Lo scrittore Guido Piovene, nella seconda metà del secolo scorso, notava come le persone nate e cresciute a Roma preferirebbero morire piuttosto che andare a vivere altrove: pochi altri luoghi generano un attaccamento altrettanto simbiotico, o meglio nevrotico, «fino a narcotizzare la capacità di cambiamento che distingue l’essere umano».
Ma questo sentimento vale ancora oggi? Senza dubbio molto meno che in passato. La città, negli ultimi anni, ha cambiato volto, in peggio, e il suo paesaggio continua a mutare talmente in fretta da rendersi quasi irriconoscibile. Sembra ormai una città «postuma a sé stessa», come ha commentato di recente Fulvio Abbate. Eppure, ricorda Filippo La Porta, Roma ha sempre fatto propria l’estetica del disastro, nonostante la sua opulenta policromia, la sua atmosfera malinconicamente festosa: più che eterna, è “eternamente terminale”, come se vivesse una “fine continuamente rimandata”. In essa il tempo della Storia pare comunque essersi definitivamente fermato, per parafrasare una nota canzone di Antonello Venditti: rimane solo il movimento della cronaca e quello esterno “der mondo infame”.
Ovviamente Roma è ancora tanto, ma in modo assai diverso che in passato: senz’altro meno mamma e più matrigna, e con molti meno volti da mostrare. Il pensiero va a quei suoi aspetti contraddittori in cui gli slanci di vitalità si conciliavano con la frontalità della morte, il gusto della catastrofe con l’idea di ricominciare tutto daccapo, la chiassosa spettacolarità e la comica vanità con un senso di vuoto da riempire, la flemma e lo snervante lassismo della palude burocratica con il desiderio di rallentare il tempo. La sua è sempre stata una doppia anima: da una parte l’odore dei ruderi, dall’altra la “simulazione di attivismo”; da una parte la vocazione alla recita teatrale e il gusto barocco della superficie, dall’altra una concretezza, un’autenticità senza fronzoli e senza maniere; da una parte l’apparente mancanza di profondità, il lasciar correre, con quella «espressione resa pesante e pensierosa da esigenze gastro-sessuali» che le riconobbe Federico Fellini, dall’altra momenti di concentrazione su di sé e sull’essenziale, quali premesse per un’autentica esperienza spirituale. Di contorno si sono osservati un insieme di atteggiamenti che sono a un tempo contemplativi, accidiosi e giocosi, sempre oscillanti tra lo stupore dell’“anvedi” e la disincantata consapevolezza dell’“aspra realtà della vita”: pure quando meno si è creduto nelle possibilità di una positiva dialettica storica e più ha prevalso la pigrizia supponente di chi è convinto di aver visto già tutto, non è mai venuta meno una certa attitudine alla meraviglia, a sorprendersi del mondo e delle cose come se le si scoprisse per la prima volta.
Oggi la Roma del “sempre-uguale” è sempre più uguale, ma solo nel senso della piattezza e dell’omologazione, e tutto ciò che compensava i suoi lati oscuri sta via via cedendo il passo. Il suo profilo è stato sempre quello di una città che sfiniva e sfibrava, pronta «a indebolire l’animo, ad immergerlo nella stupefazione», come appuntava Stendhal due secoli fa, ma che al tempo stesso sapeva segretamente caricarti «con le gioie della sua simpatia» e prometterti una qualche velleità di futuro; una città che addormentava nei suoi ritmi levantini e nelle sabbie mobili delle sue pause interminabili ma che contemporaneamente instillava un’energia vibrante; una città spossante e sfasciata ma anche colorita e in grado di spingerti a riappropriarti della tua esperienza sedimentata. Roma, in sostanza, invitava a sperimentare una temporalità diversa, connessa alla sua tendenza irriducibile a dilatare, prolungare, rimandare ogni incombenza in un’idea di «vita attiva inframmezzata», e propiziava una diversa tonalità delle relazioni quotidiane, tra approssimazione e impegno collettivo, desiderio di onori e spirito antiutilitarista, indifferenza e vitalismo, sciatteria e senso del bello e del sacro, nichilismo e trascendenza, malinconia e furbizia, edonismo e visione tragica, tra la festevole convivialità rionale e la stralunata goliardia tipica di chi si apre fin da subito per non aprirsi però mai del tutto. Sempre Stendhal, nei suoi diari del 1817, osservava che se i settentrionali concepivano la vita in modo grave e serio, a Roma, con la stessa serietà, si affrontava l’esistenza «in modo vivo, appassionato, pieno di sensazioni forti, e se volete un po’ disordinate».
