioso, della primazia della politica – meglio: del politico – sulla Carta fondamentale e la legge penale. Dalla dittatura degli “ottimati” della tarda Repubblica romana di L. C. Silla molta acqua è passata sotto i ponti! Tanto per rinfrescare la memoria (costituzionale) degli entusiasti accoliti della ciarlataneria e della faziosità settaria…
In nome del popolo, si recita nelle aule di giustizia. Ma chi è costui? Molto semplicemente, il destinatario immediato e universale, ancorché ideale e virtuale, della sentenza penale, la collettività dei cittadini chiamata al controllo democratico sull’esercizio della giurisdizione. Pacificamente, resta l’obbligo costituzionale tassativo del controllo di legalità in capo alla giurisdizione, al fine di impedire che i reati giungano “a ulteriori più gravi conseguenze” e “la commissione di altri reati della stessa specie”. Sotto tale riguardo, a nulla rileva l’eventuale investitura popolare, in quanto democraticamente e logicamente scevra da effetti di immunità o extraterritorialità, con buona pace dei sacerdotes iuris… alle vongole.
Ogni altra considerazione a parte, pseudo-politici e giuristi immaginari, vero e proprio morceau d’ensemble, forse ignorano, o fingono, che, entro la costellazione dei reati dei pubblici ufficiali contro la P.A., la struttura del delitto di corruzione è peculiarmente tale, che la fattispecie risulta pienamente integrata non solo qualora utilità o promesse precedano il compimento di atti d’ufficio in capo al soggetto attivo dell’illecito, bensì anche quando elargizioni o promesse siano successive all’atto, e indipendentemente dalla formale correttezza dello stesso. Nel quale ultimo caso si versa in tema di “corruzione impropria”. Ne discende che, al di là del caso che occupa, tesi difensive a carattere putativo, l’avere, ossia, asseritamente agito nell’interesse della P.A., si rivelano del tutto “inconferenti”, se non paradossalmente “confessorie”.
Epperò, mette anche conto sottolineare che, quale fonte sovrana del principio di legalità, fondamento e limite del diritto penale, l’art. 25 Cost. stabilisce che nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto e che nessuno può essere sottoposto a una pena o misura di sicurezza se non nei casi espressamente previsti dalla legge. Cosicché, recependo l’art.1 del Codice Penale 1930, esso statuisce che nessuno può essere punito per un fatto che non sia previsto dalla legge come reato, né con pene che da essa non siano state stabilite. In breve, già l’art. 1 del c. p. fascista prescrive che deve essere la legge sia a individuare i comportamenti costituenti reato, sia a determinare le sanzioni che conseguiranno a tali comportamenti. In aggiunta e integrazione, l’art. 199 stesso codice e l’art. 274 del nuovo codice di rito disciplinano le misure di sicurezza e cautelari, ossia quelle sanzioni che vengono applicate a indagati e imputati ritenuti socialmente pericolosi. Remedium, quest’ultimo, imprescindibile, a doverosa tutela e autotutela della comunità, anche allo scopo di impedire, nel solco di un’autorevole dottrina che, dopo J. Locke, si ispira a C. Beccaria, che altri ripetano i medesimi errori. E però, sacrosantamente, non può applicarsi nessuna misura di sicurezza o cautelare che non sia espressamente prevista dalla legge o fuori dei casi da essa stabiliti.
Meno avvincente, ma non meno intrigante e significativo, lo spettacolo offerto da schiere di appassionati magistrati di complemento, coscienziosamente decisori fuori dal giudizio e ignari del diritto penale e degli atti processuali. Novelli Robinson Crusoè, insomma, estranei alle dinamiche dello Stato di diritto, superiora non recognoscens. Celebrano l’“innocenza” degli imputati a scatola chiusa, a priori, direbbe Totò, ritenuti, in quanto legittimi rappresentanti del popolo sovrano, intoccabili. Come il “corpo politico del re”, la “persona ficta”, che, contrariamente al “corpo mortale”, “non muore mai”. Un paradigmateologico- politico medievale, per citare un’opera del grande storico tedesco E. Kantorowicz. Del re,ovvero del reo, in caso di condanna definitiva…
Ed è piuttosto singolare, anche perché poco perspicua, tale pretesa di” intoccabilità”. Abolita in India, almeno legalmente, la definizione gandhiana “intoccabili” connotava gli infimi strati sociali, gli “sporchi” fuori-casta. Da allora, infatti, ogni ulteriore eventuale “pratica d’intoccabilità” configura una precisa violazione costituzionale e penale… Stranezze, quasi umoristiche.
