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Alle origini dell’autonomia differenziata


9 Ago , 2024|
| 2024 | Recensioni

Sta avendo successo la raccolta delle firme per il referendum abrogativo della legge Calderoli. Un segnale incoraggiante. Speriamo tuttavia che l’adesione non sia determinata esclusivamente dal desiderio di contrapposizione – fazioso – che ci pare connoti ormai il dibattito politico italiano. Speriamo soprattutto che il quesito passi il vaglio delle Corti; e però domandiamoci se sia repubblicano e democratico che la Corte costituzionale, composta com’è, abbia l’ultima parola sol perché asseritamente garante della Costituzione, laddove però la garanzia si rivela attraverso interpretazioni  imprevedibili, soprattutto facilmente governate da ideologie, opportunismi, calcoli ab externo.

Se il referendum verrà ammesso sarà un’ottima cosa in sé perché è molto probabile che ne scaturisca un dibattito importante sui nostri assetti istituzionali, al quale i cittadini dovrebbero essere interessati e attratti: la decisione spetterebbe, una volta tanto, a loro che così potrebbero rendere manifesta l’essenza di una repubblica, cioè la sovranità popolare. Probabile che il dibattito chiamerebbe alla partecipazione intellettuali ed esperti solitamente esclusi dai circuiti corporativi della comunicazione. Insomma potrebbe scaturire una sana e bella rappresentazione democratica.

Ora, se si vorrà dibattere, a chi vorrà farlo io consiglierei senza riserve la lettura del libro di Stefano Fassina, il cui titolo è efficacemente indicativo, eccolo: Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord. Si tratta di un ottimo vademecum dove c’è tutto o quasi quel che occorre sapere (c’è anche l’introduzione di Bersani che vale la pena di leggere in quanto testimonianza di chi può dire di esserci stato quando nel 2001 venne approvata la riforma del titolo V della Costituzione). Il fil rouge svolto nel libro è fatto correre dentro un ampio territorio nel quale si manifestano tutte le funzioni di governo che, Stato e/o Regioni, dovrebbero perseguire nei limiti consentiti, o imposti, dall’UE: l’approccio è all’insegna della massima concretezza e, dunque, il profilo da esperto economico, che l’Autore ha ad un ottimo livello, segna, anche condiziona, la trattazione.

Il format prevalente nel libro è l’analisi costi-benefici, accompagnata da quella di fattibilità. Come rendono evidente le molte domande che Fassina si pone e, soprattutto, ci pone, tipo: «chi sarebbe l’interlocutore di Eni o di Snam per un gasdotto transregionale?», «ogni Regione avrà il suo Istituto per il Commercio estero?», «chi andrà a stringere accordi commerciali con le autorità cinesi, indiane, brasiliane, statunitensi?», «ma gli attori economici veneti e lombardi sono sicuri di non pagare a loro volta i lunghi conflitti istituzionali orizzontali (tra Regioni differenziate) e verticali (tra Regione e Stato) e il disordine conseguente?», «perché un’impresa lombarda o veneta o emiliana non dovrebbe ricollocarsi in una Regione dove gli standard retributivi, oltre agli standard per la sicurezza sul lavoro, per la salvaguardia dell’ambiente per la salute pubblica e l’alimentazione […] sono inferiori?» «saranno omogenee in termini di profili e criteri di valutazione oppure prevarrà la differenziazione al minimo?» e via di questo passo.

Si capisce che l’Autore pensa che, in linea di massima, quanto (fumosamente) previsto dalla legge Calderoli non sia realmente fattibile o, comunque, svantaggioso per tutti, sia economicamente sia burocraticamente. In sostanza, sostiene Fassina, l’AD non ce la possiamo permettere e sarebbe causa di pesanti complicazioni di vita, anche individuale, pure al Nord. Nord che, cerca di dimostrare l’Autore, è dubbio che, alla resa dei conti, trarrà reali vantaggi dal regionalismo differenziato. È una valutazione, quest’ultima, che postulerebbe un supplemento d’istruttoria: i dati forniti da Fassina sembrano però dargli ragione. Ma credo che anche in Veneto, al di là della retorica menzognera di cui i suoi vertici si sono corredati, avranno fatto i conti; e le scelte, cioè la richiesta di tutto il ventaglio delle materie consentite, occultano il desiderio di trattenere più risorse sul territorio, desiderio condiviso da una parte non esigua della popolazione (che qualche ragione di risentimento nei confronti delle Regioni del Sud potrebbe pure averla).

Il libro è, a mio avviso, inattaccabile laddove, com’è ovvio, lascia il campo del dubbio socratico e delle domande di ragionevolezza proposte ai lettori ed entra nell’altro campo, in realtà primario, degli assetti politico-costituzionali che si darebbero ad AD inverata. Avremmo costruito il paradosso della Repubblica una e indivisibile, ma le cui Regioni hanno più poteri dei Länder tedeschi e delle Comunità autonome spagnole (e già ora esse hanno più prerogative di quelle francesi e britanniche). Avremmo in UE un Presidente del Consiglio debolissimo (e non è che ora siamo forti …) perché non è gestore delle principali materie economiche, sociali, infrastrutturali assegnate dall’AD alle Regioni (o a certe Regioni: guazzabuglio inevitabile in quanto non tutte le Regioni ne domanderanno l’assegnazione  oppure si limiteranno a domandarne alcune soltanto). Né esiste da noi quella stanza di compensazione che è la Camera Alta: il Senato della Repubblica è rappresentativo della comunità nazionale e non delle comunità regionali com’è, per esempio, in Germania. Perderemmo la stessa unità giuridica nazionale per la frammentazione legislativa e interpretativa conseguente all’AD (con tutta una serie di complicazioni ulteriori: per esempio, che fine farebbe o che ruolo dovrebbe svolgere la Cassazione, la cui funzione è proprio quella di vegliare all’uniforme interpretazione del diritto oggettivo nazionale?).