Oggi molti di questi tratti ambivalenti della città eterna appaiono appannati. C’è allora da chiedersi che cosa sia rimasto di ciò che percepivamo, più o meno a ragione, come di suo peculiare. Cosa resta della sua svogliata e un po’ carognesca ma avveduta tolleranza, ovvero della sua “calda indifferenza” che accettava tutti, scrollando le spalle dinanzi alle loro eccentricità e perversioni? Cosa della sua immagine comunitaria e aperta, che stride con quella attuale, più diffidente, impaurita e incattivita? Cosa del suo sentimento egualitario, che denotava noncuranza critica verso le sventure di chi sta in alto e le vanterie di chi si sente il centro del mondo? Cosa della sua estroversione caciarona e della sua saggezza menefreghista che assolveva ogni peccato, e senza giudicare ti offriva sempre una complicità? Cosa è rimasto, insomma, a parte la maleducazione cinica, spesso esibita con iattanza, e il vittimismo sfrontato? C’è qualcosa che sopravvive nel nuovo millennio, oltre la sua anima rissosa e sanguigna, oltre quella propensione alla corruzione e al parassitismo in cui qualcuno vedeva riflessa la storia della nostra nazione?
Senz’altro è rimasto ben poco della Roma misteriosamente accogliente in cui si imbatté Pier Paolo Pasolini. In una lettera a Silvana Mauri del 1952, il poeta di Casarsa contrapponeva il “paganesimo” sensuale e asentimentale della “città eterna” alle virtù tipicamente nordiche della pietà, del pudore e del senso di intimità: «Qui tra questa gente ben più succube dell’irrazionale, della passione, il rapporto è invece sempre ben definito, si basa su fatti concreti: dalla forza muscolare alla posizione sociale». Filippo La Porta ha colto a sua volta questo caratteristico spirito dell’Urbe osservando che, a contatto «con le ultime esperienze di un mondo classico, “storico-epicureo”, il suo [di Pasolini] sentimento cattolico, lacerante, del peccato si stempera e si traduce in una ritrovata comunione dei sensi, in una più ampia e serena accettazione di sé». Ma già Stendhal registrava come ognuno, a Roma, potesse cercare la felicità nella versione a sé più congeniale, senza incontrare «nessun imbarazzo, nessuna costrizione, nessuno di quei modi convenzionali, la cui scienza altrove si chiama abitudine mondana», e dichiarava la città «vicina alla libertà perché non è vittima dell’ipocrisia».
Negli ultimi anni l’immagine di Roma è quella di una città sempre più rassegnata e decadente: grigia come il cemento che la sommerge e sfiancante come il congestionamento asfissiante delle sue strade. I quartieri hanno ormai smarrito le loro specificità: al di fuori delle bellezze ineguagliabili del centro storico, trasformatosi peraltro in un immenso outlet a cielo aperto, si srotola una geografia di ambienti tristemente simili. Si è persa quella coesistenza di tono aulico e popolare, di scala monumentale e scala quotidiana, di vita minima e vita “cosmico-storica”, di cultura alta e avanspettacolo, di arte e demi-monde, che era una delle principali caratteristiche della città eterna (caput mundi e cortile condominiale in uno, un po’ come il suo biondo Tevere, carico di tutto ma alla portata di tutti). Ciò che emerge in modo particolare è la situazione di abbandono in cui versano le periferie, tra incuria e degrado sia urbano che sociale, a tutto vantaggio di un’idea di città-vetrina senz’anima che genera gli eccessi di un crescente e parassitario turismo. Nel frattempo la programmazione culturale è tutta concentrata sui grandi eventi spot, quando ciò che veramente servirebbe è una strategia che riaffermi un senso nuovo della località, con opere e iniziative più penetranti e diffuse, oltre la logica dei mega cantieri nel deserto di visione e socialità. Persino la “movida” si è andata omologando nel tempo: oggi prevale quasi ovunque il modello del Trastevere by night (quartiere apripista dei cosiddetti processi di gentrificazione). Parallelamente la dimensione del consumo-spettacolo avvolge ogni frammento del quotidiano, appagando il bisogno ossessivo di facili distrazioni e godimenti istantanei, mentre sullo sfondo si agita lo spettro di un’apocalisse imminente. In questo scenario, rapportarsi ai propri luoghi e contesti vitali significa nei fatti sperimentare solitudine e smarrimento, anche perché tutto, a causa di vari fattori, è cambiato a ritmi ben poco sostenibili.