Proviamo, invece, a compiere uno sforzo costruttivo, un passo avanti sulla via maestra e inaggirabile del garantismo.
“L’impunità era organizzata – Manzoni è vicino – e aveva radici che le grida non toccavano o non potevano raggiungere”. In numero esorbitante, si minacciano pene e castighi – nella terra di Beccaria – a causa dell’inefficienza e della corruzione del sistema istituzionale. Il cui marciume è il grembo e il terreno di coltura dei comportamenti del singolo. E il “libero arbitrio” del singolo nell’opzione delittuosa? E, anche se la grida è “fresca”, cioè recente, teoricamente, quindi, di “quelle che fanno più paura”, il gran numero delle leggi finisce per togliere ad esse l’efficacia. Del resto, corruptissima re pubblica, plurimae leges, secondo la nuda scultura tacitiana dello Stato, se non d’eccezione, di certo di… corruzione. Così, Azzecca-garbugli rassicura Renzo. Lui saprà falsificare le carte e farlo assolvere, grazie alla protezione di personaggi potenti e minacciando le persone coinvolte, in quanto “a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, nessuno è innocente”.
In tal modo, “l’impunità ha causato un degradarsi continuo delle istituzioni democratiche. La giustizia ha un’immagine ormai pregiudicata”, nel giudizio di Stefano Rodotà, 1980, l’anno prima che E. Berlinguer denunciasse i partiti politici come “machine di potere e clientela”, forze di “occupazione dello Stato e di tutte le istituzioni”. Sotto questo cruciale profilo, nell’estenuante attesa di specie più evolute, tuttora permane la prima e unica Repubblica!
È la democrazia, bellezza! E tu non ci puoi fare niente! Niente! Un modello (sic) di democrazia. Magari fosse solo la stampa del celebre film…
Il punto è che, mentre la magistratura mostra l’intenzione di ottemperare al dettato costituzionale e alla legge penale, anche intra moenia, si inscenano logiche pseudo-istituzionali sorprendenti, logiche sfumate, a più valori, di certo molto più tolleranti della logica classica. Logiche, insomma, ignare del principio di contraddizione. Ex absurdo sequitur quodlibet, Duns Scoto insegna. Nell’assurdo tutto è possibile. Logiche, insomma, antidemocratiche, antipopolari e cripto-oligarchiche, nello spazio privilegiato degli ordinamenti giuridici di una democrazia rappresentativa. Che, da tempo, pericolosamente inclina verso l’anomalia sistemica dei rapporti privati tra individui e gruppi, clan e lobby, comitati, bande e consorterie di ogni genere e specie. Stato corruptus, spezzato, si dice, Far West del diritto. Un romanzo criminale effettuale. Del resto, non sarà colpa delle stelle, se le cronache registrano un aumento rimarchevole dei delitti di corruttela e associativi, nell’apoteosi delle paranze criminali e nella peculiarità di uno Stato, nel quale delinquere è diventato meno pericoloso che… non delinquere!
Come non pensare, per contrasto e malinconicamente, all’associazionismo sano, ampiamente diffuso, fonte inesauribile di ricchezza pubblica e motivo di legittimo orgoglio della nazione?
Vero è che il Belpaese continua ad affondare nelle sabbie mobili di un malinteso “garantismo”, sforzandosi di non capire, anziché di capire. Perché il garantismo – quel dommage! – è l’antipode del lassismo e del permissivismo. Quando, circa due secoli orsono, nella splendida aurora dell’ottocento liberale, e nel cuore pulsante della migliore eredità illuminista, il guadagno di questa concezione, si chiami garantismo o come altrimenti si preferisca, sorgeva sull’orizzonte della Civiltà giuridica ed etica, fin dall’incipit essa mirava ad innervare i principi fondamentali dello Stato di diritto entro una gamma crescente di “garanzie costituzionali”. Tuttavia, pure in costanza di una “difesa ad oltranza” di diritti soggettivi e legittimi interessi, al garantismo presiede un rigido assioma di chiusura (secondo il lessico epistemologico): la Costituzione. Tanto vero che, ogniqualvolta confligga con il dettato formale e imperativo della Costituzione, causando un vulnus ai suoi principi e valori, il presidio delle garanzie si rovescia surrettiziamente da fondamento dello Stato costituzionale di diritto, finalizzato alla tutela dei diritti e delle libertà degli individui rispetto all’arbitrio congenito dei poteri, nel suo diretto opposto. In arbitrio anti-costituzionale. Fuori dalla giungla, invece, non giova ricordare che il principio di eguaglianza davanti alla legge, in declinazione anche quale vincolo di obbligatorietà dell’azione penale, rappresenta un valore sovrano e cogente. Non giova? Chissà.
