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Per un racconto di un sud inconsueto tra mare, terra, lotta e sacro

La poesia non è un oggetto inerme, pacificato, scevro da potenzialità rivoltose. Chi cerca di appiattire la poesia al senso comune non la conoscerà mai. Occorre caricare la parola di una valenza sociale, e perciò è importante ogni parola, ogni verso, ogni sillaba. Tutto ciò ha un peso, non si può sfrondare a caso, non si può chiedere a un autore di nascondere la rabbia, l’impeto, un sentire scomodo e anticonformista – purché non diventi un anticonformismo da slogan e salotti di benpensanti – anticonformismo significa non solo dire io esisto, e sono diverso da voi – gesto indubbiamente punk – ma anche dire: ecco, vedete, il mondo esiste e è diverso da quello che vi raccontano coloro che hanno il potere di forgiare storie per le masse. Questa forza che insorge e spalanca gli orizzonti l’ho trovata tornando al sud. La scorsa estate in Salento sono stata coinvolta in serate capaci di restituire un’idea di unicità al concetto di poesia in quanto poiein, qualcosa che si fa, che deve compiersi, e non può compiersi in uno spazio isolato, ma nello stare tra gli altri. La cultura che prende forma a partire da uno scambio, da un passaggio del testimone, da una luce notturna, esoterica, che nessun social potrà mai eguagliare. Ritrovarsi in un’insolita magia agostana, tra muretti a secco e castelli barocchi, a condividere questo arcano oggetto che è la parola, ritrovarsi nella più innocente fratellanza con persone appena conosciute, è un dono che devo a Mauro Marino, Alex Cannavale e Livio Muci che hanno organizzato due incontri, il 25 e il 28 agosto scorsi, a Nardò, il primo al giardino botanico, il secondo in piazza Salandra, e a Dario Melissano, che ha organizzato degli incontri a Otranto intitolati LunedìPuglia, in cui leggevamo a turno all’esterno della vineria letteraria Amore di Puglia, che ha la grazia delle grandi cose nei posti piccoli. Ho ritrovato degli amici, e conosciuto nuovi poeti, nell’orto botanico di Nardò, e sul palcoscenico di piazza Salandra. Alcuni poeti mi hanno donato i loro libri, e ho trovato – seppur nelle differenze – delle simmetrie di sguardo nell’affrontare tematiche importanti con una lingua calda, fervida, passionale, non appiattita, non ancora disumanizzata dalle esigenze di mercato.
Giuseppe Zilli, con Carezze di perdono (Besa) scrive la vita di Gesù in versi, raccontata attraverso gli affreschi, le opere d’arte, il bacio traditore di Giuda. La luna morente, il paesaggio vivo, la terra. Con una lingua lirica e mai debordante. È, il suo, uno sguardo metafisico, un ponte tra la violenza e il perdono, quando nel tessuto della memoria resta il rimpianto. Occorre percorrere il deserto per preparare la rivoluzione.
Il vento soffia tra crisalidi
di legno, le foglie argentee un ricordo.
un germoglio si fa strada tra i “cuti”.
Claudia Piccinno con Implicita missione, la fotosintesi della memoria (Fara), si appella al silenzio, al cielo, dove la missione è una salvezza di tutte le creature della terra, soprattutto le più esposte. In lei è presente l’urgenza del racconto della terra, di una mediazione che sia compartecipazione al paesaggio. Una versificazione basata su un ritmo interiore, che va alla ricerca delle radici, di un sud dell’anima.
Visioni del sud
nella nodosa corteccia
degli ulivi
frammenti di luce
in comode rate
a colmare gli abbracci inevasi.
Un libro, un taccuino, un caffè
fan da cornice
a quest’elioterapia del ritorno.
Non c’è scadenza, né vuoto a rendere
in quest’ossessione delle radici.
