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L’oscenità estatica del volo
Scisma: forme e strutture della separazione
Sarebbe fin troppo semplice scegliere dei versi, cosiddetti esemplari, e commentarli. Semplice e decisamente riduttivo, improduttivo (beninteso, di una diversa improduttività di quella di cui vagheggeremo più avanti). Sarebbe pressoché inutile. Non aggiungerebbe né toglierebbe nulla a quanto già detto sull’opera e a quanto già espresso o taciuto nell’opera. Ed è anche per questo, ma non solo, che cercheremo di limitare al minimo le occorrenze. Del resto, se si sente il bisogno di correlare lo sguardo critico a una o più occorrenze basterà, molto semplicemente, leggere l’opera. È così che funziona, o no?
Proviamo quindi un approccio diverso, anche se probabilmente finiremo per farci giocare dal gioco e non riusciremo ad aggiungere o togliere nulla.
Al di là dei dichiarati riferimenti ad Alejandra Pizarnik, Amelia Rosselli e dell’immarcescibile presenza, sottotraccia, di Maurice Blanchot, per stabilire un inizio degno di tale appellativo costituiamo una sorta di trittico, una triade di santi protettori o, se preferite, di demoni guastatori. Ma, ricordandoci di una delle lezioni di Carmelo Bene che recitava più o meno così: “alla fine di tutto non ci resterà altro che la nominazione” e, di contro (ma nemmeno più di tanto), dell’oramai famosa dichiarazione di Deleuze sull’importanza di inventare dei nomi attraverso i quali mettere a fuoco istantaneamente un concetto, ometteremo i nomi dei componenti della triade enumerando una serie di nominazioni di concetti riconducibili alle loro filosofie.
Dunque:
- La forma e la struttura, dove tutto si determina attraverso linee vettoriali di collegamento. Una serie di buchi da riempire e riorganizzare (corpo senza organi). Altre serie formate da punti di stallo e di sedimentazione, da dispositivi, spesso macchinici, volti a creare uno o più punti di fuga.
- I punti di stallo diventano mise en abîme plurispeculari o invaginazioni nella cui tasca avviene la sedimentazione, i dispositivi si tramutano in supplementi e la fuga si qualifica nell’impossibilità di costituirsi come soggetto.
- Tutte le cose e le case (intese anche come dimore dell’esserci, del mancarsi e, come vedremo più avanti, della permanenza della morte, si costituiscono, per toccare con mano il disastro, a partire dalle proprie ex-tensioni e si sviluppano attraverso la loro stessa palpabilità.
Perché questa triade?
Perché tutti questi meccanismi, intrallacciandosi, concorrono alla determinazione dello scisma, della frattura, della separazione. In poche parole determinano, anche e soprattutto, le modalità della testualità.
Dunque, la parola chiave è intrallacciatura. Si tratterebbe di prendere ognuno di questi concetti (chiamateli come volete: macchine, dispositivi, meccanismi, aporie, forzature, ecc.) e di identificarli in una serie di «figure di senso». Provate a immaginare le tessere di un puzzle che si muovono di continuo senza riuscire a trovare una quadratura (condanna = salvezza?) oppure un mazzo di carte da gioco che possono essere distribuite sul tavolo solo dopo essere sapientemente mescolate. Nel caso del puzzle avremo i numeri, ovvero la compresenza di spazio e tempo, la scansione logico-consequenziale, nel secondo caso avremo propriamente le figure, ovvero i segni, le tracce, i trascinamenti. Non è importante conoscere il nome del soggetto abilitato al ruolo di croupier. I sui compiti sono quelli di distribuire le carte e, alla fine del gioco (se potrà mai darsi una fine), vincere la partita. Si sa il banco vince sempre. Sarebbe invece più intrigante conoscere i nomi o le nominazioni dei giocatori. Sarebbe fin troppo semplice chiamarli je e moi, perché ognuno dei due è sempre spostato sia rispetto a sé stesso che all’altro. Si potrebbe dire, senza il timore di forzare troppo la mano, che Ilaria Palomba instauri una relazione con i suoi versi, che ne divenga l’amante perversa (provate a immaginare la perversione di usare il significato solo per eccedere il significante e avrete un’idea, sempre provvisoria, di cosa può veicolare quest’opera al di là delle apparenze), che chieda loro di soddisfare le sue necessità e di creare una struttura linguistica che contenga e amplifichi le sue urgenze. Per questo è abbastanza evidente la presenza di un alone di grazia che fibrilla in quel disastro che attraversa l’intero percorso dell’opera. Non sarà quindi un caso che la costruzione e la successione dei versi, per quanto concitata e permeata da un alone di terribilità, risulti, a tratti, suadente e carezzevole. Ma nel disastro non c’è verità che sia assoluta, non c’è menzogna che non sia drammatizzata e non c’è relatività che non sia sospesa.
