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Appunti su Lo spazio letterario di Blanchot


30 Ago , 2024|
| 2024 | Terza Pagina

Lo spazio letterario (Gallimard, 1955- Il Saggiatore 2018) è uno degli ultimi libri di Maurice Blanchot, in cui porta alle estreme conseguenze il discorso iniziato con La scrittura del disastro; riappare qui in primo piano la scrittura, una scrittura intrisa di vita e di morte, di follia e di solitudine: per prima cosa, la solitudine. Pare che impariamo qualcosa sull’arte solo quando sperimentiamo quel che significa la parola solitudine.[1]

La solitudine chiede il silenzio, l’assenza di parola: come vedremo, un altro modo di giungere all’impersonale. Blanchot riferisce nelle prime pagine che Rilke il 3 agosto 1907 scrive alla contessa di Solm-Laubach di non aver pronunciato neanche una parola per settimane. La solitudine dell’opera è la solitudine dello scrittore che necessita di distanza dal contesto per creare o fabbricarsi una lingua. Chi scrive un’opera non è il centro dell’opera, viene piuttosto inconsapevolmente congedato dall’opera stessa. Valéry celebra il desiderio d’infinito dell’opera e nell’opera per cui ciò che lo scrittore inizia in un libro lo termina in un altro. L’artista non può mettervi fine ma ne fa il luogo chiuso di un lavoro senza fine, attribuendosi una qualche padronanza della mente sull’opera che si sviluppa come forma di potere. Ma l’essenziale non è che l’opera sia finita o infinita quanto che essa sia. La parola essere mette al riparo l’opera dal proprio stesso autore, tale esistenza appartiene alla solitudine.

Lo scrittore scrive un libro, ma il libro non è ancora l’opera, l’opera è tale solo quando – nella violenza di un inizio che le è proprio – si pronuncia in essa la parola essere, e questo accade quando l’opera è diventata l’intimità di qualcuno che la scrive e di qualcuno che la legge. Viene quindi da chiedersi: se la solitudine è il rischio dello scrittore, non significa forse che essa esprime il fatto che lo scrittore è rivolto, orientato verso l’aperta violenza dell’opera di cui non coglie mai se non il sostituto, l’approssimarsi, ovvero l’illusione sotto forma di libro?[2]

Il libro in sé non costituisce che un ammasso di parole sterili: insignificante, quanto è insignificante il gesto dello scrivere finché non sia portato a compimento, e il suo compimento è nella morte; dunque, prima della morte, l’autore non sarà mai in grado di conoscere la propria opera. L’opera si trasforma nel mondo e fa sì che a sua volta il mondo si trasformi in seguito alla sua ricezione; dunque, nessuna opera è inutile, nessuna è in sé esattamente solo un ammasso di parole, ogni visione del mondo trascende il proprio autore e diviene dispositivo in grado di muovere la macchina da cui, come ben sappiamo, non si sfugge. Per lo scrittore la propria opera è illeggibile, in quanto segreto da cui lui stesso viene separato.

L’impossibilità di leggere consiste nella scoperta che ora, nello spazio aperto della creazione, non vi è più spazio per la creazione – e che allo scrittore non è concesso nient’altro, se non di continuare a scrivere l’opera.[3]

Chi scrive l’opera non può rimanervi accanto, ne è sempre sovrastato, la decisione che congeda lo scrittore fa di lui un sopravvissuto. Lo scrittore non può rileggersi: Noli me legere, non può rimanere nell’opera, può solo sopravviverle, e non sempre ciò avviene.

La solitudine dello scrittore, condizione che coincide con il suo rischio, dipenderebbe dal fatto che lo scrittore appartiene, nell’opera, a ciò che esiste sempre prima dell’opera. Attraverso lo scrittore l’opera accade, è la forza dell’inizio, ma egli appartiene a un tempo in cui domina l’incertezza del ricominciare.[4]

Blanchot immagina un uomo con in mano una matita, che voglia fortemente lasciarla, nello stesso tempo la matita gli sfuggirebbe di mano, la mano abbozza un lento movimento per riprenderla. Tutto ciò è da lui definito prensione persecutrice.

La padronanza dipende sempre dall’altra mano, cioè da quella che non scrive, che è capace di intervenire quando ce n’è bisogno, e che è capace d’afferrare la matita e di strapparla alla presa.[5]

Nella solitudine della scrittura si sperimenta una frattura del tempo ordinario: lo scrittore non appartiene più al campo ordinario dell’esattezza, del limite, ma viene consegnato a quello dell’interminabile e dell’incessante.

Quel che si scrive consegna chi deve scrivere a un’affermazione sulla quale non ha alcuna autorità, che è essa stessa priva di consistenza, che non afferma nulla, che non è il riposo o la dignità del silenzio, perché essa è ciò che continua a parlare anche dopo che tutto è stato detto, è ciò che non precede la parola, poiché anzi le impedisce d’essere parola che inizia un discorso, così come le revoca il diritto o il potere d’interrompersi. Scrivere significa spezzare il legame che lega la parola a me stesso, rompere quel rapporto che, dandomi facoltà di parlare verso «di te», mi dà la parola secondo il senso che riceve da te, dal momento che ti interpella, che è quell’interpellare che inizia in me perché in te si conclude. Scrivere significa rompere questo legame. Inoltre, significa anche sottrarre il linguaggio al corso del mondo, privarlo di ciò che lo rende quella facoltà per cui, quando parlo, è il mondo che sta parlando, è il giorno che si costruisce attraverso il lavoro, l’azione e il tempo.[6]

Kafka sostiene di aver iniziato a fare letteratura nel momento in cui ha sostituito il pronome io con il pronome egli. Ciò significa entrare in un linguaggio che nessuno parla, che non si rivolge a nessuno, è senza centro e non chiede nulla. Non parla la parola ma l’essere che delle parole si serve per consacrarsi alla pura passività. Non solo lo scrittore perde la facoltà di dire io ma sottrae ad altri tale facoltà. È un invito al silenzio a visitare lo scrittore, e ogni scrittore lo sperimenta. Tale silenzio alberga anche nell’io che nega sé stesso. Tra io e non io c’è una lotta, una presenza invadente e un’assenza, un alternarsi tra resistenza e resa, ma anche quel sentire animale, primitivo, tribale, per cui quando la persona viene aggredita nella sua più intima e fragile natura avviene qualcosa, uno scatenamento di forze vitali, di cui non ci si credeva neppure capaci, legate all’istinto di auto conservazione. Chi non abbandona l’ego si sta solo difendendo da un dolore troppo grande, un dolore inflitto da altri o da sé stesso – che sia dell’ordine del reale o del simbolico non fa differenza. Lo spazio della scrittura per Blanchot è quello in cui non esistono più difese o barriere, nessun istinto di autoconservazione. Solo la mano che non scrive può interrompere la scrittura del disastro, ovvero ripristinare il tempo, la possibilità di dire no, l’avvenire. Quando di un’opera ammiriamo il tono ne ammiriamo il silenzio, il vuoto da cui la parola sgorga, non sporcata dalle circostanze, dal costante sfuggire del presente. Il tono non è la voce dello scrittore ma l’intimità del silenzio che è capace di imporre alla parola. Il tono determina, scrive Blanchot, i grandi scrittori, ma l’opera non si preoccupa della loro grandezza giacché l’opera esiste con una vita propria, autonoma. Vi è un conflitto tra l’io presente e l’io scomparso. Lo scrittore sacrifica la propria parola per dare voce all’universale. Una parola, dice Blanchot, emancipata dal capriccio. Eppure poi dirà essere il diario la forma più alta di letteratura, mentre l’opera diviene ricerca d’arte lo scrittore sente il bisogno di mantenere un contatto con sé stesso. Perciò il diario non è semplice confessione o racconto di sé, è un Memoriale. Lo scrittore deve ricordarsi di esistere con lo stesso mezzo mediante il quale dimentica di esistere: la scrittura. Mentre nella narrazione l’autore scompare, nel diario si parla ancora di cose reali e chi parla ha un nome e parla in nome di sé stesso. 