Giorgia Mastropasqua, con Al mondo vuoto (Controluna), mostra un’eleganza antica e barocca. Penso a una Claudia Ruggeri che ha deciso di vivere, ma lo fa con una melanconia che copre gli oggetti di una caligine sottile. Penso a Ceronetti, a Cristina Campo. Giorgia ricorda l’incanto della lingua quando cerca sapiente l’anima, specchiandosi nei nodi, nell’assenza. Penso a Tarkovskij, alla Zona di Stalker. Le sue poesie sono pregne di luoghi immateriali, di spiriti. Uno sguardo senza tempo sulla bellezza lasciata nelle rovine. Il suo sguardo ridona ai luoghi un’anima, li mostra in una luce insolita, dove l’architettura assume fattezze immateriali. Il quotidiano è carico di molteplici sensi, nel respiro metafisico, in cui l’invisibile canta oltre la terra.
[…] Ricordo un giardino vigoroso
e abbondante
d’arbusti inferociti
e pietà di colori
viola, lilla, ambizioni di rosso
nella mia mente. […]
Giuseppe Semeraro con Requiem per gli ulivi (AnimaMundi) affronta un tema scottante per la Puglia, per il Salento, una malattia che ha colpito la terra, e l’ha piegata a una strenua divorazione, lasciandola spoglia come un cimitero. La musicalità, l’empatia, la terza persona blanchottiana emergono potentemente in questa sublime penna capace di dare voce a tutte le alterità, e nella sua presenza scenica potentissima, un’interpretazione che ha l’acuta precisione di una musica che non si vorrebbe mai smettere di ascoltare. Sempre Semeraro, con Apocalisse Apocrifa, (Les Flâneurs Edizioni, collana Icone), riscrive l’Apocalisse di Giovanni, con la potenza verticale della visione, e della trasformazione del male in bene. Leggendolo ho pensato a Antonin Artaud, a Costantino Kavafis e a Antonio Verri. La grande poesia è un atto di trasformazione. Quella goccia di bene nell’apocalisse ci induce a sperare nel domani, anche se il cielo crolla e trafigge, al culmine della notte sorge il giorno.
[…] Vincerà l’agnello, il cuore purificato
vincerà chi è disarmato
vincerà l’agnello bambino
vincerà chi trema, chi piange
chi ha paura, chi sorride
vincerà l’agnello,
chi non si tira indietro
vincerà chi guarda negli occhi
chi sa di morire, di essere scelto,
offerto, sacrificato
chi farà della sua vita un dono
vincerà l’amore quando all’amore
non importerà vincere.
Nico Mauro con Ti parlo con il pane (Les Flâneurs, collana Icone) ci parla di un naufragio, di una ricerca biblica, del padre, per specchiarsi, e essere a sua volta padre, dopo aver compiuto una catabasi che diventa un’immersione e una fagocitazione, come Giona nel ventre della balena. Un poema del padre che si snoda a partire dal sacrificio del buio, quella discesa infera che induce a guardarsi dentro senza riserve e senza difese.
come la notte
Di padre in padre
i segni sull’agenda
archivi, ritratti di giorni,
come la notte.
Raffaele Niro con Viandanze, Poema umano (Raffaelli), ci porta a riflettere sulla migrazione e sull’erranza, su una società baumanianamente liquida, che corre verso un futuro di dissolvimento, mentre dovrebbe prima di tutto ancorarsi al passato. Poema umano è una forma davvero sperimentale di poesia, che si fonde con una narrazione, dove il linguaggio è semplice e diretto senza tuttavia essere discorsivo, diviene piuttosto un susseguirsi di immagini che in una lingua oracolare conducono in un viaggio nel deserto.