Da un diverso punto d’osservazione Scisma potrebbe anche essere considerato come un tentativo di autoanalisi che, prefigurando una sorta di abbandono di quell’abbondanza -ante litteram- che aveva caratterizzato, nel bene e nel male, la sua ex-sistenza letteraria, si converte in una sorta di atto liberatorio che, forse, non può conquistarsi una vera e propria libertà espressiva e configurare un nuovo inizio, ma che può edificare una nuova prigione dalle sbarre malleabili da cui entrare e uscire a proprio piacimento. Ma è evidente come l’abbandono, vista la terribilità determinante e significativa del volo, non possa limitarsi al solo fatto letterario.
In tutti i casi, in quest’atto liberatorio l’estromissione dell’abbondanza a favore dell’abbandono trova il suo supplemento in una nuova e riorganizzata eccedenza dove il primo input si concretizza sulle linee della riparazione (consideriamo quest’ultimo termine nel ventaglio più ampio delle sue accezioni). E il conseguente sviluppo si qualifica (o dequalifica) sulla sovradeterminazione del resto, perché ciò che resta è anche lo scarto. Lo scarto di ciò che era prima e adesso non è più. Lo scarto anche come residuo metamorfico, perché votato alla trasformazione. Ciò che resta del fuoco è la cenere, ciò che resta dell’acqua è la melma e, se vogliamo, ciò che resta del volo è l’esplosione organica conseguente all’impatto. Si tratta di elementi diversi ma contigui vuoi solo perché derivano l’uno dall’altro. In tale ottica il fuoco si riorganizza nella cenere, l’acqua si riorganizza nella melma e il volo (arealità) si riorganizza anatomicamente (corporeità). Ma nel fuoco c’è la consumazione e nell’acqua c’è il flusso.
Così il flusso poematico di Scisma si consuma scorrendo e trasformandosi. Allo stesso modo nel volo c’è una sorta di oscenità estatica che trasforma la crudeltà e la terribilità in quello stato di grazia che innesta e qualifica, nell’organizzazione del diktat, un supplemento e un punto di fuga al disastro.
Artaud: “le idee non avanzano senza membra” che si potrebbe surcodificare (trasformare) in: “le membra non avanzano senza organi”.
Tra l’areale e l’organico precipita un proiettile di carne, un proiettile, forse psicotico, che, come afferma giustamente l’autrice nella nota che accompagna l’opera, può essere scandagliato solo a partire dalle teorie sulla schizo-analisi di Deleuze e Guattari. Ed è proprio sulle basi di una presunta proiettilità (che è determinante a qualificare la portata dell’evento) che ci si può indirizzare verso un bersaglio specifico che è ancora indeterminato nel tragitto e che si rivela come tale solo a cose fatte, ovvero quando l’evento si è consumato e lo scarto ha già avviato il processo di trasformazione.
Ma questo scarto è destinato a sopravvivere in parti di sé che comunque saranno destinate a condizionare la loro prosecuzione in termini altri in qualità di tracce fantasmatiche fibrillanti in quella testualità che non esitiamo a definire post-apocalittica.
Dire che lo scarto palombiano sia ciò che resta del salto sarebbe decisamente riduttivo perché lo scarto diviene qui, parafrasando un enunciato di Valery, “la marca dello stile”.
Semplificando e riducendo, il cosiddetto scarto, estendendosi in varie accezioni e secondo diverse correnti di pensiero, rappresenta l’essenza stessa della scrittura in quanto disastro e impersonalità (Blanchot), sottrazione (Celan), involuzione e al contempo iconoclastia (Holderlin).
Ecco quindi svelata per intero la metafora dell’istrice derridiano che si offre all’urto, all’incidente ma nel farlo si chiude a riccio preservando il suo cuore poematico. L’iconoclastia sacrificale dell’istrice è un dispiegamento involutivo, si porta in fuori preservando lo scarto di sé in sé. E quel “si porta in fuori” va letto anche come «si rende osceno» (ob-skené = fuori dalla scena). Crediamo sia pressoché inutile evidenziare la correlazione con il titolo che abbiamo inteso dare a questo opinabile sguardo.
In quest’opera disastrata e disastrosa Ilaria Palomba mette al lavoro un dispositivo che potremmo definire metodo della tessera vuota. Lo annotava chiaramente Gilles Deleuze nel suo saggio Lo strutturalismo (cura Simona Paolini, SE, 2004), dove la tessera, “che veniva definita casella”, agendo tra “[…] la varietà dei termini e la variazione dei rapporti […]” metteva in comunicazione tra loro due o più serie e individuava quelli che lo stesso Deleuze definiva “oggetti simbolici” ovvero, come asseriva Lacan, quegli oggetti che sono sempre spostati rispetto a sé stessi. Il concetto è molto articolato (per un confronto più ampio si rinvia al volume citato) ma qui, in questo contesto, basterà riportare che “questa (la casella vuota) è l’unico posto che non può e non deve essere riempito, neppure da un elemento simbolico. Essa deve conservare la perfezione del suo vuoto per spostarsi rispetto a sé stessa, e circolare attraverso gli elementi e le varietà dei rapporti. Simbolica, essa deve essere il suo proprio simbolo e mancare eternamente alla propria metà […] Ma il posto vuoto non è riempito da un termine, è tuttavia accompagnato da un’istanza eminentemente simbolica che ne segue tutti gli spostamenti”.
