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Includere per discriminare


18 Ago , 2024|
| 2024 | Visioni

Alla memoria di Alain Delon, eterno Rocco

Da tempo, assistiamo a una dilagante retorica della contaminazione, dell’oltrepassamento delle frontiere (invece di porsi il problema teorico del senso e della funzione del confine, delle ragioni della sua persistenza). In realtà i confini possono essere attraversati nella misura in cui se ne riconosca il ruolo. Lo si è visto anche nel modo in cui il recente Congresso Mondiale di Filosofia che si è tenuto a Roma è stato presentato sui media (sulla scia, va detto, di un’autopresentazione, certo non di tutti i suoi partecipanti e relatori, ma della comunicazione ufficiale del e sul Congresso sì, comunicazione che era evidentemente molto preoccupata di veicolare un messaggio di piena adesione al mainstream). Non parliamo del caravanserraglio delle Olimpiadi, e della caricatura di scontro ideologico che si è consumato su di esse (non nell’innocenza, perché certe provocazioni e certi simboli sono stati veicolati intenzionalmente, proprio per produrre un certo effetto).

Uno dei film più difficili, ma importanti, di Almodovar è La mala educación: un film “sui cattivi e i cattivissimi”, in cui certi risvolti dell’omosessualità vengono rappresentati duramente, senza sconti, anche se sempre con una certa sensibilità, o perlomeno senza pregiudizio giudicante, e soprattutto con grazia ed eleganza. Infatti Almodovar è un Maestro (guarda caso, certe cose lui le diceva e rappresentava quando non era ovvio: ora che è di moda fa altro, spinge la propria riflessione oltre). Purtroppo oggi un certo conformismo gay liberal-globalista, oltre a svalutare gusto, senso della bellezza, profondità culturale e critica, omologandosi, tradisce il senso stesso della diversità omosessuale, che in quanto differenza culturale ed esistenziale, punto di vista eccentrico rispetto alla “norma”, nella storia culturale e artistica ha rappresentato spesso una risorsa, una lente che acuiva lo sguardo: mi limito a citare la figura dello “spagnolo” (Elio Marcuzzo, giovane, bravissimo attore, atteso da lì a poco da un destino tragico) in Ossessione, e quella straordinaria scena di sottile ma intenso desiderio omoerotico che lo vede protagonista mentre guarda il corpo illuminato da un fiammifero di Gino, uno splendido Massimo Girotti, ripreso dal giovane Visconti con una capacità di evocazione carnale, aderendo con la cinepresa al corpo, che ancora impressiona (altro che messe in scena volgarotte e stupidine oggi tanto in voga…). Che l’omosessualità diventi invece mosca cocchiera dell’omologazione è un paradosso amaro. Il “desiderio di essere come tutti” è forse comprensibile, da un certo punto di vista, ma seguendo Pasolini ne va riconosciuta la natura  regressiva, se non reazionaria. Tanto più in un contesto in cui “tutti” non è un “collettivo”, ma la sommatoria di una miriade di individui separati e senza storia, inclusi nel mercato globale. Essere come tutti nel contesto attuale vuol dire non credere a niente come tutti, non desiderare davvero – né immaginare – più niente, per consumare tutto. Ma forse tale esito non è così inatteso: da un lato conferma che il neoliberismo è capace di appropriarsi di tutto; dall’altro che persino nello sdoganamento dello “stile di vita” gay non c’è nulla di liberatorio, bensì un veleno: la valorizzazione di un versante consumistico e nichilistico. Del potenziale eversivo, o perlomeno critico, della cultura omosessuale non resta allora più nulla. Anzi, la normalizzazione gaya a buon mercato è fonte di un nuovo, isterico perbenismo, di un’insopportabile adesione al potere totalizzante della tecnica, dello scientismo, della finanza, del mercato, dei media globalisti. Che ciò sia coperto da una melassa inclusivista rende ancor più ridicolo, e vagamente ripugnante, il tutto. Temo purtroppo che anche il modo in cui attualmente si cavalca e semplifica il tema della “razza” non si sottragga a derive analoghe.

Del resto, chi può essere contro l’inclusione? O contro il riconoscimento del fatto dell’omosessualità, così come delle tante differenze che fanno l’umano? Solo delle caricature: da questo punto di vista, i neotradizionalisti un tanto al chilo sono la maschera speculare dei globalisti postmoderni. Ma da un autentico rispetto della pluralità culturale ed esistenziale bisognerebbe derivare innanzitutto la legittimità delle differenze, il sospetto verso l’appiattimento globalista e gli interessi che si agitano nel retroscena delle “istituzioni della globalizzazione”. Ma ormai non si sospetta più, nel coté (presuntamente) progressista: si beve la postverità del sistema illudendosi così di essere superiori moralmente. Il diritto alla propria differenza, che implica aprirsi sul serio, faticosamente, a quella degli altri, è così sacrificato al moloch globalista, cioè al potere nichilista dell’uniformazione occidentale. In questo, i vecchi, apparenti nemici di un tempo si incontrano (turbocapitalisti e trotskisti, postoperaisti e neocons). Purtroppo, Del Noce aveva colto nel segno. Essendo un critico interno della modernità, non ne condivido (anche se comprendo e rispetto) il posizionamento esterno ad essa, nella Tradizione. Ma so che anche quella moderna è una tradizione, e che senza rapporto con il lascito della tradizione classica e cristiana non vi sarebbe stata alcuna legittimità dell’età moderna, che non è totalmente autofondata (come pretenderebbe Blumenberg), ma dipende da un rapporto dialettico con quanto eredita e persino con ciò a cui si contrappone.

In generale, il problema non è l’accettazione della diversità, ovviamente, che è sacrosanta: è quando il prezzo dell’inclusione è la censura e l’esclusione aggressiva di chiunque ponga un problema (magari su questioni bioetiche complesse e trasversalmente controverse, come quella della gestazione per altri), o quando la normalità diventa conformismo, superficialità.

Se la coazione a discriminare è inestirpabile e sempre risorgente (come gli ultimi anni hanno mostrato al massimo grado, ad esempio con la vergognosa legittimazione del green pass, basata oltretutto sulla menzogna); se essa si manifesta anche laddove è negata, oppure viene sdoganata grazie all’uso della paura, utilizzando ragioni moralistiche e tartufesche; ebbene forse tutto ciò vuol dire che abbiamo un problema originario, che ha a che fare con la “condizione umana” gettata nella storia, cioè con le  ipoteche antropologico-politiche incistate nello “spirito oggettivo” (che per questo rimane senza conciliazione). Forse riconoscere quella pulsione originaria consentirebbe di non assecondarla. Ma l’autoaccecamento globalista (manifestatosi già nel Novecento, ma trionfante solo dopo il 1989) ha progressivamente disinstallato tutte le impalcature di senso che consentivano di erigere argini (spaziali, politici, giuridici, culturali, nazionali-popolari) alla totalizzazione dell’ostilità. Per questo il pulviscolo globale che si agita nel catino occidentalista non è irenico, ma apocalittico. 

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