Sono nomade
da millenni
nelle canzoni delle sabbie
ci sono io
mobile…
nel letto del fiume
fermo
Mauro Marino con Di politica e d’amore (Spagine) unisce poemi scritti tra il 2002 e il 2020 raccolti in varie sezioni: Non c’è, Torcito e altri luoghi 2002-2003, La volpe, il riccio e la civetta, Per strada – estate 2003, Avvenute parole, Laboratorio Urbano Aperto San Cassiano – Bosco dei Paduli, agosto 2004, Salvo in bozze, Dei travagli e degli amori perduti, settembre-novembre 2009, Le cose della casa 2016 – Per l’archivio della superficie di Elena Campa, Da un combattimento, novembre 2007 – Ospedale Vito Fazzi – Lecce, Le cose nuove 2018-2020, Per quale destino? Intorno al tavolo del Centro DCA 2029-2020, C’è 2020. È un libro che parla di luoghi sacri, di incontri destinali, di ospedali, di cooperative sociali, di storie ritrovate – storie di crolli e ricomposizioni – da tenere insieme. Una poesia di osservazione, di presenza nelle cose, e con le cose, nell’accadere. Tra i suoi maestri Danilo Dolci, Antonio Verri, Cesare Ronconi, Mariangela Gualtieri, essendo stato per tutti gli anni Novanta immerso nel ritmo vitale del Teatro della Valdoca.
Ci sono luoghi
dove guardare la vita
trova parole
soffi che muovono, l’animo,
il sentire degli altri.
Tra i poeti organizzatori delle serate salentine c’è Alessandro Cannavale, il cui ultimo libro, L’agguato della tenerezza (Besa) è un testo di lotta, un modo per guardare al margine, guardare nelle ferite del corpo sociale, contrastare ciò che è ingiusto. Una fede, dunque, negli oppressi, nelle voci dimenticate, il lavoro dei precari, l’incanto raggiunto senza cercare – tale è l’incanto in sé – la ricerca avviene nell’inconscio. Sento in questa modalità di scrittura, che arriva a dire solo una parte del dicibile, il bagliore del non detto, ciò che non è in scena, dove i destini ultimi si manifestano per un solo istante. È il coraggio della condanna di ogni sopraffazione, mentre il cielo tace.
Se per un istante
volessero parlarsi
i destini degli ultimi
come stelle impazzite
nel cielo d’inverno,
intenso sarebbe il bagliore:
per il latifondo della retorica
sarebbe davvero finita.
Vi sono molti altri autori che hanno preso parte alle serate organizzate da Alessandro Cannavale, Mauro Marino e Livio Muci, che potrò facilmente elencare, senza aver tuttavia ancora letto i loro libri, con l’auspicio di poterlo fare presto: Marcello Buttazzo, Simona Cleopazo, Marco Esposito, Serena Mansueto, Emilio Nigro. Per fare il punto sulla poesia del sud occorre indubbiamente leggere i mostri sacri di queste terre meravigliose e scolpite da una luce chiarissima, da un fervore di sentimenti e linguaggi che si tramandano e mutano senza perdere le radici, i riferimenti religiosi, lo sguardo acceso al paesaggio. Tra i maestri mi vengono in mente Alfonso Gatto, Rocco Scotellaro, Beppe Salvia, Tommaso Landolfi, Vittorio Bodini, Claudia Ruggeri, Antonio Verri, Salvatore Toma, Leonardo Sinisgalli, Danilo Dolci, Lucio Piccolo, Giovanna Sicari, Jolanda Insana, Gregorio Scalise, Assunta Finiguerra, Michele Sovente, Girolamo Comi, Gabriele Frasca, Alfonso Guida, Domenico Brancale, Maria Attanasio, Gino Scartaghiande, Luigia Sorrentino, Stelvio Di Spigno, Antonio Prete, che ho avuto l’onore di incontrare lo scorso quattro settembre alla biblioteca Bernardini, in occasione della presentazione del libro Convito delle stagioni (Einaudi).
Leggere Il Convito delle stagioni nei mesi salentini è stato un ritorno alla tradizione lirica. Leggo una meravigliosa lingua novecentesca, che ha il respiro dei classici, e attraverso la scansione delle stagioni, dei luoghi, l’attenta osservazione della natura, la misura esatta tra umano e alterità rende il suo autore inimitabile. La metrica, il sentimento profondo di appartenere alla terra e al tempo quanto allo spazio e all’eternità, le immagini di un sud luminoso e sanguigno lasciano cadere il sipario che nasconde gli anfratti bui dell’esistenza, eppure Prete non insiste neppure su quelli, raggiunge invece l’equilibrio esatto della voce – caratteristica della grande poesia – tra luci e ombre, dove le dune increspate dal vento non hanno alcun disegno d’ombra umana.