Ora, Palomba, rovesciando (parzialmente) il concetto deleuzeano, prova a riempire la tessera vuota con il contenuto di un’altra tessera che, a sua volta, diverrà la nuova tessera vuota, e così via ad infinitum. Un fitto reticolo di richiami e rinvii attraversa difatti tutta l’opera[1]. Palomba sembra quasi sfinirsi nelle variazioni dei rapporti tra gli oggetti simbolici e le cosiddette medaglie verbali (cfr. nota 11).
Ci si trova così dinanzi a una vera e propria successione di forclusioni e mancanze, in senso anche lacaniano ma comunque sempre esteso alle continue, implacabili sostituzioni delle unità traumatiche. Ed è in questo doppio double bind, in questo doppio processo di svuotamento/riempimento vs rimozione/sostituzione che vivono e si sviluppano le frantumazioni che si delineano nel percorso dell’opera. Difatti i singoli elementi non vengono, per così dire, selezionati per un uso univoco ma anzi sembrano offrirsi a elementi contigui. E il lettore attento si aspetta che ciò accada perché ha compreso il tipo di strategia che Palomba adotta in quelli che si potrebbero definire i suoi stati alterati e/o le alterazioni della sua identità linguistica. In tal senso si potrebbe parlare di scrittura metonimica proprio per la presenza di elementi contigui, sia nello spazio che nel tempo, e che favoriscono le cosiddette deviazioni del senso o, se preferite, i traslati di senso rivestendo il tutto di un’aura sacrale e sacrificale.
Sulla scansione temporale ci sarebbe fin troppo da dire ma non è questo il contesto più adatto perché una disamina degna di questo nome non potrebbe essere sintetizzata. Limitiamoci a dire che in Scisma sembra come se l’immediato (che non è né l’oggi né il presente) si fosse dilatato a dismisura nell’intervallo tra il giorno zero e il giorno 86. A dire il vero esiste anche un altro intervallo tra il giorno 86 e il giorno 180 dove l’autrice si tace o, se preferite, viene taciuta dal suo silenzio assordante.
Il silenzio della “resa” e della “dimenticanza” (p. 149)?
O forse solo quello che non si è ancora costituito e che si determinerà nelle opere a venire?
In tutti i casi la scansione temporale (che non può ridursi all’iterazione infinita della triade fin troppo semplicistica ieri-oggi-domani) cronologica divisa per giornate non può, in nessun caso, riferire la realtà nella sua interezza. Bensì differisce la realtà in un tempo che è insieme anteriore e ulteriore, un tempo che finge di consumarsi in un immediato, come già detto, dilatato a dismisura. E la misura di questa dismisura è ciò che non si potrà mai scoprire perché mette sullo stesso piano espositivo la rivelazione e il nascondimento.
Ma ritorniamo al sacrificio.
Un sacrificio volto a portare in primo piano i significati ma che resta comunque intriso di quella che si potrebbe definire ebbrezza allucinatoria. Palomba vive sul suo stesso corpo, nel suo stesso corpo, con il suo stesso corpo l’allucinazione ebbra di un abbandono che porta allo sfaldamento. In tale ottica l’esperienza del volo significa abbandonarsi all’abbandono portandosi in fuori, situandosi nel fuori. Da qui la caratterizzazione estatica dell’oscenità. Ma in tutti i casi, senza perderci nei vari je e moi, ciò che conta per davvero è, forse, un’alterità, per così dire, ecfrastica, altamente descrittiva e drammatizzata, un’alterità primultima che eccede qualsiasi classificazione. Ciò che conta non è nemmeno il “soggetto assoggettato” (Carmelo Bene docet) ma l’oggetto, l’oggetto-corpo che ascolta l’ascolto, che vede la vista, che muore la morte, che vive la vita in una dimensione di eccedenza che potrebbe sembrare prossima alla consumazione ma che si rivela incredibilmente viva e pulsante. In poche parole un corpo che ha già vissuto la sua deposizione e che cerca di individuare la collocazione della sua nuova posizione.
Detto questo, concediamoci una ripartenza.
[…] Un angolo morto
una vita che scende senza volere il bene
in cantinati pieni di significato ora
che la morte stessa ha annunciato con
i suoi travasi la sua importanza. E nel
travaso un piccolo sogno insiste d’esser
ricordato – io son la pace quasi grida
e tu non ricordi le mie solenni spiagge!
Ma è quieto il giardino -paradiso per scherzo
di fato, non è nulla quello che tu cerchi
fuori di me che sono la rinuncia, m’annuncia
da prima doloroso e poi cauto nel suo
crearsi quel firmamento che cercavo.
