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Dal nichilismo al semiocapitalismo in due racconti brevi


20 Set , 2024|
| 2024 | Terza Pagina

In questo mese di settembre sono usciti sulla Rivista on line L’Equivoco due racconti brevi che offrono le fondamenta per un discorso politico e antropologico che abbraccia almeno un certo numero di anni, permettendo di valicare il passaggio dall’ordine nichilista del capitalismo industriale all’ordine dei segni e dei simboli del semiocapitalismo digitale.

Il primo racconto è “Esperimenti” di Serena Barsottelli (https://lequivoco.it/racconti/esperimenti/). L’Autrice è della mia stessa generazione ed è legata a un immaginario in cui le scienze sono strumenti di quantificazione e misurazione del reale, l’essere umano deve servirsene per assoggettare la Natura e, nell’assolvimento di questo imperativo, è coadiuvato dalle macchine e dai mezzi (che poi non sono altro che merci). 

Il secondo racconto è “Fegati” di Giorgia Distefano (https://lequivoco.it/racconti/fegati/). L’Autrice appartiene appieno alla generazione Z ed esprime quell’immaginario del distanziamento digitale che è stato consacrato dai provvedimenti disciplinanti la recente pandemia e che ha instaurato, in particolare tra i lavoratori cognitivi, uno stato di natura legalizzato in cui gli essere umani sono connessi sullo spazio digitale per scambiarsi segni e simboli[1].

Questi due racconti, così strettamente complementari, sono stati pubblicati uno di seguito all’altro soltanto per una pura (e fortunatissima) coincidenza; in entrambi viene in rilievo il corpo dell’Altro, sebbene con significative differenze.

In “Esperimenti” i due protagonisti – il narratore e Aimone – sono mossi da un interesse morboso per il corpo dell’Altro; quest’ultimo è fatto oggetto di studio dal narratore-protagonista nella ravvicinata descrizione dell’incipit: “La geometria del corpo mi ha sempre infastidito. L’asimmetria della parte destra rispetto alla sinistra. L’incapacità delle vene di seguire una traiettoria dritta”. Quindi i due protagonisti si ritrovano a lanciare sassi dal cavalcavia con la perizia e la freddezza dello scienziato che, formulata un’ipotesi, si appresti a verificarne la validità: prima di recarsi sul luogo dell’attentato, parlano “di accelerazione e di massa, di gravità” e pesano il sasso; dunque, una volta sul cavalcavia, estraggono “un blocco di fogli bianchi, un lapis 2H, gomma e temperino”; infine, compiuto il misfatto, Aimone “inizia ad annotare: la massa del masso, la velocità di accelerazione, la forza della gravità”. Il corpo dell’Altro è coinvolto in questo primo esperimento come se fosse una cosa che vale una qualunque altra: l’impatto del sasso è descritto come “[i]l boato di qualcosa che colpisce un’altra cosa”.

Nel successivo sadico esperimento il corpo dell’Altro viene ricondotto a una macchina, così come la biologia umana a puro funzionamento della macchina medesima: i due protagonisti si chiedono dopo quanti pugni sulla cassa toracica la loro nuova vittima, un mendicante, smetta di respirare (e contano i colpi). Simile interrogativo equivale a: dopo quanti strattoni il distributore automatico sputerà la merendina?

I due protagonisti sono nichilisti e come tali credono che tutto sia natura e, dunque, tutto sia uno, tutto sia uguale e non vi sia né Dio né la parvenza di un ordine metafisico: praticano, in altre parole, un pan-ateismo, secondo cui Dio non è in nessuna cosa. In questo quadro, gli esseri umani sono ben legittimati a comportarsi come la natura e dunque alla stregua di forze cieche; sono anzi incentivati a comportarsi a tale stregua per affermare se stessi e differenziarsi secondo la logica dell’“anniento, dunque sono”. Così fanno pure il narratore-protagonista e Aimone, che però si servono anche della scienza perché sono gli ultimi discendenti di quel progresso che ci ha fornito innumerevoli merci, mezzi e macchine e ha esiliato Dio e qualsiasi residuo di pratiche animistiche e superstiziose. Per questo i due nichilisti se ne vanno in giro a fare i loro esperimenti, che però tali non sono, giacché producono effetti irreversibili; essi però non se rendono conto: in primo luogo in quanto sono immersi dalla testa ai piedi nella scienza e vivono nel mondo come fossero in un laboratorio; in secondo luogo perché, prima ancora che anaffettivi, soffrono di analfabetismo estetico, cioè percettivo. Il narratore-protagonista e Aimone vedono infatti l’essere umano come una macchina, nella violenza avverso l’essere umano la sollecitazione della macchina medesima fino alla sua capacità massima e nella morte la sua rottura.

