“L’uomo ha paura del tempo ma il tempo ha paura delle piramidi”
L’antico proverbio arabo, con il quale parte questa brevissima riflessione, ci offre una chiave di lettura per interpretare, o quantomeno provare ad interpretare, il “senso” del tempo presente che stiamo vivendo: la crisi strutturale della società occidentale può essere interpretata come l’esasperazione massima del rapporto tra l’uomo ed il tempo.
Preliminarmente, è fondamentale sottolineare un aspetto: la netta differenza che intercorre tra il rapporto uomo-spazio ed il rapporto uomo-tempo. Se con la dimensione spaziale l’uomo non ha particolari problemi, la qual cosa forse dovuta alla “infinità” dell’universo – cioè nella dimensione spaziale in cui l’essere umano è immerso (infinità dovuta al dato fisico della proporzione infinitesimale dell’uomo rispetto alle grandissime distanze e dimensioni spaziali), non comportando limiti “concettuali” di sorta e, soprattutto, con la possibilità di “muoversi” in essa liberamente ed a proprio piacimento – con il tempo la situazione è molto più complessa. Il rapporto di continua tensione con il tempo che l’uomo ha è collegato al suo esito finale, non comportando, almeno ad una prima percezione di esso, la possibilità di muoversi nella dimensione temporale: lo scorrere del tempo è intrinsecamente legato alla sua fine, cioè alla morte.
Essendo i concetti di tempo e morte intrinsecamente legati tra loro, l’uomo moderno non riesce a riconciliarsi con essi.
L’arrivo della morte, scandita dal passare del tempo, è la paura più atavica dell’uomo, il quale ha sempre tentato di ottenere un modo per sfuggire ad essa, o di creare “qualcosa” che venisse dopo, non potendo accettare che la morte possa essere la fine della sua realtà materiale: scienza, religione, arte, grandi imprese, grandi conquiste, tutte queste attività sono sempre rivolte a cercare “l’immortalità”, o più propriamente alla ricerca di un succedaneo di essa.
Attraverso questa chiave di lettura, vediamo la realtà attuale da un altro punto di vista: la società occidentale, non trovando più una forma di conforto attraverso i succedanei di cui prima parlavamo, vivendo nel materialismo più sfrenato, vive in una costante crisi con il tempo, e nella costante non accettazione della morte, il tutto sfruttato come strumento di dominazione da parte delle élite di potere.
Interessante, ai fini di questa trattazione, è anche constatare come, nella modernità, il linguaggio si sia eccessivamente semplificato, “velocizzato”, non potendo più le parole non essere “smart”. Se paragoniamo il linguaggio attuale con, per fare un esempio, quello dell’antica Grecia vediamo come i greci avessero 3 modi diversi per definire il tempo (χρόνος (kronos), καιρός (kairos) e αἰών (Aion)), rappresentando, ognuno di essi, un diverso aspetto del tempo, portando una diversa riflessione su di esso. Oggi – potendo essere considerato esso stesso un segno della decadenza della società occidentale – il linguaggio si è ristretto e specializzato, non portando più i diversi significati che portavano l’uomo ad una costante riflessione attraverso esso.
Ma perché l’uomo vive in questa costante crisi, e perché l’uomo vive nella costante paura della morte?
Dal mio modestissimo punto di vista, la risposta è tanto semplice quanto dai risvolti complessi: l’uomo vive in questa situazione costante di tensione con il rapporto tempo-morte poiché, nella modernità, ha sempre meno consapevolezza di se. L’uomo è afflitto da questa situazione in quanto, non avendo consapevolezza di se, non lavoro più sulla propria crescita interiore, si è rifugiato nel materialismo, concependo la morte come la fine di tutto, la sua scomparsa nel nulla.
Questa situazione rende l’uomo fragile, ne blocca la crescita, lo rende soggetto al flusso degli eventi ma incapace di rendersi conto di come egli sia capace di cambiare questo flusso.
Ma, allora, come dovrebbe essere il rapporto con il tempo per poter uscire da questa situazione di annientamento e sottomissione?
Forse, la risposta la troviamo, non in un saggio filosofico, ne religioso, ne scientifico, ma nell’opera di J.R.R. Tolkien. Nel mondo creato da Tolkien troviamo le due razze principali, gli Eldar (elfi) e gli Edain (uomini), i quali, per le loro caratteristiche ontologiche diverse, hanno un diverso rapporto con il tempo: gli elfi, immortali, sono legati al mondo, non possono lasciare la terra, ma, non riuscendo a sopportare l’alternanza vita-morte, il cambiamento dovuto allo scorrere del tempo, bramano la mortalità degli uomini. Gli uomini, di converso, sono mortali, non rimangono legati al mondo, ma hanno la tendenza “ad andare oltre”, vivono nella costante irrequietezza che li spinge sempre ad andare “più in la” della loro situazione attuale, dando proprio la morte valore alle loro azioni.
L’uomo, in Tolkien, raggiunge la sua massima espressione non quando cerca di ottenere l’immortalità degli elfi ma quando accetta la sua condizione, quando decide cosa fare nel tempo che gli viene concesso.Tolkien scrive che la morte è avvertita dall’uomo quale «Nemico» della propria esistenza: «Ma certamente la Morte non è un Nemico! […] La confusione è opera del Nemico, ed una delle ragioni principali del disastro degli uomini» (Tolkien, Lettera n. 208). Eliminare la morte non significa per l’uomo continuare a vivere ma essere “costretto” a vivere, divenendo un muto spettatore dello scorrere inesorabile del tempo che tutto consuma.
Ed è, forse, questa concezione che risponde alla domanda che prima ci siamo posti: l’uomo moderno deve ricoprire la sua dimensione animica, la sua dimensione ultraterrena. Solo così riuscirà ad rendersi conto che il tempo, la morte, sono la spinta a voler lasciare il nostro segno nel mondo, che ci spinge a voler andare oltre. Se fossimo immortali rimarremmo “fermi”, non faremmo quelle esperienze della vita che ci rendono persone migliori, giorno dopo giorno. L’esperienza della “Vita” bisogna farla, altrimenti sarebbe un’esperienza raccontata e non avrebbe alcun tipo di senso.
Riscoprendo, in questo modo, se stesso, l’uomo capirà che il centro di tutto non è altri che se stesso, in una concezione “umana”, che porta l’uomo, non al materialismo, non al trans-umanesimo, non alla miseria, ma alla sua elevazione spirituale, verso quel mondo migliore che, in primis, deve trovare dentro di se, per poi poterlo manifestare all’esterno.
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