Certo è che il vigente – fino a quando? – principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione implica l’eguale applicazione della legge penale “senza distinzione…” tra elettori ed eletti. Ché, anzi, agli eletti incombe una maggiore responsabilità, delegati, come sono, a onorare il “patto di fiducia”, intrinsecamente anche di fedeltà repubblicana, rappresentando le constituency elettorali e la nazione nel modo più alto! Con “disciplina e onore”, prescrive l’art. 54 Cost., onde assicurare “il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione”, sancisce l’art. 97. Altrimenti, l’unto del popolo – non del Signore, come un premier si autodefinì – finirebbe per rappresentare solo sé stesso e il suo milieu, in aperto e lacerante conflitto con il mandato democratico-istituzionale ricevuto! Al di là della controversa questione della valenza giuridica o puramente etica dell‘art. 54 e dei suoi specifici destinatari, è del tutto evidente che esso, unitamente ad altri numerosi precetti, rappresenta una pietra angolare del sistema costituzionale dei doveri. L’”onore”, infatti, che per Aristotele è “la virtù precipua dell’uomo politico”, è inconciliabile con la menzogna, la reticenza, la dissimulazione e il raggiro, in specie quando e se perpetrati da agenti pubblici, a fortiori dal potere pubblico democratico.
Talvolta, si rende necessario porsi al di fuori di un problema per vedere l’interno. E per raccontare… il mondo.
“La difesa della democrazia è più importante di qualsiasi carica”, ha appena ribadito e quasi scandito il presidente USA J. Biden nel discorso alla Nazione. Al riguardo, non è certo un caso che,al pari di altre nazioni, anche nel sistema democratico USA, molti Stati adottino il principio del “recall election”, un referendum di richiamo/rimozione degli eletti, politici o pubblici funzionari, prima del termine del mandato elettorale. La procedura, rigorosamente democratica – attestata già da Aristotele nella “Costituzione di Atene” come “euthyna” o “raddrizzamento” – è finalizzata al ripristino delle condizioni di agibilità democratica. Non essendo previsto un quorum, è sufficiente che la maggioranza dei votanti si esprima in modo favorevole alla destituzione, onde procedere all’elezione del successore. Significativo il caso del governatore della California G. Davis, nel 2003, giudicato responsabile del dissesto finanziario del più ricco stato d’America. Si consideri, altresì, che solo sette Stati americani prevedono, come condizione necessaria per il “recall”, la commissione di gravi fatti delittuosi. In altri 11, invece, non vi sono limitazioni, in costanza di un procedimento meramente politico. Oltre al “recall”, esiste anche la nota procedura dell’”impeachment”, il potere, ossia, del Congresso e dei parlamenti statali di porre in stato d’accusa, ed eventualmente rimuovere, tutti i pubblici ufficiali, inclusi i ministri, i governatori, i giudici federali e lo stesso presidente degli Stati Uniti. Pertanto, le cariche elettive sono sottoposte a un doppio sistema di controllo, che prescinde dalle scadenze elettorali, uno scrutinio formato dai “pari” e uno dal “popolo”, entrambi legittimati a revocare l’elezione.
