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Il senso disvelato del sacro
Volendo parafrasare le parole di Roland Barthes, strutturare un significato intorno agli indizi sfuggevoli del mondo fenomenico farebbe entrare gli umani in connessione con la dimensione oscura e ambigua degli dèi.[1]
Noi ci muoviamo nel mondo grazie ai nostri sensi, riusciamo a percepire in maniera istintiva le dimensioni dello spazio grazie alla vista e all’udito, decodifichiamo gli indizi in maniera istintiva – il medesimo comportamento avviene presso gli animali – per difenderci da una minaccia o per inseguire una promessa di appagamento. Ma cos’è a renderci veramente umani? Su quale piano avviene la distinzione tra homo sapiens ed essere animale?
Non basta di certo liquidare la questione affermando che siamo esseri dotati di un’intelligenza superiore: l’intelligenza, da sola, non basta a farci districare nel mondo, essa ha bisogno dell’istintività sensoriale, ed è questo il focus della questione.
Ecco, gli animali vivono la loro esperienza sensitiva con il mondo mettendo in moto, in maniera del tutto inconsapevole, un meccanismo di intelligenza istintiva: riescono a decifrare gli indizi per un mero istinto di sopravvivenza e appagamento dei bisogni. Noi umani, invece, facciamo di più: con la nostra intelligenza riusciamo ad individuare anche il significato nascosto dietro agli indizi, agli accadimenti del mondo. In pratica diamo, o per lo meno ci illudiamo di dare, un senso alla realtà fenomenica.
Utilizzando i nostri sensi noi mettiamo in moto un meccanismo di intelligenza che non serve a null’altro che a soddisfare un bisogno di conoscenza fine a se stessa.
Questi presupposti ci espongono, per logica, ad una serie di interrogativi.
Se diamo per scontato che tutto ciò che è nascosto dietro ai fenomeni dell’universo sia espressione di una dimensione sacrale degli dèi e che il significato che diamo alle cose sia sinonimo di conoscenza, allora possiamo affermare che la conoscenza è la chiave di accesso alla dimensione divina.
L’essenza di dio sarebbe nascosta dietro tutte le cose e si incarnerebbe, dunque, nel significato che gli esseri umani danno a ciascuna di queste cose.
Ma cosa significa veramente ciò?
Forse che più conosciamo la realtà fenomenica e più diamo significato al mondo, più ci avviciniamo a dio? Ma si può davvero pensare di arrivare a conoscere l’universo nella sua totalità? È paradossale pensare di svelare l’infinito. E inoltre, come facciamo ad essere certi di non aver infranto una regola dell’armonia del Tutto attribuendo ogni volta un significato alle cose? Non è che ogni volta stiamo violando l’intimità del sacro svelandone, pur se parzialmente, il mistero? E infine, siamo davvero sicuri che in quel significato ci sia veramente dio?
Torniamo alla genesi dell’universo e affidiamoci ai racconti del mito e della scienza.
Marius Schneider, antropologo ed etnomusicologo tedesco, ad esempio, ne La musica primitiva ci racconta questo:
[…] Tutte le volte che la genesi del mondo è descritta con sufficiente precisione, un elemento acustico interviene nel momento decisivo dell’azione. Nell’istante in cui un dio manifesta la volontà di dare vita a se stesso o a un altro dio, di far apparire il cielo e la terra oppure l’uomo, egli emette un suono. Espira, sospira, parla, canta, grida, urla, tossisce, espettora, singhiozza, vomita, tuona, oppure suona uno strumento musicale In altricasi egli si serve di un oggetto materiale che simboleggia la voce creatrice […][2]
La scienza, dal canto suo, sostiene che all’origine dell’universo ci sarebbe una primordiale esplosione (Big Bang) dalla quale si sarebbe generata la materia.
La tradizione giudaico-cristiana, invece, fa risiedere nell’origine la Parola. “In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio”: così scrive in greco antico l’apostolo Giovanni nel suo Vangelo.
Che sia canto, esplosione o parola, l’universo nascerebbe dentro a un suono cui l’uomo ha attribuito, col tempo, un significato.
“Credo sia assolutamente impossibile concepire il significato senza l’ordine”[3] – sostiene l’antropologo francese Lévi-Strauss, lasciandoci ben supporre che sono gli uomini ad ordinare il mondo attraverso l’elaborazione e la strutturazione del significato.
Più è andato avanti il progresso più è venuta delineandosi la netta separazione tra il mondo disordinato degli dèi e quello ordinato degli uomini: attraverso un esercizio di intelligenza, l’uomo è riuscito a dare ordine al suono di dio scoprendo, conseguentemente, l’idea del sé e della morte.
La stessa modalità di mettere ordine nell’oscurità sarebbe avvenuta nel mondo della Grecia arcaica. A raccontarcelo è Giorgio Colli nel suo bellissimo libretto, La nascita della filosofia, dove viene sostenuto che il processo dello sviluppo della conoscenza e dell’intera sapienza occidentale prenderebbe origine dalle parole dell’oracolo di Delfi.[4]
La conoscete la storia della sacerdotessa Pizia e di Apollo raccontata dal mito?