Il Diario – il libro apparentemente del tutto solitario – viene spesso scritto a causa della paura e dell’angoscia della solitudine che lo scrittore prova scrivendo l’opera.[7]

Il Diario mostra che colui che scrive non è già più in grado di appartenere al tempo nell’abituale fermezza dell’azione, nella comunità del lavoro e del mestiere, nella semplicità della parola intima, nella forza dell’irriflessione. Non è già più del tutto storico, ma non vuole comunque perdere il tempo, e, poiché non sa più cosa scrivere, allora scrive dietro la sollecitazione della su storia quotidiana e conformemente alla preoccupazione dei giorni. Accade che gli scrittori che tengono un diario siano i più letterari tra tutti gli scrittori, ma forse questo dipende proprio dal fatto che essi in tal modo evitano l’estremo della letteratura, se quest’ultima è proprio l’affascinante regno dell’assenza di tempo.[8]

Scrivere è entrare nella zona dell’assenza di tempo, della sospensione, e in ciò è l’essenza della solitudine, o un suo avvicinamento. Nulla inizia e nulla finisce. Se nulla inizia significa che l’iniziativa non è più possibile, l’affermazione non può affermarsi in quanto torna al mittente. Il desiderio di sparire non deve concludersi e confondersi nel desiderio di morte, per Blanchot chi vuole morire rifiuta la morte, non l’accoglie. L’affermazione del nome e la rinuncia al nome stesso sono due facce della stessa medaglia, due parti del disastro. Prima del disastro – facendo riferimento al precedente saggio di Blanchot – la scrittura non era che prova, prova di quel disastro. Al posto dell’eterno presente vi è uno scivolamento in una eternità inferiore (ricordando il tema portante de La caduta nel tempo di Emil Cioran) tale da divenire un senza presente. Il senza presente non rinvia ad alcun passato, ci rinvia alla presenza dell’assenza.

Tuttavia, tale «senza presente» non rinvia a un qualche passato. Un tempo ha avuto la dignità e la forza operante di adesso; di questa forza attiva il ricordo porta ancora testimonianza, il ricordo che mi libera da quel che altrimenti mi ricorderebbe, che me ne libera dandomi la possibilità di chiamarlo liberamente, di disporne secondo la mia intenzione attuale. Il ricordo è la libertà del passato. Ma ciò che non ha presente non accetta nemmeno il presente di un ricordo.[9]

Quando parlerà di Kafka Blanchot amerà in lui l’idea del frammento che resta frammento senza alcuna soluzione. La vita ne ha forse? Si possono fare delle congetture, cercare un senso ultimo, ma alla fine la verità del perché accadano determinate cose sfuggirà sempre. Può la scrittura rispondere a interrogativi che la vita lascia aperti? Può, sì, ma finisce per essere consolatoria. Per avvicinarsi quanto più possibile alla verità quando si scrive qualcosa si scopre che i cattivi sono fragilissimi e che i buoni in realtà non sono poi così buoni come sembrano. Si scoprono tutti i contrari riflessi in una coscienza. La meraviglia di Kafka è la capacità di creare trappole in cui i suoi personaggi restano completamente incastrati senza che vi siano veri avversari se non un intero sistema, un meccanismo, un mondo in cui si entra, e tutto viene rovesciato. Kafka è l’esempio più lampante dello spazio della solitudine, della scrittura del disastro, di ciò che non ha mai avuto luogo, eppure ricomincia sempre identico. Restando sul tema generale del tempo e dello spazio letterario, in riferimento all’impersonale che accomuna Weil a Blanchot, si giunge al cuore del tema: il «Si» impersonale è ciò che risulta più vicino al momento della morte.[10] Dunque, solitudine, ferita, caduta, eterno presente, tempo della morte, «Si» impersonale, scrittura. Una scrittura che potrebbe non avvenire, perché si potrebbe scivolare in una caduta senza fine, in ciò che De Martino definisce vissuto di crollo o fine del mondo, ma che si trasforma in scrittura come un sintomo che lacanianamente si trasformi in sinthòmo. Ci si domanderà dunque quale sia il procedimento secondo cui la solitudine, la ferita, la caduta, l’eterno presente, il momento della morte e l’impersonale si trasformano in scrittura. Tale procedimento è il fascino: il fascino fa sì che il freddo in cui si rimane scoperti, la nudità in cui si resta nudi, l’incrinatura del mondo esterno che soffoca l’interno, diventi spazio della vertigine, in quanto spazio distanza. Per il fascino è necessaria la distanza. Il fascino è il luogo del simbolico in quanto evita la confusione del contatto creando quindi uno spazio per simbolizzare.

Di chiunque sia affascinato si può dire che non percepisce alcun oggetto reale, alcuna figura reale, perché quel che vede non appartiene al mondo della realtà, ma al campo indeterminato del fascino.[11]

Il luogo principe del fascino è l’infanzia, e la regina di tale regno è la Madre, compare nel mondo del bambino quando il bambino vive completamente nello sguardo del fascino. Il fascino è eminentemente visivo: è l’apparizione di un’immagine. L’infanzia ci affascina in quanto lì splende una luce non svelata, il suo essere estranea alla rivelazione permette all’immagine di emergere. Il fascino è legato alla figura neutra del «Si» impersonale, del senza spazio e senza tempo, dell’immenso, dove l’assenza si coglie e si vede in quanto accecante.

Scrivere è entrare nell’affermazione della solitudine in cui incombe la minaccia del fascino. È abbandonarsi al rischio dell’assenza di tempo, in cui regna l’eterno ricominciare. È passare da io a Egli, di modo che ciò che mi capita, in realtà, non capita a nessuno, anzi, è anonimo per il fatto stesso che mi riguarda e si ripete in una dispersione infinita. Scrivere significa esporre il linguaggio al fascino e, attraverso di esso, rimanere in contatto con il campo assoluto, laddove la cosa ridiviene immagine, ove l’immagine, alludendo a un volto, diviene allusione a ciò che è senza volto e, da forma disegnata sull’assenza, diviene l’informe presenza di quell’assenza, l’apertura opaca e vuota su ciò che è quando il mondo non è più, quando non c’è ancora un mondo.[12]

L’opera per Blanchot costituisce un’esperienza in quanto attira chi vi si consacra verso il punto di impossibilità come in un vortice.

In un passaggio di Malte Laurids Brigge, Rilke dice che «i versi non sono sentimenti, ma sono esperienze. Per poter scrivere un solo verso, bisogna aver visto molte città, molte persone e molte cose […]». Con questo Rilke non intende però affermare che il verso sarebbe l’espressione di una personalità ricca, capace di vivere e che ha molto vissuto. I ricordi sono sì necessari, ma per essere dimenticati, perché nell’oblio, nel silenzio di una profonda metamorfosi, alla fine venga alla luce una parola, o meglio, la prima parola di un verso. Esperienza significa allora contatto con l’essere e rinnovamento di sé stessi a quel contatto – una prova, dunque, ma che rimane indeterminata.[13]