Insomma, la città di Roma agli inizi del terzo millennio ci appare tristemente uniforme: dal punto di vista degli stili di vita e di consumo come dell’immaginario e della produzione culturale. Del borgataro che nel frattempo si è imborghesito rimangono solo gli antichi vizi, ancorché attualizzati: mentalità da sopravvivenza, mancanza di maniere, nichilismo irriflesso e invidia, indolenza e attitudine al cinismo, inclinazione a vivere alla giornata arraffando tutto ciò che si può, insolenza e punte di estrema bassezza. Volendo estremizzare, si può arrivare a rimpiangere la “ribollente energia” del popolano sboccato e attaccabrighe, con la sua vitalità ferina ma ruvidamente fraterna, con la sua malinconica e fracassona sgangheratezza; nulla più si intravede della sua antica naturalezza, preclusa alla prudenza e alla moderazione, e refrattaria alla continua e a volte soffocante vigilanza dell’intelletto critico. Persino la rissosità – ci sia consentita la provocazione –, che a volte si trasfigurava in spacconesca messinscena, ora è solo sguaiata e volgare. Chissà dov’è allora finito l’idealtipo del popolano romano, testimone di esistenze più o meno deragliate? Dove è andato a rintanarsi il suo carattere beffardo, tra giocosa strafottenza e quieto disincanto, tra saggia ironia e beato menefreghismo? Dove quella sua vocazione a un realismo un po’ scabro e al tempo stesso sognatore, e quel suo gusto per la derisione non meno affettuosa che perfida? Che ne è di quello stile informale e approssimativo, pigramente e allegramente sbracato, bonariamente aggressivo («buono e carogna insieme», direbbe Vincenzo Cerami, proprio di chi è capace di «crudeltà senza cattiveria», di chi è «dispettoso senza vero odio», per citare Carlo Levi) e indifferente a imposizioni e false gerarchie? Dove ritrovare, ad esempio, il faccione caldo, mite e disarmante di Aldo Fabrizi? Dove la battuta tagliente e la vitalità istintiva della Sora Lella, con quell’occhiata di chi ha visto tanto e sa capire le persone al volo? Dove l’aria pensosamente distratta, a volte mesta e a volte trasognata, di Nino Manfredi? Dove lo sguardo sornione e l’eleganza per nulla affettata di Marcello Mastroianni? Dove il pathos tragico, ma in grado di sciogliersi nel riso più fragoroso, che fu tipico di Anna Magnani? Dove la comicità sconveniente e dissacrante di Remo Remotti, con il suo comportamento randagio e picaresco? Dove infine l’energia delle matrone romane, quella forza contagiosa, pragmatica, ma di un pragmatismo positivo, accogliente e generoso, autentico e spontaneo?
Le stesse domande, del resto, si possono porre anche in riferimento a ciò che resta della buona borghesia romana. Che fine ha fatto ad esempio il tocco lieve, svagato, moderatamente edonistico di Massimo Ruggeri? Pensiamo a lui perché incarnava alla perfezione, con il suo stile innato e non esibito, la borghesia d’antan, sobriamente aristocratica, dalle buone (ma non molte) letture. Oggi quella borghesia si è per la gran parte imbastardita, ed è rimasto solo un lato del suo eterno “doppio fondo”: ovunque sembra dominare una spudorata ostentazione di ricchezza, potere e vanità, in un contesto di generale infiacchimento e ipocrisia. Pure se si afferma la virtù, essa è la stucchevole retorica della virtù; pure se si mostra bontà, essa è l’ideologia della bontà.
Ciò che non esiste più è sicuramente il sottoproletariato incolto e selvaggio di pasoliniana memoria. Certo, il sottomondo della periferia romana ha continuato per lungo tempo a racchiudere una miriade di microcosmi refrattari agli imperativi dell’American way of life, ma senza la “miniepica popolare e barbarica” del passato, che è stata travolta da un incessante processo di gentrificazione (e “genocidio culturale”). La sua anomalia, le sue ridondanze, la sua “verità plebea” sono state dunque da tempo pacificate e normalizzate. Ciononostante ci sono ancora oasi che resistono nel deserto di umanità e bellezza che avanza, voci superstiti, indomite, impregnate di romanitas, luoghi in cui provare a replicare quella saldatura fra cultura alta ed esperienze di vita popolare meravigliosamente incarnata nella parabola umana e poetica di Pier Paolo Pasolini. Collocata ai bordi della città permane insomma una realtà meno ovvia, capace di sorprendere, sebbene sia ormai sbiadito il ricordo dell’epopea antiborghese dei “ragazzi di vita”, allegramente noncuranti, giocosi e irriverenti, “compagnoni e provocatori”, eppure anche loro in via di “mutazione”, precipitati senza alcuna difesa dentro le logiche della società dei consumi e dello spettacolo, e così al tempo stesso innocenti e corrotti, ossessionati dall’arricchimento facile, barbaricamente incapaci di mediazione.