Nessun nome
FOLLETTO: Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla…
Giacomo Leopardi
Nessuno può ascoltare la musica
degli oceani. O contemplare la gloria
siderale. Le dune, increspate dal vento,
non hanno alcun disegno d’orma umana.
Le estati incendiano rovine di metropoli.
Nessuna chiatta naviga sui fiumi.
Non c’è un nome per il giglio o l’azalea,
per la neve, la collina, la foresta.
Non c’è parola che dica ginepro, tramonto, cervo,
che dica luce, finestra, pietra, non c’è parola
che congiunga il vedere e la bellezza.
La primavera c’è ancora, senza il nome
di primavera. Nell’autunno arrossano
gli aceri senza i rintocchi della parola autunno.
Senza un nome le stelle vanno nel vortice
del loro fiammeggiante viaggio.
Una voce allontana la visione.
«Come proteggere», dice, «quel vincolo
che lega insieme il visibile e la lingua?»
E ancora: «Come difendere quel che rimane
della terrestre perduta integrità?»
Uno sguardo all’ultimo poemetto di Luigia Sorrentino: Piazzale senza nome (La gialla oro, Pordenonelegge, Samuele editore, 2021) che contiene i luoghi della disperazione, della violenza. Questa dispensa di civiltà incarna lo spleen baudelaireiano nella sua contrapposizione all’ideale. Un’ebrezza, una forma di dipendenza guida questi personaggi. Il panorama non è attuale, la realtà qui ripercorsa, con l’eleganza e la crudezza del sogno, è legata agli anni di piombo. Si percepisce uno scollamento tra i ragazzi e gli adulti, una dimensione plumbea, falsata. La dipendenza riguarda tutti i protagonisti del libro, l’unico che sembra non esserne travolto è il giardiniere, che ha cura per le piante. La passione, la teatralità richiamano Giovanni Testori: una via Crucis. Nel lirismo di Luigia Sorrentino troviamo il viaggio, l’ascolto delle voci fuori dai bordi, una lingua raffinata, scavata fino all’essenziale. Tra le ispirazioni, Rilke, Cvetaeva, Yourcenar.
la notte si era accasciata
la giovinezza,
l’avevamo trascorsa
nel peso della sua immortale rovina
noi che non eravamo mai stati
del tutto vivi all’amore
c’eravamo concessi al freddo
stretto nelle narici, nelle vene
avevamo perduto tutte le parole
la forza di una generazione
Se intendessimo il sud come un modo di sentire, non solo come un luogo, tra i maestri non è possibile non citare Alfonso Guida, che con Anfora clandestina (Dante&Descartes), libro di sonetti e acquerelli di Giuseppe Caccavale, in cui si riconoscono i luoghi lucani, gli angoli della casa di Alfonso, le strade di San Mauro Forte, il bosco di Accettura, affronta la grande trasformazione del dolore personale in paesaggio. Ho ascoltato questa voce nel tempo e oltre il tempo, che attraversa Alfonso Guida; il suo saper stare, anche nell’angoscia, senza cercare vie di fuga. La pace trovata nell’aderenza al paesaggio, lo sguardo ai vigneti, alle barche, ai dirupi infuocati, ai rami, ai nomi delle piante, ai pastori, ai ragazzi, agli amori. Il silenzio claustrale, la parola che sgorga dal silenzio, la parola esatta, la precisione metrica e la capacità di evocare emozioni che appartengono alla sfera del profondo. Riconosco la trasformazione di tutte le grida in incantesimi, l’accettazione della morte nella vita, della vita che non ci appartiene, l’abnegazione, lo spirito. Forse quella pace ritrovata non s’incarna nella chiusura della voce alle ombre, ma nel saperle trasformare, nel cedervi, e abbandonarvisi. Che sia questo canto apertura per chi non ha saputo o potuto dire, una devozione alla bellezza colta nei dettagli del visibile e dell’invisibile.