Il passaggio citato porta alla luce l’esigenza dell’autenticità dell’esperire: affinché un’esperienza sia autentica non occorre realmente aver viaggiato molto, aver visto molte cose che siano poste in uno spazio esterno, ma averle viste e trasmutate dentro di noi. Esperienza come metamorfosi e rinnovamento di sé. Valéry scrive che ogni artista cerca null’altro che il contatto più intimo, più autentico con la propria arte; il pittore con la pittura, il poeta con la poesia, e così via. Quel viaggiare molto di cui parla Rilke non necessariamente va interpretato come uno spostamento fisico, anche se così lo intende inizialmente il poeta, in un secondo momento – il momento dello spazio interiore – il viaggio fisico si converte in un viaggio interiore in cui tutto l’esterno viene avvolto dalla coscienza dell’esperienza e trasformato in scrittura. La poesia non è data una volta per tutte come verità o certezza ma va di volta in volta riafferrata nello spazio dell’inafferrabile, il poeta non ne è il padrone, ne è il custode, non la possiede, ne è posseduto. Valéry propende per un’interpretazione rigorosa della poesia, la osserva con sguardo tecnico, che faccia da scudo al vortice infinitamente mortale in cui la scrittura – la poesia più di tutte – risucchia. Valéry ritiene – contrariamente a quanto si pensi – che l’arte abbia uno scopo e che questo sia la padronanza della mente, ritiene che i suoi versi possano insegnargli a costruire questi argini per padroneggiare la mente. Blanchot contrappone a tale visione un nuovo sguardo, secondo cui lo scopo è la mente stessa, e la poesia è la mente stessa. Per Valéry, si diceva l’opera è identificata con la mente, ma a tratti la definisce forma; esisteranno, quindi due forme: la poesia-mente e la poesia-corpo; nel primo caso è la mente a essere maestra delle forme, nel secondo caso è il corpo. Quando la poesia si presenta come mente è mero esercizio di senso, mentre qualora si presentasse come corpo, e indifferente al senso, tenderebbe alla perfezione. Quindi abbiamo una preminenza del significante sul significato in Valéry, come in molti altri poeti, per cui il senso, la ricerca del significato risulterebbe superflua rispetto alla perfezione formale. «Il vero pittore, per tutta la vita, ricerca la pittura; il vero poeta, la Poesia.»[14] Espressione alquanto rigorosa, che produce un radicale senso di smarrimento: per poter scrivere bisogna aver esaurito la vita, ma bisogna anche aver esaurito l’arte, ovvero aver esaurito la propria vita nella ricerca dell’arte. Ciò pone immediatamente e irrimediabilmente il problema della morte volontaria, Blanchot torna a far riferimento a Kafka, prima di affrontare di petto il tema del suicidio.

Kafka, in una nota dei Diari, fa una considerazione sulla quale vale la pena riflettere: «Tornando a casa, ho detto a Max che, sul letto di morte, sempre che non soffra troppo, sarò assai contento. ho dimenticato di aggiungere, e in seguito l’ho omesso apposta, che quanto di meglio ho scritto si basa proprio su questa capacità di morire contento.[15]

Questa riflessione del 1914 si distanzia non poco dallo spazio dedicato alla morte – per nulla felice – nei suoi libri, pare che Kafka abbia stabilito con la morte un patto di reciproca libertà, per certi versi provocatoria, difatti egli crede che in realtà si possa scrivere solo se si sono con lei stabiliti dei rapporti di superiorità.

Se invece essa è la situazione in cui si perde il controllo, se è un’emozione che non si riesce a contenere, allora sottrae le parole alla penna, allora stronca la parola; lo scrittore non scrive più, ma grida, con un grido inconsulto, confuso, che nessuno intende e che non commuove nessuno. Qui Kafka sente profondamente che l’arte è una relazione con la morte. Perché con la morte? Perché è estrema. Chi riesce a gestirla può gestire ampiamente anche sé stesso, è in connessione con tutto quel che è possibile, è egli stesso potere.[16]

La scrittura sarebbe dunque una forma di avvicinamento alla morte? La padronanza di cui parla Kafka è molto più sottile e molto meno legata a una semplice intimità con la morte, vi è una profondità diversa. Bisogna morire identificandosi con colui che muore, ma anche trovare nell’estrema insoddisfazione la soddisfazione più grande, mantenere anche in punto di morte l’estrema lucidità dello sguardo, l’equilibrio capace di riappacificarsi con la morte.

La «capacità di morire contento» significa che la relazione con il mondo circostante è già perduta da tempo: è come se Kafka, in un certo qual modo, fosse già morto, è questo che gli capita, così come gli è capitato l’esilio, e tale accadimento è collegato al dono della scrittura.[17]

La morte contenta diventa dunque lo scopo dell’arte, la giustificazione della scrittura, l’accettazione del cerchio nel quale si è convocati. Il pensiero circolare si realizza quando si è convocati da un oggetto che si presenta come ostacolo ma non lo si può superare se non facendo ritorno al punto originale da cui si è partiti. Il cerchio è costituito dalla doppia natura della scelta: scrivere per poter morire, morire per poter scrivere, si tratta di una scelta illusoria poiché ciascuna delle due vie conduce all’altra. Gide esprime un’opinione contraria, come anche Proust: il primo considera la scrittura la possibilità di mettere qualcosa al riparo dalla morte, il secondo, più sottilmente, sostiene che la scrittura serva a rendere la morte meno amara. Ma Blanchot considera meschini tali sogni di sopravvivenza, non solo meschini quanto errati, poiché infine anche il tentativo di mettersi al riparo dalla morte conduce nel cerchio per cui la grandezza dell’arte tanto più è grande quanto più si misura con la morte. Tale relazione è presente in tutti gli artisti, persino nei più vitali, nei più aristocratici, alla fine si torna sempre a Kafka, anche se l’idea dello scrittore che scrive per poter morire di una morte felice parrebbe un attentato al buon senso, come se per pensare in modo concreto il pensiero della morte fossimo costretti all’inautentico, se gli uomini si ritraggono è per timore e desiderio di fuga eppure la morte stessa è una fuga perpetua dalla morte, perché la morte è la profondità della dissimulazione. Quindi, nascondersi da lei equivale in un certo senso a nascondersi in lei.[18]

Nei grandi sistemi religiosi la morte ha un ruolo cardine, è l’evento: il cammino della verità, ciò che rende tutto il tangibile intangibile, il vero rovesciamento delle cose. Perciò è fondamentale conoscerci in quanto umani attraverso la morte che ci conferisce senso, significazione, confine. Non appena l’uomo si raccolga in sé stesso nella sua condizione di mortale potrà cogliessi come infinitamente ed estremamente mortale, ovvero l’essere più mortale di tutti. È questa per Blanchot la condizione umana: la morte non in quanto data ma in quanto ciò che bisogna fare, che conferisce senso alle nostre attività e perciò ne è sorgente (origine e scaturigine). In questo senso, il poeta più grande di ogni tempo, il più spiccatamente filosofico, è Hölderlin, il poeta del mito e della sorgente, colui che visse nella fiamma inesauribile poiché era per natura nella voragine oltre la separazione tra luce e buio, tra vita e morte, e tale veggenza – consumata in una strenua lotta con le due forze più grandi e terribili per l’uomo: morte e follia – diede origine a fasi di volta in volta nuove, che da Iperione – il momento eroico, il momento dell’aperta battaglia contro la notte e la morte – lo trasportano man mano verso il confronto con la notte dentro sé stesso, una notte da cui non poteva fuggire, e che serviva da contraltare alla luce corrusca del fuoco, che lo seduceva per arderlo e corroderlo. Così, il poeta visse nel mito, nella magia degli estremi, fino al momento della stanchezza, in cui la luce divenne abbacinante e si tradusse in perdita del senno, follia, abbandono della lotta. Rilke ripercorre le tappe di Hölderlin, ma pone uno scudo contro il sacro – il sacro in quanto fuoco – e resta nell’infinità senza uscita della domanda, da cui non si può sfuggire, accoglie infine la morte impersonale, giunto alla grazia non per concessione della follia – della luce più bruciante – ma attraverso un ragionamento poetico che conduce all’integrazione degli estremi.

La poesia come dispositivo di passività, passione e incanalamento di forze che giungono da lontano e si pongono come ponte tra passato e futuro, nasce nel silenzio, nello studio, nell’ascolto, mediante il confronto con i temi e universali e imperituri, molto distanti dal quotidiano berciare di un presente già scomparso e rimpiazzato da un nuovo presente ancora più effimero. Esiste un solo grande tema: la vita e la morte, la vita nella morte, la morte nella vita, e i loro punti di indiscernibilità. 

Abbiamo, in segno opposto all’abitare e al farsi abitare, l’emersione della rivolta, nel solco della morte stessa che ripudia il morire: il suicidio. 