Se un rilievo, non una critica, si può sviluppare dalla lettura del libro di Stefano Fassina è di non aver dato alla dimensione politico-costituzionale il peso (pesante) che essa sempre ha. Ma, forse, una maggiore attenzione avrebbe meritato anche la storia, quella vicina e quella meno vicina (intendo la storia dei tempi lunghi che è determinante, anche se spesso non ne abbiamo consapevolezza).

La prima – la storia vicina – ci racconta che il regionalismo fu invenzione dei Costituenti: ciò non sfugge certo a Fassina, ma lo storico del diritto – come chi scrive – si domanda inevitabilmente, questa è la sua antropologia, se quella sia stata una scelta corretta: eravamo già divisi, anzi non siamo mai stati uniti, e allora il regionalismo potrebbe avere nei fatti irrobustito la tendenza divisiva, se non indipendentista; oppure esser stato l’ennesimo, pasticciato, compromesso perché sarebbe stato meglio considerare, non rifiutare a priori, il modello dello stato federale.  

La seconda storia – quella dei tempi lunghi – ci racconta che l’Italia è sempre stata terra di città, spesso tra loro in lotta furibonda o in fiera competizione. Anche quest’elemento, potremmo dire genetico, del municipalismo non sfugge a Fassina. Tuttavia la Costituzione l’ha messo in secondo piano per dare la primazia all’autonomia regionale: una scelta che continua a suscitare perplessità se si tien conto che poi nemmeno a livello regionale vi è quell’unità che si vagheggia. Si pensi, in Veneto, al divario che, per tanti aspetti, corre tra i cittadini di Cortina (vette alpine a confine con la Provincia di Bolzano) e quelli di Bibione (costa adriatica a confine con il Friuli). Voglio dire che la Costituzione, costruita in anni di trauma gravissimo, avrebbe (forse) potuto o dovuto consegnarci, mi riferisco al tema dell’autonomia, opzioni migliori perché più rappresentative della realtà.

Ma la storia vicina – quella post-bellica e della Costituente in primis – ci ha trasmesso un’altra complicazione di cui non si parla mai per ovvi motivi (e non ne parla nemmeno Fassina): quella del regionalismo a statuto speciale. E ci si dovrebbe almeno domandare se questo specialismo sia oggi in linea con il nostro tempo. Oppure se si traduca in una gamma di privilegi ingiustificati: privilegi mal sopportati dalla Regione Veneto che, stretta tra Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia-Giulia, ha colto subito, e con la maggior determinazione, la grande occasione offertagli da chi, nel 2001, ha voluto scardinare il regionalismo più cauto, se si vuole più equilibrato, dei Costituenti.

I riformatori del 2001 hanno gravemente errato. Il Veneto e la Lombardia, oggi, si sono presentate, avidamente, all’incasso: esigono quanto la Costituzione consente oggi (dissennatamente) di esigere. Non dimentichiamocelo. E Fassina non lo dimentica: «va sanata la colossale anomalia del nostro “federalismo” disegnato dal Titolo V della Costituzione». Ma chi ha sbagliato lo dovrebbe riconoscere; e non limitarsi, a fronte della legge Calderoli, a gridare allo scandalo. Quella parte che ha sbagliato dovrebbe offrire una soluzione; e questa va oltre la richiesta di referendum costituzionale. O propone essa una legge alternativa; o si fa promotrice di una legge di riforma costituzionale del titolo V (riformato nel 2001). La seconda soluzione sarebbe di gran lunga preferibile perché più razionale. Costa però perché significherebbe ammettere l’errore. E il ceto politico italiano, da destra a sinistra, non è così maturo (o onesto) da fare cose del genere.

Un’ultima notazione che unisce le due storie, vicina e lontana. Fassina non insiste sulla valenza dei «sentimenti patriottici»: li considera con rispetto, ma li giudica insufficienti per il contrasto dell’AD. Nei fatti ha ragione lui. Ma io insisterei lo stesso. È proprio perché, nel Paese, il patriottismo non esiste o è debole o è di nicchia (e spesso è anche malato) che siamo alle prese con la legge Calderoli. Domandiamoci perché non ce l’abbiamo fatta a corredarci di un sano patriottismo repubblicano. La Costituzione è tiepida in punto. Gli orizzonti sovranazionali di P.C.I. e D.C. non hanno favorito la coesione. Il Vaticano l’ha osteggiata nei secoli. I cittadini sono sempre stati dei municipali; e, ironia della sorte, gli assetti istituzionali hanno progressivamente svuotato Comuni e Province. Probabile che, come scrive Fassina, l’AD produrrebbe una sorta di asservimento delle comunità locali all’ente Regione. Allora andiamo a votare, per piacere, per l’abrogazione; e poi proviamo la missione impossibile di aiutare questi politici.

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