(Amelia Rosselli)
Si parte (o si riparte) sempre con un’epigrafe. Del resto l’autrice mette su carta chiaramente i suoi riferimenti letterari. L’epigrafe che abbiamo scelto è tratta dalla Serie ospedaliera di Amelia Rosselli. E fin qui ci siamo, la correlazione con il diario ospedaliero di Palomba è evidente. A dire il vero ciò che accomuna le due autrici è anche l’improduttività[2] del salto. Quel salto, simbolo-icona della perdita e insieme dell’abbandono, quel salto fatidico che è insieme produttivo e improduttivo, che si consegna inesorabilmente alle innumerevoli accezioni del dono.
Nel saggio Donare la morte (trad. Luca Berta, Jaca Book, 2002), Derrida, al di là del concetto di responsabilità (tra l’altro, in sé, aporetico), sembra voler ipotizzare, sottotraccia, quasi in silenzio, la possibilità di chiedere perdono per la morte inflitta.
Ma come ci si deve comportare quando la morte è auto-inflitta?
E ancora: come ci si deve comportare quando la morte fallisce il suo scopo?
C’è un luogo, mai ultimo e mai definitivo, ove mettere a riposo (far decantare?) il fallimento della morte?
E questo mancarsi della morte può essere considerato come un vero e proprio fallimento?
Il fallimento della morte potrà mai essere considerato come un’esercitazione a vivere la vita?
Parliamo di luoghi. Il luogo della morte è indicibile, indescrivibile. Il luogo del volo è impalpabile, ineffabile, per usare un termine caro a Nancy ci toccherà parlare (ri-parlare) di un corpo areale, una sorta di corpo grave che saggia l’oscenità estatica del volo consegnandosi all’inerzia diversamente estatica del precipitato. E il precipitato, per dirlo con Artaud, è quella cosa, ente o semplicemente quel corpo che compie il percorso verso la «separazione»: “È un vero Disperato che vi parla e che conosce la felicità d’esser al mondo solo adesso che ha lasciato questo mondo e ne è assolutamente separato./ Morti, gli altri non sono separati. Girano ancora intorno ai loro cadaveri./ Io non sono morto, ma sono separato”[3]. E il significato etimologico di Scisma è proprio la separazione o, se preferite, lo skhízō.
A questo punto, così come è giusto che sia, ci toccherà mettere in fila l’ennesima serie di interrogazioni.
La spaccatura tra la singolarità dell’evento in cui ci si dona alla morte e l’universalità che consegue a siffatto dono?
La divisione, che non è mai netta né definitiva, tra la fragilità di un io e la crudeltà di un mondo prevaricante e persecutorio?
La frattura, anche etica se vogliamo, tra colpa e assoluzione? (dal dono al perdono il passo è agevole, forse anche obbligato, ma non si può essere sicuri che Palomba voglia perdonarsi o che senta il bisogno di farlo).
Il distaccamento tra il soggetto dell’inconscio e il soggetto del linguaggio?
La rottura tra l’unità traumatica psicotica del corpo pre-salto e la frantumazione del corpo post-salto?
Non ci è dato saperlo. Si può solo ipotizzare, si può solo procedere per forzature.
Ma, in tutti i casi, il distacco è anche complicità e Palomba sembra essere conscia di ciò. Si rimane sempre complici della tortura[4], con o senza organi[5] e a prescindere dalle unità traumatiche dilapidate nell’evento e dalle unità traumatiche conseguite a causa dell’evento. Non può darsi una separazione assoluta. La separazione può avvenire anche senza scissione, senza un taglio netto che qualifichi le due parti in contesa. La contesa comunque rimane, magari riqualificata e rideterminata. Detto ciò, sarà lecito per il lettore chiedersi come avverrà questa ri-qualificazione. Una possibile risposta si muove su due diverse (ma complementari) stratificazioni: blanchotianamente nel nascondimento (l’impersonalità del neutro) e derridianamente nel segreto (rivelazione). Entrambe le stratificazioni sono direttamente riconducibili a quello scarto già paventato più indietro.
Proviamo a considerare un’opera letteraria come un film. In tutte le opere letterarie c’è sempre un film sottotraccia perché quello che il lettore riesce a leggere sulla carta è il frutto di una o più scelte.
Non vorrei ritornare ancora su Artaud ma il nostro grande schizofrenico dettava i suoi testi a voce alta e poi toccava a Paule Thévenin trascriverli. In seguito Artaud ci metteva le mani intervenendo più volte sul testo. Talvolta il testo cosiddetto finale, quello consegnato alle stampe, non conteneva neanche una parola del testo originario. Ne sono la prova i dossier[6] ricostruiti con accuratezza da Manganaro e dalla stessa Thévenin in cui vengono mostrati i vari processi compositivi dove è evidente la volontà di non lasciare nulla al caso. E non è un caso quindi che il prodotto finale di Scisma sia passato attraverso ben 19 stesure che per essere realizzate hanno indotto l’autrice a una sorta di eterno ritorno sul luogodel misfatto post-traumautico, luogo di riparazione all’atto originario che corrisponde, in un certo senso e col beneficio d’inventario, a quel perdono di cui si vagheggiava più indietro, ma anche luogo di sovrastrutturazione dello scarto, ovvero di ciò che è sopravvissutoal volo. Non è un segreto che l’autrice sia ritornata più volte al CTO per poter rifinire o riscrivere la sua opera. Non fisicamente ma attraverso quella che si potrebbe definire una proiezione psico-cognitiva e che è da intendersi come una vera e propria urgenza da soddisfare.