Darsi la morte non è forse la via più breve tra l’uomo e sé stesso, tra l’animale e l’uomo, e anche, come aggiungerà Kirillov, tra l’uomo e Dio? «Vi faccio l’elogio della morte, la libera morte, che viene a me, perché io voglio». «Sopprimere sé stessi è un atto degno di stima da parte di tutti; attraverso tale atto si acquisisce quasi il diritto di vivere.» La morte naturale è la morte «nelle condizioni più deprecabili, è una morte non libera, che non giunge al bisogno, è una morte da vili. Per amore della vita, bisognerebbe desiderare una morte completamente diversa, una morte libera e cosciente, non casuale e priva di sorprese». Le affermazioni di Nietzsche risuonano come un’eco di libertà. Non ci sì uccide ma ci si può uccidere.[19]

È la possibilità della libera morte a garantire la libertà sulla terra, una morte docile e sicura, a portata di mano. È forse la frontiera più estrema della volontà di potenza, il suo lato oscuro, la sua ombra? Questa idea della libera morte come opposizione o rivolta nei confronti dell’invivibilità della vita. Ma in quali circostanze la vita si dice invivibile? E per chi? È invivibile per il soggetto? È invivibile per il contesto? Cosa accadrebbe se potessimo sopprimere tutti i soggetti non sopportati e perciò non sostenuti dal contesto? Oppure dovremmo forse rendere la vita invivibile affinché i non adatti – i più infinitamente mortali – prendendo coscienza della propria finitudine debbano poi togliersi la vita? O sarà, forse, l’atto del togliersi la vita una forma di rivolta, il rifiuto di un dono? Il suicidio come sfida e rivolta è ciò che ha costituito l’essenza del pensiero anarchico nichilista, tant’è che Dostoevskij, ne I demoni, conferisce questa voce e questo compito a Kirillov: «Mi ucciderò per affermare la mia insubordinazione, la mia nuova e terribile libertà».[20] E, di seguito, Blanchot: 

La novità del progetto di Kirillov consiste nel fatto che egli, dandosi la morte, non ha solo intenzione di opporsi a Dio, ma ne vuole bensì verificare l’inesistenza, verificarla per dimostrare agli altri, oltre che a sé stesso, che Dio non esiste. […] Perché suicidarsi? Perché se muore in modo libero, se sperimenta e al contempo dimostra a sé stesso la libertà della morte e la libertà della sua morte, allora avrà raggiunto l’assoluto, sarà l’assoluto stesso, assolutamente uomo, e non vi sarà altro assoluto all’infuori di lui. […] Se qualcuno sarà padrone di sé sino alla morte, padrone di sé attraverso la morte, sarà allora anche padrone di quell’onnipotenza che giunge a noi attraverso la morte, e la ridurrà un’onnipotenza morta. Il suicidio di Kirillov diventa quindi la morte di Dio.[21]

Il fascino delle parole di Kirillov è incerto ma diabolico, sembra poter diventare padrone della vita e della morte, sembra che il suo annuncio del suicidio possa affermare il primato della ragione sul buio dell’incoscienza che abita la fede conferendo all’uomo una posizione subalterna. Eppure Kirillov per parlare della morte e del superamento della paura di Dio parla di Dio, è come se avesse bisogno di lui per confermare a sé stesso e agli uomini la sua inesistenza, ma in ciò s’insinua la presenza: nel conferire a Dio – seppur non direttamente – la colpa di aver reso l’uomo subalterno. Con tale gesto – parola gestuale – contro la codardia in realtà Kirillov si macchia della stessa codardia che vorrebbe disintegrare, il suo materialismo è macchiato della stessa paura degli infinitamente mortali e sembra abbandonarsi a una sordida ignoranza quando gli viene detto che prima di lui molte persone si sono uccise.

Per lui, non si è ancora ucciso nessuno: nessuno, infatti, si è dato la morte come un vero e proprio dono, con quella generosità esuberante del cuore che renderà tale atto un’azione autentica – e ancora nessuno ha visto nella morte la capacità di darsi la morte invece di riceverla, di morire «per l’idea», come si dice, ovvero in un modo puramente ideale. Certo, se riuscisse a trasformare la morte nella sua possibilità e se riuscisse a renderla pienamente umana, avrebbe allora raggiunto la libertà assoluta, l’avrebbe raggiunta in quanto uomo e l’avrebbe donata agli uomini. O, per dirla in altre parole, sarebbe stato coscienza di sparire e non coscienza che sparisce, avrebbe completamente annesso alla sua coscienza la sparizione della coscienza stessa, sarebbe quindi la totalità realizzata, la realizzazione del tutto, l’assoluto.[22]

Il compito di Kirillov, il più solenne, la morte come ricerca della possibilità della morte, non ha il suo fondamento nel suicidio, giacché il suicidio si pone già come esito di una volontà malata. Dostoevskij stesso condanna il suo personaggio a cadere nell’abisso che egli stesso ha spalancato. Ma, Blanchot si domanda, Kirillov muore veramente? Riuscirà mai a verificare attraverso la morte l’evidenza dell’inesistenza di Dio? Ma, ancora più importante, attraverso la morte potrà poi cogliere la possibilità che traeva in anticipo da essa? Oppure, al contrario, la morte volontaria lo sottrae sia alla possibilità di vivere che a quella di morire? È chiaramente quest’ultima la strada percorsa da Blanchot, che arriva così a sdoppiare l’esistenza della morte. 

Quel che scorgiamo nella morte volontaria è quindi l’estrema passività, il fatto cioè che l’azione vi sia presente solo in quanto maschera di un’affascinante destituzione.[23]

Lo strano progetto della doppia morte, ovvero, l’impossibilità del progetto della morte: il progetto apparentemente si slancia verso l’irraggiungibile. La prima morte sarebbe dunque quella che comincia nell’idea della libertà, la seconda invece incarnerebbe sempre la passività dell’essere agiti. 

Vado verso quella morte che è a mia disposizione nel mondo e così facendo credo di raggiungere l’altra morte, sulla quale non ho potere alcuno, che non ne ha a sua volta su di me perché non ha nulla a che vedere con me, e se io la ignoro lei parimenti mi ignora, è la vuota intimità di questa ignoranza.[24]

Con il suicidio lego la mia morte al momento attuale, e m’impedisco di coglierne l’essenza più autentica, che non si lega ad alcun momento particolare, nulla è più illusorio e folle di quel’«io voglio», la morte non è mai realmente presente. Nel suicidio vi è l’intenzione di abolire l’avvenire come mistero della morte. Si desidera la morte perché l’avvenire smetta di serbarci un segreto, per renderlo chiaro, per disarmarlo, per battere l’oscurità originaria al cui fascino si è sottomessi, l’oscurità che canta attraverso di noi, e in noi avviene. Il suicida non accoglie la morte, ma desidera sopprimerla, vuole spodestarla, estrarne la pericolosità. Pertanto, il suicidio e l’arte sono strettamente legati, in quanto possibilità di arginare l’inarginabile, di porre sotto confini determinati l’indeterminato. È forse anche il suicidio un’arte: l’arte di rifiutare l’infinito che sempre in noi chiama e ci ribalta. L’artista è legato all’opera nello stesso modo in cui è legato alla morte. Sembra che l’arte e il suicidio siano talmente legati che nessuno dei due riesca a liberarsi dall’inganno posto dalla stessa illusione della libertà. Si scrutano da una vicinanza estrema e a tratti imbarazzante. Uno scambia la sua morte con il morire in sé, l’altro scambia un libro per l’opera in sé. Si tratta di una mancanza di prospettiva, quindi della prospettiva di Narciso, dello stadio dello specchio. Si avrà poi il timore di essere rigettati anche dall’aldilà? Di aver reso impossibile ogni possibile?