Nel fallimento ho trovato la quiete.
Nel duro incastro della voce, ho scritto.
Tra impulso e spazio, ho appreso che il finito
già prevede Dio e rinterra la notte,
lo stupore del suo gelo iniziale.
Rintocca il male e nessun santo salva
la barca insabbiata. Il gorgo si estende.
Gli occhi allagano la terra di buio.
Rovina il muto guastarsi delle esche,
rovina il muto ghiacciarsi delle ore.
S’avventa un sole crudele e pietrifica
gli alfabeti di cenere che i lupi
parlano quando, ebbri di sangue, raspa o
pietre e notte sul ciglio delle rocce.
Mi vengono in mente tre autori di tre sud diversi, ma ciascuno a modo suo ha fatto della parola ricercata, dell’ebrezza della lingua, dell’ispirazione mistica la cifra della sua poetica, e sono in qualche modo legati a Alfonso Guida. Il primo è Gianpaolo Mastropasqua, che con Danza di amore e duende (puntoacapo) compie un viaggio nell’eros con un preciso riferimento alla potenza espressiva di Garcia Lorca e ai temi fondamentali di Rainer Maria Rilke. Racconta di un essere che è ragazzo e abisso, poesia incarnata di alfabeti estremi, destino e duende. Un lavoro sulla potenza spirituale e trasformante dell’Eros, istinto di vita e rinascita, in compresenza delle miriadi di piccole morti quotidiane, un poema segreto e luminoso per chi sa attraversare i sette piani dell’esistenza rimanendone marchiato e indenne nel viaggio oltre il visibile e l’effimero presente per divenire atleta dell’ignoto con una nuova consapevolezza negli occhi e una inaudita lingua da combattimento.
Totemica
Mi hai chiamato dalla casa dei falchi
prima che lanciassi il mio corpo sterminato
in pasto all’aria, prima che nutrissi i miei piccoli
con l’ultimo sangue, e vedessi i loro versi
divenire carne da macello, nel loro imbrunire
strappato, e decidessi di cucirgli la bocca
all’ora di punta, per un’estate definitiva.
E sono giunto al passo perfetto
nella danza di un dio ferito a morte
fino alla fine ti chiederò di sposarmi;
la musica era una mischia, spostavo
i corpi per farmi spazio, per bere
dalla tua bocca il mettere all’inferno
battere il banco e gli avvoltoi alle casse.
Ma tu non avevi più un minuto, un battito,
ho baciato l’universo, sono caduto.
Assenza è piovere lento di spiriti al fianco
sarebbero accaduti mondi, cascati come ruscelli
nella valle mormorante, dotti e distesi
un giubilo mozzafiato, chilometri 30.
Ma hai raccolto l’autunno in un cappotto
ermetico, chiuso fino alle labbra del vento
che incede l’anima al diavolo, hai legato
i capelli alla luna, non eri più tu, notte.
Il secondo è un poeta campano che vedrete poco in giro, perché vive ritirato, in una forma d’ascesi, tra ferita e canto, tra musica e studio furioso, tra vertiginose altezze e scorci di umanità, dolcezza e ineffabile bellezza. Lui è Andrea Pedicini, la sua prima silloge s’intitola Tra la ferita e il canto (Ensemble), è un libro che non può parlare di nulla poiché il suo oggetto è la parola stessa, ma anche qui ritroviamo l’elemento che tutte queste scritture tanto diverse accomuna: l’unione tra spirito e paesaggio, e una dislocazione rispetto al tempo presente. In Pedicini echeggiano Paul Celan, Beppe Salvia, Cristina Campo, Roberto Carifi. La sua cifra è una lingua classica, novecentesca, ricca di arcaismi, dove il significante avvolge e trapassa il significato.
Mi sono veduto allo specchio, l’ombra
aurea di mio padre nell’astuccio, la
mistica del volto.
Le nenie al pianoforte, gli anni verdi
imbalsamati sotto i polpastrelli.