Ma ritorniamo, per un attimo, al nostro film e alla questione delle scelte. Così come in un film non si mostra il tutto ma una parte del tutto attraverso le inquadrature, allo stesso modo un’opera letteraria non mostra la verità assoluta ma tutta una serie di idee di verità. In entrambe le modalità artistiche il prodotto finale è la risultante di una serie di scelte. E le 19 stesure dell’opera ne rappresentano la prova più evidente. Del resto per chi, come Palomba, si pratica nella scrittura la poesia, come frutto di scelte ben precise, rappresenta l’essenza stessa dello scarto.
L’eterno ritorno, per quanto proiettivo, sul luogo del (mis)fatto diventa un atto fenomenologico, o meglio ancora: un epifenomeno. L’abbiamo già detto: si parte da un’urgenza e si mettono al lavoro delle scelte ben precise. Queste scelte fanno scendere in campo due peculiarità importanti per la decifrazione (beninteso, non si decifra mai nulla; si può solo congetturare) dell’opera: la rivelazione e il nascondimento. Ed è proprio qui che nasce e cresce l’epifenomeno[7]. Dal residuo blanchotiano e dal segreto derridiano. L’uno trasformativo e l’altro chiuso a riccio nel proprio cuore poematico. È anche questo che intendevamo a proposito di quel bersaglio che si nasconde nel volo e si rivela solo dopo aver impresso la marca del suo calco organico sulla terra che ha accolto la sua consumazione per determinarne lo scarto.
Derrida si chiedeva se fosse pronto a morire. Chissà se Deleuze e Rosselli, che hanno saggiato col proprio corpo l’oscenità estatica del volo, si fossero posti la stessa interrogazione prima di traslare dal fenomeno all’epifenomeno, prima di consumare l’evento, prima di consumarsi nell’evento? La cosa di cui possiamo essere abbastanza sicuri è che Palomba non fosse pronta a morire, bensì a sopra-vivere, nell’accezione che lo stesso Derrida riconosceva a Blanchot: “Né la vita né la morte, sopra-vivere piuttosto, il processo stesso che appartiene, senza appartenere, al processo della vita e della morte”[8]. Sopra-vivere, vivere sopra. Ma cos’è il sopra?
Il sopra è quella chōra che ha accolto il precipitato. Una chōra su cui imprimere, indelebilmente, il proprio calco (la marca del proprio stile?). Una chōra personalizzata che, da quel momento in poi, diverrà il porta-impronte palombiano. Sopra-vivere, ovvero sovrastrutturare la riorganizzazione dello scarto di sé. Ma anche sopra-vedere, vedere la vista, la nuova vista, quella che si dà dall’alto verso il basso, in una condizione di sovrapposto e non di sottoposto. E ancora: sopra-scrivere, scrivere-sopra. Scrivere sopra la scrittura, per certificare inoppugnabilmente l’andatura[9] para-schizoide (nell’accezione positiva del termine; si legga come concitata, quasi convulsa, asfittica) dei versi, per far sì che l’intricato groviglio di corrispondenze crei, a un occhio attento, evidenti figure di senso.
Sempre Derrida, a proposito de L’instant de ma mort di Maurice Blanchot (il testo è stato tradotto in italiano da P. Valduga in aut aut N° 267-268, 1995), usa una parola a dir poco esemplare: demourance, derivata dalla crasi tra demeure e meurt e che dovrebbe significare una sorta di permanenza della morte, una dimora ideale che permette alla morte di sopra-vivere, sempre e comunque. Ed è quello di cui stiamo parlando fin dall’inizio, di una morte che non è riuscita a darsi per intero, che non si è consumata del tutto, che non si è consegnata al corpo che l’ha chiamata in causa.
E questa è una figura esemplare del disastro.
Palomba è ben conscia di essere una portavoce di questa permanenza e di questo disastro. Sa di aver vissuto la morte senza averla posseduta.
Sarà questo, forse, il vero dono?
In quest’ottica, tra la permanenza e il disastro viene a consolidarsi quello che si potrebbe definire un «neutro ineffabile», una condizione privilegiata, un’esperienza sapienziale, una sorta di sovra-conoscenza.
Solo così Palomba può permettersi di parlare, a ragion veduta, della morte (del fallimento della morte), e quindi della vita.
E l’interrogazione, sempre derridiana, “Ma chi parla di vivere?”, che implica la presenza di un soggetto, trova -idealmente- in Palomba la sua risposta: “sono io quel soggetto”.