No: il salto è l’atto stesso di morire, è la volta profondità dell’aldilà; è il fatto di morire che porta in sé un rovesciamento radicale, per il quale la morte, che era la forma estrema del mio potere, non diviene più soltanto quel che mi priva di me stesso lasciandomi fuori dal mio potere di cominciare e anche fi finire, ma diventa anche quel che non ha alcuna relazione con me, alcun potere su di me, che è sprovvisto di ogni possibilità, l’irrealtà dell’indefinito.[25]

Il suicidio e l’opera differiscono poiché il suicidio è orientato verso tale rovesciamento come verso la propria fine, mentre l’opera lo ricerca come origine. Il suicidio si rende possibile solo in quel rifiuto: ovvero il rifiuto di vedere l’altra morte, l’altro lato della vita, da cui l’opera trae la sua creazione, l’energia vitale che proviene dal mondo rovesciato, dall’altrimenti. L’io che si dà la morte, come l’io che scrive, non è più l’io, è rimbaudianamente un altro, per cui quando mi do la morte non sono io che la ricevo e non è più la mia morte, ma è quella che ho rifiutato, trascurato, combattuto: la morte di tutti e di nessuno. 

Il confronto con autori che si sono spinti nel ventre di thanatos permette di delineare ciò che in Blanchot si definisce spazio, confine, delimitazione; e come tale confine sorga dalla medesima smisuratezza cui va incontro, ma mutando tempo e spazio laddove la morte si faccia più chiara, nitida e inevitabile. È con tale spirito che Blanchot affronta il pensiero e la poesia di Hölderlin e Rilke, ripercorrendo un sentiero tracciato da Heidegger. Inizia pensando all’Hölderlin di Iperione, quindi al giovane Hölderlin, votato alla dismisura.

«Formare un tutt’uno con tutto quel che ha vita e, in un lieto oblio di sé, far parte di tutto quel che è natura: è questo il ciel dell’uomo.» Questa aspirazione a fare ritorno a una vita unica, eterna e ardente, senza misura e senza riserva, sembra essere quel movimento gioioso che siamo tentati di ridurre all’ispirazione. Questo movimento è anche desiderio di morte. Diotima muore per il medesimo slancio che la fa vivere in familiarità con tutto, ma, come essa dice: «ci separeremo al solo scopo di vivere più strettamente uniti in una pace più divina con tutte le cose e noi stessi […]».[26]

In tale frammento si sente l’influenza di Empedocle, dove l’aspirazione resta quella di unirsi all’elemento fuoco, segno e presenza, fino al raggiungimento della fissione con il divino. Nell’inno – che si vedrà poi anche nell’interpretazione heideggeriana – Come quando al dì di festa, il poeta sta in piedi dinnanzi al Dio, in contatto con l’altitudine vertiginosa della potenza, che lo espone al pericolo più grande per chi si addentri senza protezione nel magma della scrittura, nella sua coincidenza con la vita in sé – per usare un’espressione cara a Deleuze e Guattari – che è poi il sacro, o la sua maschera. Il poeta è così esposto al pericolo di bruciarsi nel fuoco, ma il suo compito non è il suicidio, la morte reale, quanto una sua trasfigurazione nell’atto infinito del morire. Quindi, il raggiungimento di quella potenza non deve perdersi nell’illusione dell’immediatezza, ma deve avvenire per gradi, e non deve compiersi del tutto, poiché la potenza assoluta della natura come vita in sé è bruciante e distruttiva, il poeta dovrà divenire un costruttore di argini, dovrà imparare a placarla, a non consegnarsi alla potenza dell’assoluto, che è thanatos. Dopo il soggiorno di Hölderlin nel sud della Francia inizia il lungo periodo di ritiro, che sarà la sua cella carceraria, e gli conferirà il potere di placare la potenza sconfinata del fuoco. Questa ricerca della misura costituisce il rovesciamento categorico di Hölderlin, che lui stesso esprimerà in una formula: die väterlandische Umkehr: il rovesciamento natale. In una lettera all’amico Böhlendorf, Hölderlin esprime una critica che riconduce a tale rovesciamento: «La chiarezza della rappresentazione è per noi naturalmente originale quanto lo era per i greci il fuoco del cielo».[27]

La chiarezza della rappresentazione indica la lucidità o la sobria misura giunonica occidentale, il potere di cogliere e definire il cielo a partire dalla terra, dal desiderio di restare sulla terra. Per Hölderlin l’istinto che educa gli uomini è quasi sempre lo stesso: per lo più riconoscono ciò che è a loro estraneo e non ciò che gli è più prossimo, perciò, i greci, che erano estranei alla chiarezza, ne fecero il proprio strumento, mentre i tedeschi sono divenuti i custodi del pathos del sacro, che era loro estraneo, mentre dovranno con fatica riappropriarsi della misura, del senso lucido del permanere in questo mondo. Tale formulazione hölderliniana avviene proprio nel momento in cui egli va all’estero, e subisce l’attacco decisivo dell’estraneo in ciò che gli è più prossimo. In un certo senso, in questa fase Hölderlin rinnega il momento empedocleo, in cui credeva autentico il desiderio di gettarsi nel fuoco; ora lo considera inautentico, così la natura tanto amata e cantata ai tempi di Iperione e ancora presente in Come quando al dì di festa, diviene in questa seconda fase l’eterna nemica dell’uomo. Hölderlin approda alla coscienza che l’uomo – non solo il poeta – debba distogliersi dagli dei, e dal regno dei morti in una rivolta che avrebbe l’aria di essere tutta umana. Ma Blanchot nega che questa possa essere la rivolta dell’uomo contro Dio, o contro il sacro.

No, ed è proprio su questo punto che il pensiero di Hölderlin, per quanto già velato dalla follia, appare più mediato, meno semplice di quello dell’umanesimo. Se gli uomini dell’era occidentale devono compiere questa svolta decisiva, ciò accade perché gli dèi stessi compiono quello che egli chiama «il rovesciamento categorico». Oggi gli dèi si ritraggono, sono assenti, infedeli, e l’uomo deve comprendere il senso sacro di questa infedeltà divina senza ostacolarla, bensì portandola a compimento per quanto riguarda la sua parte. «In un momento del genere dice Hölderlin l’uomo si dimentica e dimentica Dio, si volta come un traditore, per quanto in modo santo». Questo rovesciamento è un atto terribile, è un tradimento ma non è empio perché, grazie a questa infedeltà, in cui si afferma la separazione dei mondi, si afferma anche, in tale separazione, in questa distinzione fermamente mantenuta, la purezza del ricordo divino.[28]

Tale rovesciamento secondo Blanchot si può commentare sulla base dell’esperienza reale di Hölderlin, come se dopo aver raggiunto la vertigine assoluta di Iperione, si fosse egli stesso bruciato e ritratto dal fuoco, dall’inclinazione alla morte, che aveva identificato con la filosofia di Empedocle. Ciò che costituiva solo un movimento dell’anima, un desiderio di smisuratezza, si converte poi in un movimento reale che diviene esasperazione e sintomo di morte. L’eccesso di benefici costituiti dal dono – del talento, chiaramente – diventa un danno, e produce una catastrofe esistenziale che chiede l’esilio e il silenzio. L’eccesso del dono è una pressione troppo vicina verso un mondo che non è il nostro, ma l’immediato divino; tale pressione può essere affrontata solo con il nietzscheiano pathos della distanza. Negli ultimi inni si può percepire lo sforzo per resistere al richiamo del dono. «E come sulle spalle un carico di ceppi, vi è molto da contenere […]» «E sempre verso l’illimitato va il desiderio. Ma vi è molto da contenere».[29]

Sotto la prova del fuoco del cielo, Hölderlin esprime la necessità di non abbandonarvisi senza misura, ed è in questa fase che definisce tale smisuratezza un’esperienza falsa, in quanto l’immediato non appartiene all’umano e neppure al divino, ma lo spazio del sacro – ovvero dello spirito – è da lui rintracciato in quella mediazione correlativa che unisce i due mondi, li pone in connessione. Dal rovesciamento deriva una concezione più ricca in cui il compito del poeta non consiste più nello stare in piedi di fronte a Dio, ma è anche superata la fase in cui tale compito era riconosciuto nella possibilità di placare la potenza del fuoco, e permettere la vita dell’uomo.