Fumavi alacremente le MS,
dicevi erano italiane e avevano
nell’acronimo il significato di
Messis Summa, dal latino.
Gli anni ergastolani al crocefisso, il
Kyrie Eleison sgraffiato nella gola, le
novene di Natale, fantasmagorie
degli organi celesti.
Pativi nella tosse il
ludibrio del respiro.
Le composizioni monotematiche,
i tafferugli della disciplina.
Inchiavardavi la porta dell’altrove
dove un’altra vita si espandeva con
l’algebra ingannata, lo stesso esilio.
Una furtiva resa nel remoto
giugno tumescente di calore, ti
accompagnò tra la ferita e il canto.
La terza è la tarantina Rosaria Ragni Licinio che, con Viatico per peccatori (Ensemble), raggiunge una visione campiana, una ricerca meticolosa del linguaggio, resistendo alla sofferenza al modo dei mistici, Weil, Campo, Eckhart. La ricerca della grazia, nel rinascere da un dolore innominabile le appartiene, come la meraviglia sorgiva di una bellezza insaziabile che supera l’urlo nella soavità di un canto. Forse la poesia resta perché resta una forza nella fragilità, una luce corrusca nella tenebra nerissima di un dolore che divide il corpo dall’anima, e di cui non si può parlare. Il proibito, l’indicibile si fa poesia, si fa racconto che non svela e urlo capace di tacere. Qualcosa si oppone al mutismo del dolore; qualcosa di più forte resiste al dissolvimento. Il mostrarsi di Dio nell’assenza, oltre l’inferno. L’attesa di una resurrezione. Questa capacità di scolpire un’idea di mondo, al principio e alla fine del buio.
Nessuna carne
la caduta del non essere
soltanto il rumore
la cosa che resta.
Chi muore non assomiglia a nessuno
– nomina l’inizio – ha un altro passo
tolti i giorni alla paura
ruba la notte e le infelicità
d’improvviso spargono stelle.
È successo anche a me
voler recitare la fine
e poi ricevere un pugno.
Infine vorrei segnalare il libro di Francesco Cagnetta, Insolvenze (La Vita Felice), un poema che fa riflettere sulla necessità pessoana di dissolversi, con pennellate sottili alla Mario Benedetti, senza quasi mai invischiarsi con un palese racconto di sé e senza tuttavia omettere le ragioni autobiografiche, ci regala un affresco di walseriana sparizione, di cioraniano desiderio di non nascere, all’interno del quale possiamo rivalutare il concetto di fallimento, in una società che non permette di lasciare nulla di insoluto, neppure la propria ombra. La traccia di Cagnetta, per altro, è profonda e tagliente e s’inscrive nella più nobile tradizione poetica italiana.
Deducibile come il tempo scaduto
che ci prende per mano e ci introduce
nel buio primordiale dei chi siamo.
Deducibili come noi che ci moltiplichiamo
per sottrazione, nella falsa illusione
di bastare a noi stessi.
In chiusura, vorrei citare tutti i poeti che hanno partecipato all’evento LunedìPuglia, organizzato da Dario Melissano, nel corso dell’intera estate, all’ingresso della vineria letteraria Amore di Puglia, nei pressi del castello di Otranto, luogo incantato e fantastico: Giusy Agrosì, Giuseppe Semeraro, Giuseppe Greco, Anna Rita Merico, Anita Piscazzi, Francesco Mola, Claudia Di Palma, Gianni Seviroli, Giovanni Leuzzi, Giorgia Mastropasqua, Vanni Schiavoni, Luca Crastolla, Giuseppe Zilli, Ritanna Attanasi, Paola Maritati. Tra gli autori del sud, tra l’altro, è importante oggi leggere Bruno Di Pietro, Paolo Polvani, Giuseppe Todisco, Antonio Bux, Sergio Bertolino, Francesco Iannone, Mattia Tarantino, Lorenzo Pataro, Francesco Terracciano, Nicola Vacca, Vittorino Curci, Paolo Castronuovo.
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