Ecco allora che non c’è soltanto un’unica classe ansiosa, frastornata e devota al proprio particolare benessere, «senza tradizioni, né ambizioni morali né rispetto umano»: dietro questa patina cupa e asfittica, sopravvivono infatti alcune differenze, e continue reazioni e controspinte. Ancora oggi, pur dentro un orizzonte di desolazione e continuo inaridimento, resistono esperienze minoritarie, periferiche ma ostinate, di vita positiva in comune, “isole” di luce e di senso, di cui ha scritto anche Marco Lodoli, capaci di valorizzare il bene sacro e prezioso del legame sociale popolare. D’altra parte, la parola chiave della Roma popolare è sempre stata “legami”: legami primari e legami di comunità, che non vanno vissuti come sfere indipendenti o in contrapposizione le une alle altre, ma come una dimensione comune le cui componenti si potenziano e rafforzano a vicenda; e poi legami con la vita, ovvero con le cose belle che la vita stessa ti offre, nella consapevolezza che il tempo sottratto alla convivialità e ai rapporti umani è un tempo che vale zero; legame infine con il lato profondo della storia, fatto di sacrifici ma anche di tante piccole soddisfazioni. Il senso del legame è d’altronde ciò che solo può indicare la via di una fortuna possibile, guardando all’esempio degli altri, che non sono santi ma nemmeno diavoli, dai quali è lecito aspettarsi più un aiuto che un dispetto, purché si sia capaci di chiederlo: questa almeno è la lezione che le nostre nonne da piccoli ci hanno insegnato.
Si dirà che ragionare in termini di tipi antropologici, di segmenti sociali e di caratteri collettivi è una forzatura, che trasfigura inventando più che descrivere rappresentando. Sarà certo una semplificazione, perché tutto è più sfumato e intrecciato, ma ragionare in termini di grandezze collettive e spirituali è necessario: non si fa peccato a pensare che i luoghi rimandino ad altro, che abbiano un’anima, che siano impregnati di storia, che contengano una stratificazione aperta e dinamica di senso, né a ritenere che tutto questo lasci tracce profonde nella conformazione caratteriale e nelle abitudini degli individui “associati”. Se sono più i significati che assegniamo ex post piuttosto che quelli che ci arrivano ex ante, poco importa: ciò che conta è che tutto questo sia vero per noi, piuttosto che vero in sé e per sé. Del resto, se non credessimo nella forza di una dimensione ulteriore di significati inscritta nei diversi contesti, non potremmo fare appello a ciò che resta della loro anima migliore, ovvero alla necessità di risvegliare quelle risorse spirituali mai completamente domate. La storia di Roma è, per esempio, anche la storia di una città capace di fiammate improvvise di rinascita, subentrate di colpo al disincanto brontolone, a testimonianza del fatto che vi è una irriducibilità insopprimibile, connessa al bisogno di vivere momenti di convivialità incarnata con Roma sullo sfondo: città-ribalta, immenso teatro di posa dove possono accadere miracoli e nefandezze, piazza ideale per la recita, un po’ seria e un po’ buffonesca, della eterna commedia umana, mirabilmente interpretata dal genio di Alberto Sordi.
Tutto falso? Pazienza. D’altronde, come ha scritto Filippo La Porta, Roma stessa è una «bugia» destinata a rimanere tale perché «simula un’apocalisse sempre rinviata», perché «mimetizza l’eternità dentro l’attimo», perché «tutto ciò che vi arriva finisce ma non smette di finire», perché «recita l’indifferenza nascondendo lo stupore», infine perché «offre generosamente un palcoscenico per qualsiasi parte», il punto di osservazione privilegiato a partire dal quale comprendere le dinamiche profonde della storia in grande e della storia in piccolo. Non a caso il popolo romano è stato spesso riconosciuto come quello che più ama la satira acuta e mordente, anche per via della sua “disperazione”: abituato a considerare i propri mali come inevitabili ed eterni, il romano non si aspetta mai troppo dai suoi governanti, e così si accontenta di prendere in giro i potenti e ridere alle loro spalle.
Ma nella mente di chi scrive Roma è anche e soprattutto la nostalgia di una Nonna (la mia) rotonda, forte e ingombrante, ma allo stesso tempo accogliente, premurosa e sapiente, che ti consola, rimbrotta e sostiene, lasciandoti però libero nel tuo cammino: che tu sia un re o l’ultimo degli sconfitti, non ha alcuna importanza, le sue parole e i suoi gesti all’insegna della semplicità e dell’alleggerimento degli affanni sarebbero sempre gli stessi. A lei rivolgo un’invocazione finale, simile a quella di Venditti in “Sora Rosa”: continua a tenderci la mano, aiutaci a non perdere mai le vie della saggezza e dell’apertura al mondo, della sopportazione nelle fatiche e della risata liberatoria, le vie infine della bellezza e di una vita solidale in relazione con gli altri.
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