Ora è di fronte all’assenza di Dio che egli deve stare, è di tale assenza che egli deve divenire il guardiano, senza perdervisi e senza perderla, è l’infedeltà divina che deve contenere, preservare, è «sotto la forma dell’infedeltà dove di ogni cosa vi è l’oblio» che egli entra in comunicazione con il Dio che si ritrae.[30]

Il poeta deve resistere all’attrazione della sparizione, che è incarnata dalla morte di Dio, o degli dèi, che lo attraggono in sé nella sparizione e nella croce, come Cristo, perché quel luogo vuoto e puro che distingue le sfere è il sacro, l’intimità dello strappo che è il sacro.[31]

L’estremo limite della sofferenza, ovvero il rovesciamento natale, non ha a che fare in Hölderlin con un desiderio di tornare all’infanzia, e via di seguito nel ventre materno, come inversione della vita – sarebbe questo precisamente thanatos – ma è quel momento in cui il tempo si rovescia e si concepisce il lutto della morte di Dio, teorizzata poco dopo da Nietzsche, e celebrata da Sartre. Così, riflette Blanchot, quando il suo contemporaneo George Bataille intitola una parte di un suo libro Somma ateologica, l’invito è a non scivolare in facili esemplificazioni. È il momento della coscienza che diviene autocoscienza, in cui lo specchio ci restituisce non il gelo di Narciso, ma l’alterità che ci abita. Il poeta è colui nel quale il tempo si rovescia, e il Dio si ritrae e scompare. Hölderlin comprende che la fuga degli dei non sia una forma di rapporto puramente negativa, perciò è terribile:

non solo perché ci rimanda a noi stessi nella privazione e nello sconforto di un tempo vuoto, ma perché sostituisce, al favore misurato delle forme divine quali le rappresentano i greci, divinità del giorno, divinità dell’ingenuità iniziale, un rapporto – che rischia continuamente di straziarci e sviarci – con ciò che è più alto degli dèi, con il sacro stesso o la sua essenza pervertita.[32]

Tale è il rovesciamento del tempo: la notte. La notte che prende parola e rovescia il giorno, la notte che arriva a toccarsi nel suo estremo di origine e smarrimento. Nel giorno gli dèi hanno cura degli uomini, ma nella notte il divino diviene lo spirito del tempo che si rovescia, che attrae senza termini, senza misura, lo spirito della regione dei morti. Così, in Hölderlin leggiamo l’eterna lotta tra la notte e il giorno, tra la fatale attrazione della dismisura e l’oceanico sforzo della misura. Così, nell’inno Mnemosyne:

Non possono tutto,

i Celesti. I mortali sono vicini

piuttosto all’abisso. Così con essi

si compie il rovesciamento.[33]

L’abisso di cui parla Blanchot, analizzando la scrittura di Hölderlin, non è solo l’abisso vuoto, che è lo spazio letterario, ma quell’abisso della vita selvaggia, che preserva l’esistenza degli dèi, e l’attrazione del fuoco. Di fronte a questo abisso l’uomo può porre il suo rovesciamento, la rivolta nei confronti della morte, che avviene nel cuore. È il cuore umano il luogo del rovesciamento, in cui si sperimenta la luce. È interessante che Blanchot concluda la sezione su Hölderlin alludendo alla possibilità che in lui il rovesciamento non si sia compiuto, in quanto la serenità delle sue ultime poesie, in cui la lotta con la tenebra è terminata, corrisponde al periodo della vita di Hölderlin in cui la follia prese il sopravvento sull’uomo, e sembra che Blanchot voglia intendere che la lotta è culminata nel trionfo del desiderio di unirsi al fuoco:

intuiamo come è potuto venire a crearsi nel poeta, nella purezza che gli è stata garantita dalla sua insigne rettitudine, il desiderio di unirsi al fuoco, al giorno, e non siamo sorpresi di questa metamorfosi che, con la raèidità silenziosa di un volo d’uccello, lo trascina ormai attraverso il cielo, fiore di luce, astro che brucia, ma che sboccia innocentemente in fiore.[34]

Il Rilke di Blanchot è completamente diverso dal Rilke di Heidegger, proprio come l’Hölderlin di Blanchot è, diversamente dall’Hölderlin di Heidegger, colui che perde la lotta tra luce e ombra, colui che rifiuta l’ombra cedendo alle lusinghe della follia. Proprio perché nella teoria estetica di Blanchot è possibile tracciare le fondamenta di una ragionata filosofia morale, ed è tale tensione a porre in dialogo alcuni concetti condivisi con Simone Weil, e diversamente interpretati, come quello di impersonale e di sacro. La differenza è nella matrice più profonda che muove i due filosofi, di stampo cristiano per quanto concerne Weil, e di ispirazione ebraica – data la notevole influenza di Lévinas – per Blanchot. È sotto l’egida dell’ebraismo che va interpretato il lavoro di Kafka, capace di mantenersi sempre distante dal compimento definitivo dell’opera. Allo stesso mono, con Rilke, possiamo avvicinarci a comprendere cosa sia la scrittura, e quanto poco valore abbia chiunque la pratichi senza accostarlesi con tale serietà, che può contenere in sé anche un gioco – al termine del processo – ma che inizia indubitabilmente con un confronto tra l’io e la morte, e solo in un secondo momento scopre l’impersonale per superare l’inautenticità della propria morte.

Quando, per rispondere al suo destino di poeta, Rilke si sforza di aprirsi a una dimensione più grande di sé che deve includere anche quel che egli diverrà morendo, non si può dire che egli esiti di fronte alle difficoltà dell’impresa. Guarda in faccia quel che definisce lo sgomento. È la cosa più terribile. È una forza troppo grande per noi, è la nostra stessa forza che ci oltrepassa e che noi non riconosciamo, ma, proprio per questo motivo, dobbiamo attirarla a noi, renderla prossima a noi, renderci prossimi in lei di quel che le è prossimo.[35]

In principio la morte impersonale, ciò che Blanchot chiama il si muore, il morire come mosche, fa inorridire Rilke, che tenterà – nelle sue opere più romantiche come Igitur e I quaderni di Malte Laurids Brigge – di rovesciare il si muore nella proprietà della morte, nell’eroismo della morte, che parrebbe inneggiare al suicidio.

Perché non hai atteso che il peso

ti divenisse del tutto insopportabile: allora si rovescia,

ed è così pesante perché è così vero.[36]

Da Malte al Libro d’ore abbiamo il momento principe del poetare di Rilke: la fuga dalla morte impersonale, nella ricerca di una morte eroica, o di una ragione, o di una coscienza capace di sopprimerla o superarla. Appare quanto meno curioso che Blanchot sia nel parlare di Hölderlin che nel delineare il percorso esistenziale e filosofico di Rilke faccia riferimento a un momento di grande crisi avvenuta – per entrambi – durante un soggiorno in Francia.

