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Calcio senza mito. Daniele De Rossi o la crisi di una cultura

Ciò che sta accadendo in questi giorni attorno all’As Roma – l’esonero dell’allenatore Daniele De Rossi, considerato un simbolo dalla tifoseria, e le conseguenti proteste e malumori in città – ci richiama ad una questione di carattere più generale, ma non per questo meno stringente, che riguarda il mondo dello sport, come riflesso in realtà di un’intera epoca, sintetizzabile in questi termini: è possibile destinare lo sport, e più nello specifico il calcio, in direzione di una secolarizzazione assoluta? Ecco la domanda che sembra a noi centrale, prima di qualsiasi declinazione specialistica: perché qui, infatti, non stiamo discutendo sulle possibili coniugazioni dello sport (sui suoi differenti modi, attributi, intorno ai quali, evidentemente, è più che lecito divergere), bensì su ciò che ne costituisce la struttura portante, almeno dal secondo dopoguerra in poi – e, cioè, quel suo carattere fondamentale, quelle modalità in cui parte di una società (qui ci si riferisce prevalentemente al mondo europeo) si è rispecchiata in esso.
La forma-calcio, infatti, non è evidentemente banalizzabile in “undici uomini che corrono dietro ad un pallone”, costituendosi, piuttosto, nei termini di un’eticità collettiva: un carico di valori, tradizioni, ritualità condivise – una Cultura, nel senso più ampio del termine, dai tratti per la maggior parte popolari. E questo non è considerabile un elemento accessorio, bensì è ciò che potremmo definire l’essenziale: il calcio, infatti, si è retto proprio su, ed attraverso, quel surplus simbolico, così che la rimozione di quest’ultimo contribuisce in verità ad una mutazione strutturale dello stesso fenomeno sportivo. Continueremo a guardare il calcio senza conoscere nulla di ciò che avviene intorno ad esso – in modalità, cioè, totalmente neutrali, o asettiche? Probabilmente sì – ma da un’ottica completamente differente. Infatti, quel residuo che apparentemente si pone al di fuori (trascendente) a ciò che avviene fattivamente in campo, non costituisce un qualcosa-di-più, bensì uno dei suoi tratti fondamentali: è la storia, intesa come carico simbolico, infatti, a fondare se non l’evento stesso, quantomeno le modalità di raccoglimento attorno ad esso.
Fino al punto che questo surplus, in alcuni casi, può divenire maggiormente rilevante di una singola vittoria – perché anche il raggiungimento dei risultati, infatti, non potrebbe, o dovrebbe, scontarsi mai frontalmente con quel portato di cultura condivisa. Ritornando alla questione iniziale, che cosa significa, allora, che il calcio si sta secolarizzando (o, in altri termini, sempre più immanentizzando)? Proprio ciò che abbiamo appena detto – che, ormai, una buona parte delle società calcistiche, da un punto di vista direzionale, si muove non solo prendendo decisioni in contraddizione a tale residuo simbolico, ma comportandosi proprio come se quest’ultimo non fosse mai esistito. Secolarizzare, allora, significa abbandonare, definitivamente, quelle briciole di “sacro” che ancora erano rintracciabili nello sport: opporre a delle storie condivise modelli compiuti di razionalità formale – sostituendo, così, quelle che, solo qualche decennio fa, potevano considerarsi embrioni di forma di vita collettiva con scelte dai tratti, invece, ormai sempre più spersonalizzanti. Come se anche nel calcio, in ultima istanza, dovesse giungere quella solitudine del moderno, che accompagna già ampiamente altri ambiti della nostra forma di vita occidentale.
