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Bangladesh: una transizione epocale?


9 Ago , 2024|
| 2024 | Visioni

Come le dimissioni e la fuga di Sheikh Hasina possono rappresentare un cambio di paradigma politico per tutto il subcontinente.

La storia del Bangladesh dalla sua nascita nel 1971 segue in gran parte il pattern degli altri stati del Subcontinente indiano: un’alternanza nel tempo tra processo democratico e accentramento autoritario, portata avanti tra partiti familiari, interventi dell’esercito e sollevazioni di piazza. Il Bangladesh non fa eccezione, e dall’anno della sua separazione e indipendenza dall’attuale Pakistan, ha visto alternarsi al governo quasi esclusivamente due partiti, la Lega Awami fondata dal padre della patria Mujibur Rahmani (di cui Sheikh Hasina è la figlia) e il Partito Nazionale Bangladeshi (BNP) retto da Khaleda Zia, vedova di un altro ex presidente, Zia Ur Rahman.

La Lega Awami, ridotta a partito personale di Sheikh Hasina era al governo sin dal 2009, riconfermata nelle tornate elettorali del 2014, 2018 e 2024. Le modalità con cui la Hasina ha mantenuto il potere sono comunemente praticate in Asia Meridionale: a dispetto degli assetti Repubblicani e democratici che i diversi stati della Penisola Subcontinentale si sono dati, il ricorso alle manette per le opposizioni e l’utilizzo spregiudicato della polizia è pratica comune; si veda il caso Kejrival in India occorso proprio sotto l’ultima campagna elettorale o il caso di Imran Khan in Pakistan, gambizzato (politicamente e – ahimé – letteralmente) al fine di ridurne l’ascendente politico e impedirgli di partecipare normalmente alle elezioni. In Bangladesh, giusto per fare un esempio calzante e attinente alla cronaca di questi giorni, si è assistito alla persecuzione giudiziaria di Mohammed Yunus, costretto prima ad accantonare i suoi progetti politici ad inizio decade 2000 e poi a fuggire in Inghilterra. Proprio alla vigilia delle ultime elezioni del 2024, il BNP, secondo partito del paese, aveva chiesto alla Hasina di dimettersi e permettere la nascita di un governo ad interim per assicurare elezioni libere e trasparenti. Al contrario, si è assistito ad una stretta autoritaria che ha portato diverse organizzazioni internazionali a denunciare la condotta del Governo, dall’utilizzo della persecuzione giudiziaria di cui sopra, fino ad arrivare alle sparizioni forzate e alle azioni del famigerato RAB, Rapid Action Battallion, sanzionato dagli USA del 2021 e che ha incrinato le buone relazioni diplomatiche tra Bangladesh e Stati Uniti.

La protesta studentesca nasce quindi in un contesto di Autocrazia Elettorale (vedi il rapporto Democracy Report 2024, a cura dell’istituto V-Dem, Università di Goteborg), maturato parallelamente allo sviluppo economico bangladese seguito all’esternalizzazione di gran parte dell’industria tessile occidentale, che negli ultimi anni ha portato ad una crescita vertiginosa di PIL (crescita più alta di India e Cina), ma che ha avuto una ricaduta piuttosto deludente a livello di reddito pro-capite e di sviluppo del mercato del lavoro, complice un’architettura sociale piuttosto rigida e gerarchica che storicamente si è sviluppata più in accordo ad un modello di sfruttamento feudale che non improntato alla libera iniziativa. Questa è una delle ragioni per cui il Bangladesh appartiene alla categoria di “Paesi Meno Sviluppati”: nonostante il tenore di vita medio sia indubbiamente migliorato negli ultimi vent’anni (la percentuale di bangladesi che vivono una condizione di “povertà estrema” è passata dal 34% dell’anno 2000 al 10,44% del 2020), rimane problematico l’accesso ai servizi essenziali e all’istruzione per una larga fetta di popolazione, laddove è proprio il Bangladesh ad aver registrato il maggior numero di neo milionari, con una crescita esponenziale che ha portato solo nell’ultimo anno la registrazione di 13.881 nuovi milionari. Purtroppo lo schema privatistico di libero mercato applicato allo Stato per attrarre capitali ha fatto sì che le ricchezze venissero polarizzate nelle mani dei ricchi, senza alcuna redistribuzione (come il capitalismo comanda) e quindi senza un significativo miglioramento di infrastrutture o di condizioni lavorative. Il disastro del Rana Plaza del 2013, dove trovarono la morte 1.134 persone senza contare i feriti, è la perfetta rappresentazione di quanto detto finora: il profitto capitalista massimizzato sulla pelle dei lavoratori, il disastro, le misure tardive a protezione dei lavoratori invocate a gran voce anche dai committenti occidentali soprattutto per ragioni di immagine rimaste per lo più lettera morta.

In questo scenario di capitalismo selvaggio protetto da una politica autocratica va aggiunto l’altissimo tasso di disoccupazione tra laureati, che non trovano impiego al di fuori della Fashion Industry, che non offre altro che lavoro poco qualificato e scarse possibilità di carriera.