Questa paura che emana da Malte, che lo porta a scoprire «l’esistenza del terrifico» in ogni singola particella d’aria, angoscia dell’estraneità che opprime, di quando si perdono tutte le sicurezze che ci proteggono e all’improvviso crolla anche l’idea di una natura umana, di un mondo umano in cui sia possibile rifugiarsi, tale paura Rilke l’ha affrontata lucidamente e sopportata con virilità, lui che è rimasto a Parigi, in questa città troppo grande e «colma di tristezza fino all’orlo», lui che vi è rimasto «proprio perché è difficile farlo». In ciò Rilke vede la prova decisiva, quella che trasforma, che insegna a vedere, a partire dalla quale si può divenire «principianti nelle proprie condizioni di vita». «Se si riesce a lavorare qui, si potrà andare lontano in profondità». Perché, allora, quando tenta di dare forma a tale prova nella Parte terza del Libro d’ore, Rilke sembra invece allontanarsi dalla morte così come l’ha vista, spaventoso avvicinarsi di una maschera vuota, e pare sostituirla con la speranza di un’altra morte, che non ci risulterebbe estranea né pesante?[37]

Malte non incontra la morte come essenza del terrifico, scopre nietzscheianamente quanto il terrifico sia banale, quanto il terrifico sia la calma piatta dell’assenza d’angoscia di una vita qualunque. In tal modo potremmo tracciare i passaggi del morire in Rilke: dal rifiuto della morte impersonale, alla riappropriazione della morte – che diventa la mia morte –, verso la ricerca di una morte giusta, una morte che sia fedele a sé stessi, a causa dell’angoscia per la morte anonima – morte dalla quale l’io stesso si sente escluso –; fino al rovesciamento delle Elegie Duinesi, in cui attraverso la mediazione della pazienza, l’unico modo per consacrare la vita è vivere nella fedeltà alla morte e morire nella stessa fedeltà, conferendole spazio e non sottraendoglielo, lasciando dunque spazio all’Aperto, che altro non è se non lo spazio interiore del mondo, quello spazio in cui avviene la conversione: la trasmutazione nell’invisibile. La pazienza è il compito del poeta, che invita ad avvicinare il lavoro poetico al lavoro con cui dobbiamo morire, per cui la poesia resta un’attività nettamente diversa dall’agire o dal fare. Blanchot in nota mette in correlazione il lavoro della pazienza in Rilke al commovente lavoro – mai compreso in vita – di Van Gogh.

Van Gogh ha fatto continuamente appello alla pazienza: «Cosa disegnare? Come ci si arriva? Si tratta di quell’azione che ti consente di aprirti un varco in un muro di ferro invisibile, che pare stare tra quel che si sente e quel che si può. Come lo si deve attraversare questo muro, dal momento che bussare forte non serve a nulla? Secondo me lo si deve indebolire, questo muro, e attraversarlo facendo uso di una lima, lentamente e con tanta pazienza». «Io non sono un artista – com’è volgare anche solo pensare di esserne uno – è possibile non avere pazienza, non imparare dalla natura ad avere pazienza, ad avere pazienza guardando il grano che silenziosamente si fa più alto, così come altrettanto silenziosamente crescono le cose – è possibile considerarsi una cosa talmente morta da pensare perfino che non si possa crescere più […] Dico queste cose per spiegare quanto io trovi stupido parlare di artisti dotati o non dotati.»

Se paragonassimo questa pazienza alla pericolosa mobilità del pensiero romantico, essa ci apparirebbe come l’intimità di tale pensiero, ma anche come la pausa interiore, l’espiazione in seno allo stesso errore (anche se, spesso, in Rilke la pazienza descrive un’attitudine più umile, il ritorno alla tranquillità silenziosa delle cose in contrapposizione all’attività febbrile dei compiti da svolgere, oppure il fatto di obbedire a quella caduta che, poiché attrae le cose verso il centro di gravità delle forze pure, fa sì che essa si posi e riposi nella sua immobile pienezza.[38]

La scoperta di Malte è quella della morte impersonale come di una forza troppo grande per noi, che tutto avvolge e stritola, come la forza del fuoco in Hölderlin, ma che la renderebbe prodigiosa nel momento in cui riuscissimo a farla nostra una volta per tutte. Ma dopo la conclusione di Malte, per cinque anni Rilke non seppe cosa scrivere perché quella stessa forza evocata pareva averlo prosciugato. Si sentiva nuovamente un principiante, uno che non inizia mai. In seguito, nella pazienza dell’accettazione, riuscirà a uscire da quella regione sperduta e desolante, comincia le Elegie Duinesi, in cui partendo da ciò che rendeva impossibile l’esistenza di Malte, trova la conversione nel possibile.

Nelle Elegie, l’affermazione della vita e quella della morte si presentano come una cosa sola. Ammettere l’una senza l’altra significherebbe, ed è per questo che ne celebriamo la scoperta, una limitazione che alla fine esclude l’infinito. La morte è quel lato della vita che non è rivolto verso di noi, che da noi non è nemmeno rischiarato: bisogna tentare di avere la più ampia coscienza possibile della nostra esistenza che dimora in entrambi questi due regni illimitati e si nutre inesauribilmente di entrambi […] La forma vera della vita si estende in entrambi i campi, il sangue del circuito più grande scorre attraverso entrambi: non esistono un al qua e un al di là ma solo una grande unità […][39]

Rilke respinge la soluzione cristiana, e anche l’illusione – cui inizialmente aveva ceduto – che tutto possa essere sottoposto allo sguardo della coscienza, che la coscienza possa comprendere tutto; allo stesso modo rifiuta l’idea dell’aldilà, ma allora cosa intende quando fa appello all’altro lato? Intende dire che la morte non si trova solo nel momento del morire ma nel procedere verso la morte. Allora perché non abbiamo accesso immediatamente all’altro lato? Perché probabilmente non possiamo affrancarci mai del tutto e mai in modo immediato dal qui e ora, poiché quell’affrancamento consiste nel rifiuto del dono e del danno della vita rappresentato dal suicidio. Accedere all’altro lato significherebbe modificare il nostro modo di avervi accesso. Quando supera lo stadio della coscienza Rilke giunge al concetto di Aperto.

Con tutti gli occhi la creatura vede

l’Aperto. Solo i nostri occhi sono

come rivolti all’indietro […]

«Con Aperto, non intendiamo il cielo, l’aria o lo spazio – che per chi li osserva sono ancora degli oggetti e, di conseguenza, sono opachi. L’animale, il fiore è tutto questo senza nemmeno rendersene conto, e ha quindi davanti a sé, al di là di sé stesso, quella libertà indescrivibilmente aperta che forse ha il suo equivalente in noi, in modo del tutto momentaneo, nei primi tempi di un amore che sboccia, quando una persona vede nell’altro, nell’amato, il proprio prolungamento, nonché nel trasporto verso Dio.»[40]

Nell’Aperto si raggiunge lo spazio interiore del mondo. Blanchot propone un confronto tra Rilke e Novalis, laddove per il secondo lo spazio interiore è l’incontro con Dio, per cui l’universo intero si trova in noi, ma per Rilke il sacro non è l’incontro con Dio, quanto piuttosto lo spazio della mancanza. Lo spazio interiore di Rilke si differenzia appena da quello di Novalis per alcune caratteristiche: il rifiuto di Rilke per la violenza della magia con cui l’esterno diventa interno, il rifiuto di qualsivoglia superamento terreno, l’accettazione dell’esistenza terrena nella sua copiosità disturbante e debordante rispetto alla miseria della vita umana. Il compito della parola poetica perciò in Rilke si eleva a un livello superiore, mantenendo indietro le tentazioni teosofiche tanto quanto le ipotesi sulla coscienza che appesantivano la danza della parola poetica. Deve restare l’Aperto come monito, non come regione esistente, ma come esigenza dell’esistenza della parola.

Attraverso tutti gli esseri si dispiega l’unico spazio:

lo spazio interiore del mondo. Silenziosamente volano gli uccelli

attraverso noi. O io che voglio crescere,

guardo al di fuori ed è in me che l’albero cresce.[41]

Ma cosa succede quando lo spazio immaginario del mondo scende nell’intimità del cuore? Vi sarà la tentazione verso l’incoscienza che, al pari del suicidio, può liberarci dal peso dell’esistenza, ma tale tentazione Rilke l’affronta nella terza Elegia, per smascherarla, e rispedirla al mittente: l’uomo non può ritrovare l’istinto dell’animale, l’uomo è già oltre quell’innocenza, fingerla sarebbe null’altro che una buffa mascherata. Si tratta invece di realizzare la più grande coscienza possibile per l’umano: non solo tutte le forme possibili per arginare il fuoco e conferire una spazialità al tempo e una temporalità allo spazio, ma utilizzare le parole indicate da quei significati superiori, che ci ricongiungano alle cose. Ogni uomo, come Noè, deve divenire l’intima arca di tutte le cose. Noi che siamo i meno duraturi e più infinitamente mortali dobbiamo stabilire una separazione tra lo spazio della morte e lo spazio delle parole, una separazione che preluda a una nuova unione, mediata dalla coscienza del proprio compito.