Ma la scrittura, si sa, è infida e ambigua. Non ci permette mai la spavalderia di sentirci un soggetto interamente costituito. E infatti nel diktat di Scisma c’è una certa predisposizione dell’io a sparire o a smarrirsi nel momento stesso della sua costituzione come soggetto, come se la parola scritta dovesse lasciare il posto a una vocalità inconscia, come se la vocalità, risonante solo in sé, dovesse dissolversi nella sua eco, come se l’eco fosse in grado di erigere uno spazio, per poter poi rimbalzare sulle pareti e ritornare al sé che ha permesso la sua costituzione. Ma quel sé si è già estromesso dall’atto. Il ritorno al sé che opera in un regime di estromissione[10] è un artificio. Ecco quindi lo smarrimento. Ma, beninteso, questo smarrimento si produce a seguito di un’eccedenza. Non è propriamente una perdita, bensì un ritrovamento del sé in un luogo altero e sovradeterminato. E allora, forse, l’istanza del luogo (luogo al bianco, sovræsposto, abbacinato) potrebbe essere definita come l’innesto di una alterità al suo interno che, beninteso, vive e si sviluppa al nero.
Ritorniamo, per un attimo sul salto che è causa determinante dello scarto che ne conseguirà. Quale modalità di scrittura può essere più adatta per narrare e drammatizzare la caduta?
Sicuramente la poesia che si incolonna, va a capo e precipita, inesorabilmente, dall’alto verso il basso.
E la poesia non è forse scarto di-sé-in-sé?
Non è forse il frutto di una serie di scelte?
Ci toccherà quindi parlare di poesia.
E, forse, l’approccio più consono sarebbe quello adottato da Tarantino nella postfazione, ovvero quello di usare un linguaggio sopra le righe, decisamente incalzante, quasi lapidario, volto a creare dei supplementi: vere e proprie protesi al diktat originario.
Io stesso ho compiuto recentemente un’operazione di questo tipo nella postfazione a La tramontanza di Adriano Engelbrecht ma, per quanto suggestive e, per certi punti di vista, necessarie, risultano riduttive e insieme aperte. Provate a immaginare una figura circolare in cui vengano innestate una serie di fratture. Queste fratture generano interruzioni nel flusso ma al contempo designano quei buchi da cui potrebbe fuoriuscire il getto di un’altra scrittura, una scrittura di supplementi.
È l’ennesimo double bind, insieme pesante e pensante.
E in effetti la portata (dovremmo dire la gettata ma non ci sembra il caso di scomodare Heidegger e l’onnipresente Derrida) psicolinguistica di quest’opera riversa un peso sul lettore. In realtà l’autrice riversa il suo stesso peso su sé stessa, ma questo è un discorso che ci condurrebbe verso altri lidi da esplorare.
Lo si legga col beneficio d’inventario ma, semplificando e riducendo, il fantasma dell’altra che era si affianca allo scarto dell’altra che è per condurre la danza della scrittura.
Ma non è una vera e propria co-conduzione. In effetti si tratta di una sorta di duello continuamente definito e ri-definito tra l’accettazione e il rifiuto, tra la testimonianza e la responsabilità dell’evento, tra l’urgenza della rivelazione e il solo apparente paradosso di metterla sullo stesso livello del nascondimento. Ed è proprio in queste alterità conflittuali, in questi double bind sovrastrutturati che bisogna ricercare una delle chiavi interpretative dell’opera.
Così la nostra autrice precipita più volte, una volta per ogni ritorno sul luogo del misfatto post-traumatico, intravede più volte una possibile riorganizzazione del corpo frantumato, di quegli organi esplosi che, sulla scia della schizoanalisi anti-edipica di Deleuze e Guattari, diventano una vera e propria “macchina miracolante” produttrice di energia ricostruttiva.
Abbiamo citato più passi da Le nuove rivelazioni dell’essere di Artaud, un testo misterioso e delirante, un testo per lo più sottovalutato dalla critica, di forte incidenza metafisica. Si potrebbe dire volto al superamento della metafisica. Un po’ come le intere opere di Derrida e Nancy, l’una decostruttiva e sovradeterminata nell’apologia del resto (ciò che rimane concorrerà sempre alla ri-costruzione di ciò che sarà), l’altra votata a una sorta di palpazione della frantumazione. Se dovessimo ragionare solo in termini di alterità basterebbe confrontarsi con L’intruso (Cronopio, 2006) dove è la sostituzione del cuore a dettare i toni e i ritmi della narrazione e dell’analisi e con Corpus (Cronopio, 1995) dove le infinite declinazioni del corpo che è stato e del corpo che sarà rappresentano e drammatizzano una sorta di trascendenza regressiva o, se preferite, una regressione trascendentale. Beninteso: la regressione di Nancy è, in realtà, una progressione, un dispiegamento. Il tutto implacabilmente es-posto, rischiando quella che si potrebbe definire come epi-esposizione o, se preferite, «esposizione dell’esposizione», entrambe fortemente letterarie prima ancora che filosofiche.