Non è casuale che il racconto si sciolga con un suicidio assistito, che è inteso come l’acme del progressismo e che presuppone una valutazione scientifica circa la dignità di morire (e, correlativamente, di vivere).

In “Fegati” i protagonisti, una lei – che è anche la narratrice – e un lui, si sfidano a chi dei due sopravvivrà al sadico gioco di lasciarsi morire di fame: la posta in palio è mangiare il corpo dell’Altro (“Sapevamo che il primo a morire avrebbe mangiato l’altro”). Essi provano una evidente fobia verso il corpo dell’Altro, sono insofferenti alla presenza del corpo dell’Altro perché lo vedono come portatore di un’avversità, di un morbo o di una sciagura. Per eliminare l’Altro, sono disposti a mettere in gioco la propria vita; la loro anoressia non è fame d’amore, ma fame di eliminare il corpo dell’Altro. L’accettazione di questa folle scommessa è metafora dell’odierno mondo del lavoro cognitivo (largamente digitalizzato): in quanti sono disposti a giocarsi la salute mentale pur di far fuori i propri concorrenti lungo il percorso della c.d. carriera?

La narratrice-protagonista non accetta di vedere il suo lui durante i pasti: “potevamo guardarci negli occhi e tenerci per mano, andare a leggere insieme, all’unica condizione di consumare il solo pasto del giorno poco prima di vederci”; il momento del pasto, intrinsecamente conviviale e comunitario, scompare dalla vita relazionale e di coppia per dare adito alla sfida, alla competizione (che non risparmia gli amanti). La narratrice-protagonista esprime una percezione dell’Altro figlia del distanziamento digitale vissuto durante la recente pandemia, che ella ha interiorizzato come un imperativo: “Non eravamo morti, dovevamo soltanto allontanarci. Lo avevo visto a febbraio, quello dell’anno nuovo, sembrava un altro”: così per i protagonisti la salvezza è garantita soltanto dal distanziamento. Nel mondo reale la prossimità è latrice di uno scontro potenzialmente mortale, non è possibile costruire alcuna alleanza, nemmeno quella sadica che unisce i protagonisti di “Esperimenti”.

Il protagonista maschile, dal canto suo, desidera essere “magro quanto Cristo appeso alla croce. Poiché era il suo modello, ma non la sua guida, non lo pregava. Lo guardava e basta. Lo avevo sognato crocifisso qualche volta, troppo abbronzato per essere lui. Se avesse mangiato, forse, avrebbe preso quell’abbronzatura mediterranea”. Il corpo di Cristo, espulso dall’ordine nichilistico perché disconosciuto, può rientrare nel semiocapitalismo senza destare scalpore, passando dalla medesima porta dalla quale hanno ingresso tutti gli altri segni e simboli. Il Cristo, in quanto segno e simbolo, è reso astratto e innocuo, può soltanto indurre al consumismo e al conformismo all’immagine (che a sua volta implica un atteggiamento consumistico); in quanto corpo, in quanto gettato nella storia, è pericoloso ed eversivo. Lo stesso discorso vale, per esempio, per le riproduzioni digitali dell’effigie di Che Guevara o dei Sex Pistols. Il semiocapitalismo, al pari del nichilismo, non conosce valori, ma può ammettere nel suo seno i valori esiliati dal nichilismo astrattizzandoli, disincarnandoli, conferendo loro foggia di segno o simbolo; questa sua capacità di assimilazione e trasformazione lo rende ben più resistente del nichilismo alle contestazioni di eventuali moralizzatori (cioè portatori di valori). A un livello preliminare, l’ordine del semiocapitale rende più disciplinate le masse, che non si incontrano più per concertare, progettare e mettere in atto, in altre parole per entrare nella storia, ma si scambiano segni e simboli alla distanza di sicurezza consustanziale allo spazio digitale.

Nei due racconti apparsi su L’Equivoco – “Esperimenti” e “Fegati” – vi sono tutti i semi di questo mio ragionamento e perciò faccio un plauso alle loro Autrici.


[1] Segni e simboli che non sono altro che inviti o offerte all’acquisto o al consumo ovvero dichiarazioni o proclami di proprietà o possesso: anche questi ultimi si risolvono in inviti o offerte del primo tipo, almeno nella misura in cui gettano un guanto di sfida o lanciano una provocazione a chi li percepisce.

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