E arriviamo allo scorso luglio, in cui, a seguito di una legge sulle quote riservate per gli incarichi pubblici voluta dal PM e fortemente contestata dalla società – specialmente proprio dagli studenti – il Bangladesh è stato squassato da una rivolta di proporzioni gigantesche, che ha portato a circa 300 vittime dall’inizio della crisi e che è sfociata nelle dimissioni e nella fuga del Primo Ministro Sheikh Hasina il 4 agosto.

Il ricorso alle “quote” è pratica comune nel subcontinente indiano. Sono nate in India come tentativo di democratizzare la struttura sociale castale e sottrarre minoranze, donne, classi svantaggiate e quant’altro a un destino di indigenza, e cionondimeno sono aspramente criticate poiché fornirebbero dei vantaggi preclusi ad altri. L’applicazione delle quote, invece, è stato nient’altro che una prebenda alla sua base elettorale, destinando il 30% dei posti pubblici ai familiari e discendenti dei combattenti della lotta per l’indipendenza del 1971.

L’iniziale e consueta repressione brutale delle forze di polizia ha esacerbato gli animi e, lungi dall’aver sedato la rivolta, l’ha estesa in tutto il paese, rendendo vano persino il ritiro della legge da parte della Corte Suprema, che prima aveva ridotto la percentuale dal 30% al 5% e poi l’aveva direttamente eliminata. Ma nel subcontinente indiano la legge del “Piano inclinato” non perdona: una volta messi in moto gli eventi diventa molto complicato governarli o predirne gli sviluppi.

Dopo la chiusura di internet, la repressione poliziesca sfociata in centinaia di morti, i rapimenti di leaders studenteschi, insomma, dopo aver messo in opera tutto l’apparato di repressione senza alcun risultato utile, la Premier Sheikh Hasina è fuggita in elicottero alla volta dell’India, lasciandosi dietro le piazze in fiamme con l’esercito e la rappresentanza studentesca chiamati a guidare un difficile ritorno alla normalità.

Il Generale Waker Uz Zaman ha parlato con tutti i partiti politici tranne la Lega Awami, oramai diventata il partito personale della premier: il Bangladesh National Party di Zia, il Jatyiya Party e il Jamaat-e-Islami, partito islamista indicato dalla Hasina come responsabile della rivolta. In un discorso alla Nazione tenuto sulla Tv di Stato, il generale aveva chiesto sulle prime un po’ di tempo per trovare una soluzione alla crisi, come già più volte, di fronte allo stallo politico nella tormentata storia del paese è già accaduto.

Nella giornata di martedi, la svolta inattesa: viene chiesto all’economista premio Nobel Mohammed Yunis, il perseguitato dalla Hasina, l’inventore del microcredito e figura di spicco della società bangladese, di formare un governo ad interim, e la proposta viene prima apparentemente accolta favorevolmente dai militari, e poi accettata dallo stesso Yunis, che ha giurato come Premier di un governo ad interim la mattina di giovedi 8 agosto.

Nel frattempo, però, sono cominciate le pressioni politiche da parte dei paesi vicini, nella fattispecie l’India, che è sempre stata una sostenitrice del governo di Hasina. Complice la politica di destra Hindu promanata dal suo Primo Ministro Modi, l’india guarda con preoccupazione ai Bangladesi di religione Hindu, sulla sicurezza dei quali la propaganda indiana sta battendo incessantemente. Il sospetto che l’intelligence indiana sia dietro alla propaganda social che sta incendiando gli animi si sovrappone alla difficolta di mantenere l’ordine da parte del Comitato Studentesco che capeggia la rivolta: gli studenti si sono immediatamente organizzati sul piano della comunicazione social, coniando l’Hashtag #HinduAreSafeInBangladesh, pubblicando foto di studenti (islamici) che proteggono templi induisti da malintenzionati, chiarendo che la sommossa non ha niente di religioso e promettendo che i casi di violenza verificati – impossibile non accada nulla in un contesto di tale violenza in un paese di 170 milioni di abitanti – verranno identificati e puniti. Nello stesso solco si può mettere anche l’iniziativa degli studenti che hanno raccolto al fine di restituirla tutta la refurtiva saccheggiata dalla residenza presidenziale invasa dalla folla, così come il Parlamento, subito dopo la fuga di Hasina.

La controffensiva social si è concretizzata con la pubblicazione di testimonianze di assalti, con il conio degli hashtag #HindusAreNOTSafeInBangladesh o #HinduUnderAttackInBangladesh sotto i quali si distribuiscono fake news, immagini prive di contesto, notizie verificate (come quella dell’incendio della casa del cantante folk bangladese Rahul Ananda, di religione Hindu, molto noto in patria) e propaganda communal, sulla falsariga di quanto sta accadendo in Inghilterra o in Spagna. Ciò che non appare chiaro e che sta destando sospetti a più livelli è la matrice di questa contro-narrazione che soffia sul fuoco delle divisioni religiose e culturali, al punto che qualcuno ha anche proposto un ardito parallelo tra quanto stiamo descrivendo e le Rivoluzioni Arancioni in Ucraina, cioè a dire che esisterebbe una lettura che vede nell’India ultrainduista un elemento di destabilizzazione dell’ordine costituito in Bangladesh. Ciò che sfugge è il cui prodest in un quadro del genere, ma è sicuramente troppo presto per capirlo.

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