Alle fine delle Elegie, Rilke usa la seguente espressione: «gli infinitamente morti». È un termine ambiguo, ma si può dire che gli uomini siano infinitamente mortali, un po’ più che mortali. Ogni cosa è peritura, ma noi siamo i più perituri di tutti, tutte le cose passano, si trasformano, ma noi vogliamo la trasformazione, noi vogliamo passare e la nostra volontà è questo trapasso. Di qui l’invocazione: «Voglia la metamorfosi», «Wolle die Wandlung». Non bisogna restare, ma passare. «Non bisogna restare da nessuna parte.» «Bleiben ist nirgends.» «Ciò che si richiude nel fatto di restare è già pietrificato.» Vivere è già prendere congedo, è essere già congedati ed è congedare ciò che è.[42]

L’Aperto è la poesia, lo spazio dove tutto sorge e tutto torna, lo spazio dell’essere profondo, del passaggio infinito tra i due campi. Dove la celebrazione è lamento e il lamento glorifica. Lo spazio in cui i mondi si precipitano verso la loro realtà più vera, verso il reale, la vita intrisa di morte. Lo spazio orfico in cui il poeta può penetrare solo per scomparire.

Cantare in verità è un altro soffio

Un soffio intorno al nulla. Un volo in Dio. Il vento.

«Un soffio intorno al nulla»: è come se la verità della poesia, quando essa non è più che un’intimità silenziosa, un puro dispendio cui sacrifichiamo la nostra vita, e non in vista di un risultato, per conquistare o acquisire qualcosa, ma per niente, nel puro rapporto a cui qui viene dato il nome simbolico di Dio. […] La metamorfosi appare allora come il consumarsi felice dell’essere, allorquando esso entra senza riserve in quel movimento in cui nulla è conservato, che non realizza, non porta a compimento e non salva nulla, che è pura gioia di lasciarsi cadere, allegria della caduta, parola giubilante che, una sola volta, presta la sua voce alla sparizione prima di scomparire in essa:

Qui, tra coloro che svaniscono, nel regno del declino sii

risonante cristallo che nel suono s’è già infranto.[43]

È nella nona Elegia che il processo di trasmutazione della morte giunge a compimento e si compie nel potere, scaturito dall’abbandono dell’ego, di salvaguardare ciò che durerà oltre noi stessi:

Vogliono che noi, nel nostro invisibile cuore, le trasformiamo
-all’infinito- dentro di noi! Chiunque alla fine noi siamo.

Terra non è questo ciò che vuoi: invisibile
rinascere in noi? – Non è forse questo il tuo sogno
essere invisibile un giorno? – Terra! Invisibile!
[44]

È dallo spazio della morte che si estrae lo spazio della parola, così si giunge alla contemplazione propria dei Sonetti a Orfeo, del tempo della maturità, in cui – al contrario che in Malte – il poeta rifiuta la propria morte, proprio perché la sente più prossima, per accogliere la morte impersonale. In tal modo avviene la tramutazione della morte, perciò la poesia diventa canto come origine, e l’origine non spaventa più in quanto della poesia si è fatto non il baluardo di un’identità, di una vita che urla il proprio diritto di esistere e trovare una collocazione, ma una forma di accompagnamento invisibile all’infinito processo del morire, che non è unico né individuale, e non beatifica alcuna persona in quanto si svolge nello spazio impersonale dello spirito, dell’invisibile.

Esiste davvero il tempo, il distruttore?
Quando, sul monte immobile, spezzerà il castello?

E questo cuore, che appartiene infinitamente al dio,
quando lo violenterà il demiurgo?
Sono davvero così angosciosamente fragili,
come il destino vuole farci intendere?
L’infanzia profonda e promettente,
si fa – poi – silenziosa nelle radici?”

(Rainer Maria Rilke, Sonetti a Orfeo, versi tratti da sonetto XXVIL)

Ecco come Rilke supera magnificamente, per Blanchot, il problema del suicidio – in cui invece sono caduti e cadranno molti altri grandi poeti –, e il problema del vivere per la morte – posto in auge da Heidegger –; nel Rilke di Blanchot non è l’Angelo terrifico ma l’Aperto la chiave dell’invisibile, e solo nell’invisibile vi è l’accesso, l’apertura del cuore allo spazio interiore, che è uno spazio mediano tra mondo e inconscio, in cui il mondo entra in modo universale nell’inconscio e diviene junghianamente archetipo, perciò collettivo. Perciò Blanchot riesce a rovesciare Heidegger, per il quale Hölderlin era superiore a Rilke per essersi avvicinato tanto al sacro fuoco fino a restarne dilaniato; mentre invece Rilke poteva – esasperando il pensiero heideggeriano per portarlo agli estremi – essere considerato un epigono di Hölderlin, colui che ripercorrendo il percorso di Hölderlin, sarebbe andato con lui a cercare la dismisura sulle tracce del sacro, ma attraverso la mediazione dell’Angelo, che permette al poeta di non bruciarsi, di evitare perciò lo scontro definitivo il cui esito non può che essere morte o follia. Per Blanchot – forse più da un punto di vista morale che estetico – Rilke raggiunge Hölderlin, senza essere perciò vinto dalla follia, proprio perché è riuscito a realizzare ciò che Hölderlin si era ripromesso: il rovesciamento della luce nell’ombra e dell’ombra nella luce. Nel concetto di Aperto Rilke trova la mediazione – lo spazio recintato del Santo, oltre il sacro che si fa sacrificio – per affrontare il rovesciamento e non lasciarsi vincere dall’abbacinare della luce della follia – in cui tutto è corrusco e divino poiché si rinuncia alla ragione e alla coscienza – e al richiamo seducente della notte, di thanatos – in cui lo scontro è abolito poiché si scambia la propria morte per il destino del mondo. In tal senso, per il Rilke di Blanchot esistono due morti: una autentica e l’altra inautentica, chiaramente è inautentica l’illusione eroica della morte per la gloria, mentre è autentica quell’accettazione della morte – pienamente levinassiana, e quindi pienamente ebraica – come processo che continua a compiersi e trova nella poesia lo strumento per compiersi il più autenticamente possibile, nella poesia che si fa terza persona.


[1] Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Il Saggiatore, Milano, 2018, p. 13

[2] Ibidem. p.15

[3] Ibidem, p.16

[4] Ivi.

[5] Ibidem, pp.17-18

[6] Ibidem, p.19

[7] Ibidem, p. 22

[8] Ivi.

[9] Ibidem, p. 23

[10] Ibidem, p.24

[11] Ibidem, p.25

[12] Ibidem, pp.26-27

[13] M. Blanchot, Lo spazio letterario, Il Saggiatore, Milano, 2018, p. 85

[14] Ibidem, p. 87

[15] Ibidem, pp. 88.89

[16] Ibidem, p. 89

[17] Ibidem, p. 91

[18] Ibidem, p. 94

[19] M. Blanchot, Lo spazio letterario, Il Saggiatore, Milano 2018, p. 97

[20] Ibidem, p. 96

[21] Ivi.

[22] Ibidem, p.97

[23] Ibidem, p. 101

[24] Ibidem, p. 103

[25] Ibidem, p. 106

[26] Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Il Saggiatore, Milano, 2018, p. 283

[27] Ibiem, p. 285

[28] Ibidem, p. 286

[29] Ivi.

[30] Ibidem, p. 288

[31] Ivi.

[32] Ibidem, p. 289

[33] Ibidem, p. 290

[34] Ibidem, p. 291

[35] Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Il Saggiatore, Milano, 2018 p.123

[36] Ibidem, p.124

[37] Ibidem, p.126

[38] Ibidem, p. 131

[39] Ibidem, p. 137

[40] Ibidem, p. 139

[41] Ibidem, p. 141

[42] Ibidem, pp. 145-146

[43] Ibidem, p. 150

[44] R. M. Rilke, Elegie Duinesi, traduzione in italiano di Giuliano Corti.

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