Un’occorrenza epi-espositiva si riscontra, per esempio, nel Giorno 4 (ma le occorrenze si moltiplicano senza e con soluzioni di continuità e contiguità in tutta l’opera): “La vigilia del nome è lo stigma/ tralascia il tuo nome/ assali il tuo nome./ La caduta del nome nel marmo/ dissolvi il tuo nome/ sbrindella il tuo nome./ Sei un covo di spago/ hai croci nel midollo./ Rinuncia al tuo nome/ distruggi il tuo nome./ Non esiste donna né uomo/ persona è anelito nudo./ Rinnega il tuo nome/ massacra il tuo nome./ Accontentati della crepa/ nascondi il tuo nome/ l’assalto alle ossa (p.23)”
Certo, siffatta modalità di scrittura potrebbe portare alla ricongiunzione delle parti smembrate, ma il mondo dei possibili non si cura dei risultati. Ciò che conta è la struttura psico-agonica-allucinatoria del percorso che conduce all’improduttività del risultato. Un’improduttività, come già detto e ribadito, decisamente produttiva perché parte dal fallimento della morte e approda sui lidi della trasformazione dello scarto.
Per il lettore di Scisma, forse, si tratta di percepire la percezione attraverso l’escamotage di un io che può sembrare univoco ma che si apre, sottotraccia, a ventaglio sul mondo sterminato dei possibili. Restando in ambito cinematografico, così come in Film di Beckett si procede per tentativi alla ricerca di sé stesso o del doppio, allo stesso modo Palomba si destreggia tra il percipiente e il percepito raddoppiando i piani d’esposizione e le stratificazioni concettuali attraverso continui slittamenti dalla sua stessa alterità all’alterità propria della scrittura. Così facendo si rende testimone del volo, della sua oscenità estatica, delle forme dell’atto, delle strutture della frantumazione e dell’urgenza della separazione.
Ma l’estasi non potrà mai corrispondere alla divulgazione di una verità assoluta. Casomai può veicolare uno stato effimero e transitorio. Ecco allora che alla testimonianza del disastro si affianca la drammatizzazione propria della scrittura che induce comunque a una sovrastrutturazione del dato di fatto e lo trasforma da un fatto che si dà in quel preciso istante nel resoconto poeticizzato di tutte le sfaccettature (reali, fittizie o allucinatorie che siano) che hanno contribuito al compimento del fatto. Così il fatto diviene un dato da cui non si può prescindere, anzi un dato da sopra-valutare.
Se consideriamo Scisma come il punto zero della ri-organizzazione sia strettamente corporea che essenzialmente letteraria, allora non ci resta che aspettare le nuove produzioni, la scrittura a venire. Non ci resta che palpare con mano il linguaggio della separazione[11].
[1] Attraverso i suoi oggetti simbolici Palomba crea una comunicazione intrallacciata non solo nelle singole serie ma nell’intero corpo testuale dell’opera. Banalmente: croci (p.23/p.44), crepe (p.23/p.25), sangue (p.24/ p.39/p.62), muro (p.35/p.45), titanio (p.21/p.25), corpo (p.35/p.36/p.39/ p.60/p.77/p.101/p.110), ecc.
[2] Senza scomodare Bataille (le cui teorie ci porterebbero troppo lontano, semplificando e riducendo, si potrebbe, o si dovrebbe, considerare la morte come una sorta di oscenità estatica, come un dono rivolto a sé stessi e che è quindi produttivo proprio nella sua improduttività di fondo. In tal senso sono improduttive sia la morte raggiunta da Rosselli che quella mancata da Palomba.
[3] Antonin Artaud, Le nuove rivelazioni dell’Essere, in id. Al Paese dei Tarahumara e altri scritti, Trad. H.J. Maxwell, C. Rugafiori, Adelphi 1966
[4] “Il Torturato è stato preso per un pazzo da tutti […] Il Torturato è diventato per tutti il Riconosciuto, IL RIVELATO” (ib.)
[5] Al di là delle teorie di Deleuze e Guattari e delle dichiarazioni esplicite della stessa autrice nella nota che accompagna l’opera, ritorneremo più volte sul concetto di «corpo senza organi» che, è bene dirlo, non è un corpo svuotato ma un corpo ri-organizzato.
[6] Cfr. Antonin Artaud, Van Gogh il suicidato della società, cura Paule Thévenin, Trad. Jean-Paul Manganaro, Adelphi, 1988 e Antonin Artaud, Succubi e supplizi, trad. Jean-Paul Manganaro, Adelphi, 2004
[7] “La veglia è guardare in fondo / al corpo, riconoscersi/ insaturi, rivelarsi orrori./ Preferisco nascondermi/ e non lasciar essere/ l’assenza mia gemella (p.143)”; “La creatura desidera e si nasconde, se con tut ti gli occhi vede l’intero, nell’aperto vede la sua morte (p.74)”; “La verità deve es sere nascosta. Voler morire/voler vivere. Vivere tutto – troppo – consumare ogni cosa. Gettarsi nel fuoco per farsi sacrificio; desiderio di dissolversi, essere cielo (p.123)”; “Io sono piena di mostri/ che devo ogni volta trafiggere./ Nessun fantasma può morire di nuovo./ Io sono il desiderio senza nome/ non è del corpo ma è spirito. Spirito./ Non desidero più la fine e non/ sono pronta per tornare./ A nessuno è concesso di restare/ senza aver sacrificato qualcosa (p.46)”, ecc…
[8] Jacques Derrida, Sopra-vivere, trad. G. Cacciavillani, Feltrinelli, 1982.