Con ogni evidenza, in avanzati contesti democratici, gli eletti, anche in corso d’opera, sono tutt’altro che “intoccabili”, in quanto soggetti a procedure istituzionali riparatrici di redde rationem e revoca. Altro l’obbligo costituzionale del controllo di legalità anche relativamente a quello che il Guardasigilli Nordio definisce “diritto/dovere dell’esercizio del mandato”, e l’intervento giurisdizionale, necessari soprattutto entro sistemi costituzionali, come quello italiano, che non contemplino i predetti remedia del vulnus (anti)democratico. Invero, entro la moderna fase di Soria e cultura, secolarizzazione a parte, la “sacralità” non è una funzione del potere, anche perché “sacro”, da una radice linguistica indoeuropea, significa “separato” dalla sfera del divino e dai suoi effetti di soggezione e smarrimento rispetto alla ricerca dell’”unione” …
In un saggio recente, 2016, “Contro la democrazia”, J. Brennan, filosofo e politologo statunitense dell’Università di Georgetown, mette a fuoco il tema capitale della “selezione dell’elettorato”, proprio della cultura liberale otto-novecentesca, e alcune specifiche modalità di funzionamento della democrazia rappresentativa. Se la rottura del patto fiduciario con gli elettori può addirittura diventare accettabile e plausibile, questo dipende dalla crescente indifferenza del sistema rappresentativo nei confronti degli elettori, dalla vanificazione dei programmi elettorali e dall’oblio delle posizioni politiche e dei valori comuni. Entro tale ottica, che l’istanza anti-autoritaria di Brennan concettualizza anche come “etica del voto”, crisi della democrazia significa essenzialmente crisi di un sistema che perverte elettori ed eletti e la relazione che li stringe, qualora e se gli eletti possano impunemente infrangere vincoli e obblighi e gli elettori non dispongano dei mezzi necessari al controllo e al rimedio. In breve, chi vota per chi e per quali ragioni. Eppure, la “democrazia” della rappresentanza popolare, per sua natura, implica il diritto alla costruzione da parte del “popolo sovrano” di un destino comune! La rottura del vincolo di fedeltà, al contrario, spezzando ogni condivisione e mostrando in filigrana cinica indifferenza e disinteresse, se non disprezzo, per la comune appartenenza, mina le basi stesse del pactum unionis o pactum societatis: il patto sociale.
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Auspicabilmente fuori dalla satirica e metaforica fattoria degli animali, in cui alcuni animali sono più uguali degli altri, nell’interesse collettivo, visto che i più eguali sono l’élite dei… maiali.
Se siamo un popolo che si vergogna. Non un “pubblico”, privo di identità collettiva etico-politico-sociale, una misera “democrazia dei subordinati”, sotto il dominio di impetuosi processi glo-cali, alla Bauman, di atomizzazione sociale, organicamente funzionali alla scissura tra il popolo, incredulo e disperatamente in cerca d’autore, e le élites dominanti o governanti, talvolta… a loro insaputa.
Abbiamo appreso, non solo da B. Croce, bensì da schiere di maîtres à penser di ogni epoca e cultura che il potere c’è per… abusarne. Ma davvero la spregiudicatezza e il cinismo sono la sola forma possibile di “realismo”?
In tema, il diritto, la società e lo Stato. Non già l’etica. L’idea garantista, infatti, fulcro dello Stato di diritto quale principio della legittimità del potere, sottoposto a controlli disciplinati dal diritto, contempla la netta separazione tra morale e diritto. In specie, il moralismo, sartrianamente “la moralità di chi non ha morale”, resta rigorosamente fuori gioco. La nostra versione domestica del principio garantista incontra però un problema. Dissimula che il garantismo presuppone, come sua indefettibile condizione, il principio di eguaglianza davanti alla legge, in assenza della quale limiti e garanzie restano sospesi in un cielo farisaico di astrazione indeterminata e senza pratica efficacia. Limiti, garanzie e tutele erga omnes somigliano a vane chiacchiere, impotenti a mordere sulla realtà effettuale e gli standard di Civiltà, se non pensati, appunto, per uguali. Perché la giustizia si coniughi stabilmente al piano dei diritti di libertà e l’uguaglianza all’interno della libertà. Ne va della democrazia e della libertà. Garanzie uguali e verso tutti, dunque, non diseguali e “più uguali” per alcuni, similes similibus dentro lo Stato, contro lo Stato. Che usano e che li usa. Il simil-garantismo rappresenta la negazione del garantismo. Lo incrina e lo uccide, quale antipode della filosofia della norma astratta e impersonale, estremo guadagno e linfa vitale della moderna Civiltà giuridica. Per tali ragioni, il lemma “chiunque” della legge penale significa un soggetto indefinito, qualsiasi persona, in virtù del principio che “la responsabilità penale è personale” e, errori sul fatto a parte, l’ignoranza della norma inescusabile. In uno spazio di Civiltà finalmente lontano dal “privilegium” feudale, la “lex in privos lata”: la norma calibrata sui singoli. Finalmente.
Arduo non sentire il grugnito selvatico dei maiali della fattoria entro la nostra complessa e travagliata forma di vita pubblica democratica e le sue cerchie istituzionali.
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