Siamo al tempo dei sofoi, e nella Grecia continentale, a Delfi, si celebrava il culto del dio Apollo: orde di persone vi si recavano a consultare l’oracolo nel tentativo di definire il senso della propria vita e delineare un percorso per il proprio futuro. La sacerdotessa Pizia, invasata dallo spirito divino, appariva sulle porte del tempio pronunciando parole dal suono chiaro ma dal significato oscuro. L’oracolo di Apollo si presentava sempre come un enigma che il fedele era chiamato a sciogliere: quelle parole ambigue potevano significare una cosa e il suo contrario. I divinatori, dunque, erano gli stessi fedeli che avevano accettato la sfida di Apollo per mettere in pratica lo scioglimento del suo enigma.
Sarebbe questo, secondo Colli, un vero e proprio duello dell’individuo contro dio ed anche il primo passo verso la costruzione della sapienza greca. Dalla sfida tra uomo e dio si sarebbe passati a quella tra uomo e uomo: siamo alla dialettica, la fase in cui la lotta avveniva tra sapienti, tra l’affermazione di un principio di verità e la messa in gioco della sua contraddizione. Dalla dialettica si sarebbe arrivati alla retorica e da quest’ultima all’era della scrittura e dunque alla filosofia.
E forse sarà proprio la nascita della scrittura a sancire un ulteriore allontanamento dell’umano dal divino, a creare una precisa linea di demarcazione tra la sfera della sapienza acquisita e quella della sapienza originaria. Platone nel Fedro ci parla del dio egiziano Theuth che fa dono della scrittura agli uomini, soffermandosi, particolarmente, sulle parole del faraone Thamus secondo il quale la scrittura fornirebbe soltanto una sapienza apparente e falsificherebbe la reale natura delle cose.
Il senso della vita per gli umani è venuto modificandosi nei secoli. Se nel passato l’uomo viveva in simbiosi con la natura, dentro una significanza immanente e una significazione subordinata ad un sistema sacrale, oggi il progresso sembra spingerci verso nuove mitologie tra cui quella della desacralizzazione antropologica. La nuova società globale ponendo la ragione e il consumo al centro di tutto sancisce il distacco totale dell’uomo da dio. Nemmeno la consapevolezza della finitudine sembra riconciliare l’uomo al sacro, e le ritualità che un tempo servivano a rinsaldare l’essenza umana alla dimensione divina sembrano essersi trasmutate nei riti ossessivo-compulsivi che devastano la psiche dei cittadini del mondo. Persino la morte sembra dimenticata dalla ragione, incentrata ormai su una falsa illusione di autogenerazione e trascendimento dei suoi stessi confini. La ragione che sta soltanto con la ragione annienta il sacro e l’innato istinto di trascendenza dell’uomo.
Non sarà che il compimento della sapienza occidentale sta per implodere dentro l’idolatria soggettivista? Non sarà, forse, che l’uomo ha divorato dio rimestandolo nella tracotante ideologia della significazione?
Ritrovare un ancoraggio, sbarazzarsi del peso del significato, recuperare la memoria del suono della voce di dio può essere una chiave per la salvezza. La grandezza dell’uomo non risiede esclusivamente nell’intelligenza elaborativa ma nell’istinto di trascendenza verso la fonte originaria del Tutto.
Il traghetto sul quale viaggiavo entrava nel porto del Pireo. Io ero appoggiato sulla ringhiera e guardavo verso prua: due gabbiani si erano tuffati nelle pieghe tracciate dal vento, planavano in pace, senza fatica, e beati, intonavano un suono che io non riuscivo a decifrare, un canto bellissimo, arcaico. Più li vedevo planare in rotta verso la città di cemento, più sentivo le loro modulazioni sonore, più provavo invidia per loro. Ne invidiavo le volate e le impicchiate, lo spostamento repentino, la voce potente. Rividi in loro un’innata e inconsapevole sacralità, quella che io, cittadino dell’Occidente, avevo perduto inseguendo l’ossessione del significato. Volavano dentro al sacro i gabbiani, felici, inconsapevoli del loro destino, senza nessun passato e nessun futuro. Immersi dentro uno spazio eterno di gioia e verità. Erano dentro dio senza saperlo, mentre io vedevo dio e ne sentivo il rimpianto. Capii che era stata la mia intelligenza ad avermi tradito, ad avermi reso infelice. Poi chiusi gli occhi per sentire meglio, accordai l’anima mia alle trame di quel canto idilliaco e mi riagganciai alla memoria sonora. In un attimo eterno ritrovai finalmente la via.
[1] Roland Barthes, Ascolto, saggio pubblicato nel volume L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino, 1985
[2] Marius Schneider, La musica primitiva, Adelphi, Milano 1993
[3] Claude Lévi -Strauss, Mito e significato, Il Saggiatore, Milano 980
[4] Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975
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