[9] Per aggiungere qualcosa alla scansione temporale, andatura è un termine omnicomprensivo, una sorta di medaglia verbale che ho usato nel saggio Le nostre (de)posizioni (scritto con Sonia Caporossi, Bonanno, 2020) in riferimento alla poetica di Martina Campi. Cito testualmente: “[…] sono andature di tempo a cui corrispondono andature nello spazio […] il tempo non agisce, il tempo si fa agire dallo spazio […] il tempo perde la sua connotazione oggettiva per soggettivarsi in un’altalena di ascese e cadute”. Anche se le poetiche di Martina Campi e Ilaria Palomba sembrano totalmente differenti, l’una spaziale e spaziata e l’altra perturbante e asfittica, ciò che salta agli occhi è, per entrambe, l’evidenza che il tempo perda in qualità e connotazioni nei confronti dello spazio. E lo spazio è, sempre per entrambe, quello dell’ospedale. Se lo spazio è un luogo, allora il tempo soggettivato di Palomba si fa agire da questo luogo sovræsposto e accetta l’andatura che le viene imposta.
[10] Ora, qui, in primo luogo o, se preferite, in prima istanza, anche se sarebbe decisamente lecito ipotizzare un’istanza del luogo, il luogo, irripetibile e pluri-definito, ove cade (e muore, e forse rinasce) l’azione. In realtà anche l’azione andrebbe quantomeno ridefinita in atto, alla maniera di Carmelo Bene, un atto inteso come eccedenza dell’azione e insieme come estromissione dall’azione. Estromissione, certo, è questa una parola-chiave (una delle tante) per l’approccio alla significazione dell’opera. Del resto l’estromissione coincide con la separazione. E quel soggetto, lacanianamente sempre spostato, è votato alla ricerca di un’ulteriore eccedenza, di un «fuori del fuori», di un «esterno dell’esterno», di stampo essenzialmente deleuzeano. È un po’ come aggiungere l’estromissione all’ob-skené e proiettarsi, in un gioco al massacro, verso lidi ancora inesplorati.
[11] Lo inseriamo qui in nota per non appesantire troppo il corpo del testo. Ci potrebbe essere anche un’altra ipotesi di lavoro su quest’opera cosiddetta di transizione. Recuperando per un attimo gli “oggetti simbolici” di cui sopra, non sarà difficile comprendere come il corpo possa divenire muro, come le croci possano divenire crepe, come il titanio possa divenire il nuovo osso primario (ri-organizzazione), ecc. Detto questo, risulterà obbligatorio il passo successivo di traslare nel campo delle «medaglie verbali» (Cfr. Le nostre (de)posizioni, cit.). Si tratta di estrarre dal corpo del poema tutte le parole sovrasignificanti, sia quelle espresse nel testo che quelle taciute e ridondanti nel sottotesto: smembramento e ricongiunzione (il calco innestato nella chōra e la successiva ri-organizzazione). E così via, en passant, il prezzo della furia; martellato l’osso sacro; gli orrori nascosti nella mente; l’uomo illuminato dal demonio/ parla la lingua delle bestie ; salvami dal mio nome; dalla motilità dell’ano; battere ai muri dei manicomi; abbandono, smarrimento, eccedenza, ingresso (ci sono almeno tre ingressi: l’ingresso nella struttura del volo, l’ingresso nelle stratificazioni del trauma e l’ingresso nei territori della ri-strutturazione anatomica, ovvero il passaggio dal trauma al cosiddetto percorso riparatorio, sopravvivenza (reiterazione di un supplizio diversamente strutturato?), il cimitero della mente (doppia accezione: da un lato i cosiddetti maestri morti e dall’altro lato la psico-azione che conduce alla tumulazione del già detto che ritorna implacabilmente a dettare il ritmo di una possibile continuazione, ovvero una sorta di sopra-vivenza alla sua stessa scrittura), coma/paralisi/frattura, corpo disabitato (ri-abitare la distanza tra sé e sé, ovvero il principio stesso dell’alterità), la fuga, il ritorno, farsi sacrificio, ecc.) per costruire una sorta di palinsesto dell’urlo.Ma l’urlo non è solo liberatorio, è anche costrittivo. Inaugura, per così dire, la psicosi di una prigionia sovrastrutturata, una nuova prigionia che rimbalza dal bianco delle pareti, delle lenzuola, dei camici sul bianco dell’estroiezione letteraria per ritornare al nero dell’introiezione che non può fare a meno di ricamare trame necessariamente contraddittorie sull’essenza e sulla sostanza del salto non riuscito o, se preferite, del salto fin troppo riuscito. E via dicendo…
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