Questo discorso, tuttavia, non deve neanche condurci ad una critica poco approfondita delle forme di interpretazione contemporanee dello sport – bensì, piuttosto, accompagnarci nel tentativo di trovare un altro orizzonte per esse: non esser cioè, di principio, anti-moderni, tentando, piuttosto, di tracciare vie alternative. Ritorniamo, brevemente, al caso De Rossi: si è scritto su varie testate che egli sia stato esonerato dalla società per delle statistiche, dei dati con la presunzione di oggettività – la capacità della squadra di generare xG sarebbe, considerando le ultime 10/15 partite disputate, minore a quelli (xG) concessi agli avversari (per xG si intende la costruzione di un recente modello statistico che calcola, in base ai tiri effettuati e subiti da una squadra, quante reti quest’ultima avrebbe dovuto segnare e subire). Tutto ciò ha scatenato feroci reazioni da parte di chi considera questi strumenti estremamente rigidi, astratti – e, soprattutto, non corrispondenti a quanto succede, effettivamente, in campo. Ecco, non è questo il lato della nostra critica. Non perché riteniamo che questi siano strumenti risolutivi, prescindendo dall’osservazione, ma perché essi, piuttosto, possono costituire dei coadiuvanti, nell’interpretazione di quanto avviene in campo, alla prospettiva umana (che deve rimanere, evidentemente, il fulcro di ogni analisi, anche se ciò è quello che sembra decadere, sempre di più, nelle scelte direzionali di moltissime società, in favore di una presunta scienza esatta – l’altro lato della medaglia, ma in realtà complementare, di chi ritiene questi strumenti superflui, demonizzandoli). Si potrebbe, ancora, controbattere affermando che questi strumenti, in realtà, non rimangono mai totalmente neutrali, contribuendo a riformulare la natura stessa delle categorie interpretative – ma questa è una questione che qui possiamo solamente lasciare aperta, in quanto meritevole di una trattazione molto più ampia.
Ma ritornando al caso De Rossi, queste statistiche, in realtà, se interpretate mediante uno sguardo critico, o una visione globale, rivelano, in realtà, qualcosa di più profondo, che poco ha a che fare con i meri dati. Sintetizzando così la nostra posizione a riguardo: esonerare un allenatore ad inizio campionato – dopo che egli ha firmato un contratto di tre anni solamente a giugno – rivela tutte le contraddizioni di una società che sembra non aver idee solide riguardo la progettazione (mettendo in evidenza, anche in questo caso, tutti i limiti della razionalità formale, quando non accompagnata da una visione, o da quello che Preterossi chiama il teologico-politico), ma, al contempo, questi dati mostrano anche qualcosa che possiamo dire solo a malincuore – e, cioè, che anche un personaggio come De Rossi (che ha fatto della inestinguibilità della teologia politica la cifra fondamentale del suo carattere e della sua esistenza calcistica), nelle vesti di allenatore,ancor prima di ogni possibile critica alle prestazioni o ai risultati, nel suo non-decidere, è sembrato sempre più coinvolto in questo processo di secolarizzazione che non lascia niente fuori di se, e che consuma tutto. Si tratta di un problema drammatico, dal quale bisogna ripartire, un problema anch’esso legato strettamente alle nostre società, perché quando un pragmatismo assoluto sembra assorbire, fino a dissolvere, quell’identità da pensare in costante movimento (in questo specifico caso della forma, o del modo di giocare, di una squadra) – che dovrebbe costituire quel fondo da cui ogni prassi trae origine–alla fine ci si perde.
Tuttavia, è proprio attorno alle differenti modalità di agire di fronte ad una Storia condivisa, alla dedizione e l’impegno che ci si mette nel mettersi in dialogo con un’eredità, che si comprende il modo in cui si stanno costruendo le moderne società e le loro conseguenti culture. Ritorniamo, così, al principio del nostro ragionamento: è, infatti, nell’universo del simbolico, in quel carico di tradizioni e ritualità condivise e, ancora, nella costruzione di forme di vite collettive attorno ad una memoria, che si costruisce il mondo, e la cultura, del calcio (ma non solo). E questo è un materiale che deve esser maneggiato con estrema cura – perché si rivela, in realtà, come il tratto essenziale, seppur caduto in oblio – anche nella scelta più dolorosa.
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