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Violenza o non violenza: una questione di prospettive

In una scena di una delle più recenti serie TV su Sherlock Holmes prodotte dalla BBC (con Benedict Cumberbatch nei panni di Sherlock e Martin Freeman nel ruolo del Dr Watson), entrando a casa di Sherlock, Watson trova il detective a testa in giù. Watson allora chiede a Sherlock che cosa stesse facendo e perché fosse a testa in giù e Sherlock gli risponde più o meno così: “Sto guardando il problema da un’altra prospettiva”.
Introduzione
In una recente intervista al canale YouTube Destinazione Libertà, Marco Guzzi ha posto nuovamente una domanda interessante e che richiederebbe una attenta riflessione sia individuale che collettiva. La domanda è la seguente, “Perché non riusciamo ad animare un movimento rivoluzionario non violento all’altezza dei tempi avendone tutte le ragioni?” (Guzzi and Destinazione libertà, 2024). Già perché? Le varie guerre in corso, nuove e antiche, e il susseguirsi di crisi caratterizzanti la società di oggi – economico-finanziaria, politica, sociale ed anche sanitaria – ci dicono chiaramente che un cambiamento di rotta sarebbe alquanto necessario ed urgente.
Tuttavia, rivedendo ed analizzando le diverse forme di protesta e i movimenti stessi di protesta, che nel corso degli anni si sono venuti a creare, è possibile notare come effettivamente non siano riusciti ad apportare nessun cambiamento reale. Qui mi riferisco in particolare alla modalità di relazione tra gli individui, in quanto credo sia uno degli aspetti chiave su cui la società si fonda, si sviluppa e si proietta anche all’esterno di sé. Pensiamo ad esempio al movimento del #MeToo, iniziato negli USA e nel mondo anglofono più in generale e diffuso ormai a livello globale: se da una parte era iniziato per portare attenzione a quella che si potrebbe definire una distorsione dei rapporti tra l’uomo e la donna, dall’altra, è finito per diventare un altro strumento per acuire ulteriormente queste distorsioni con conseguenze importanti ed anche parecchio negative.
O ancora, pensiamo al cosiddetto progetto di decolonizzazione dei programmi di studio nelle università, anche questo iniziato negli USA e nel mondo anglofono e diffuso praticamente ovunque. Anche qui, l’intento, da una parte, era quello di dare spazio a voci intellettuali ed accademiche diverse e che tendenzialmente non venivano messe in risalto o magari rimanevano, per così dire, chiuse, all’interno del loro Paese o regione del mondo d’origine, particolarmente nel cosiddetto ‘Sud Globale’. Invece, si è trasformato anche questo in un altro strumento per acuire ed inasprire le distorsioni relazionali tra le cosiddette ‘minoranze etniche’ e più in generale i popoli non occidentali e i popoli cosiddetti ‘occidentali’ (prevalentemente bianchi).
Quindi, in sostanza, finora non abbiamo visto un cambiamento di pensiero, di logica che viene poi applicata nella vita di tutti i giorni, nelle relazioni tra individui e tra gruppi di individui. L’unico cambiamento cui abbiamo assistito e cui assistiamo quotidianamente è semplicemente il tentativo di rovesciare le posizioni all’interno delle logiche di potere tra chi detiene il potere e chi non lo detiene. In altre parole, i vari movimenti di protesta che abbiamo visto fino a questo momento non hanno in realtà ancora proposto una logica diversa dalla logica di potere e di quella del noi contro voi, ma ognuno di questi si propone come colui cui spetta la gestione del potere – perché migliore dell’altro movimento, dell’altro gruppo e/o di coloro che in quel determianto momento detengono il potere – e cui gli altri devono semplicemente obbedire proprio in virtù del fatto che questi si propongono come i ‘Migliori’, i ‘Giusti’. Perciò la domanda che Guzzi pone, nasce spontanea: perché non si riesce a proporre nulla di veramente nuovo e quindi non violento?
Con questo articolo vorrei offrire una riflessione, contribuendo a far luce sul perché non si riesca a proporre qualcosa di veramente nuovo, non violento e quindi positivo. Per fare ciò vorrei partire proprio dal brevissimo paragrafo posto prima di questa sezione introduttiva e riportante una scena di una delle più recenti serie televisive su Sherlock Holmes prodotte dalla BBC e vorrei unirlo ad alcune argomentazioni che ho tratto dalla psicologia della Gestalt (che naturalmente è molto più articolata di come la presento qui).
Cornici interpretative
Come riportato nel paragrafo iniziale, quando il Dr Watson trova Sherlock a testa in giù, gli chiede giustamente perché si fosse messo in quella posizione. Sicuramente, anche noi avremmo la stessa reazione di Watson se, tornando a casa o andando al lavoro, trovassimo qualcuno messo a testa in giù. Lo troveremmo strano, anche bizzarro. Perché? Questo accade perché come un po’ tutti i rami di psicologia ci spiegano, il nostro comportamento dipende da quelle che sono state chiamate cornici cognitive o anche credenze cognitive cui noi facciamo sempre riferimento in maniera prevalentemente inconsapevole (e.g., Welch Larson, 1994). In sostanza, il nostro cervello riceve troppi stimoli dall’ambiente circostante, stimoli che non possono essere elaborati tutti contemporaneamente. Dunque, i nostri processi cognitivi, che hanno il compito di attribuire un senso a ciò che ci circonda, selezionano alcuni di questi stimoli, quelli che vengono reputati essenziali per capire l’ambiente in cui siamo immersi e ciò che accade attorno a noi, creando così delle cornici interpretative attraverso le quali, appunto, possiamo comprendere l’ambiente in cui ci troviamo e prendere così le nostre decisioni (e.g., Sclavi, 2003). La psicologia della Gestalt, poi, pone particolare attenzione a come avviene il processo di formazione di queste cornici.
Come la parola stessa suggerisce (Gestalt in tedesco significa forma), la psicologia della Gestalt spiega che una volta che gli stimoli esterni sono stati selezionati, quindi una volta che è stata fatta una distinzione tra elementi chiave per capire l’ambiente circostante ed elementi invece secondari, che possono cioè essere lasciati in secondo piano, questi vengono poi organizzati in uno schema – in una forma – cui viene attribuito un significato ben preciso (e.g., Henle, 1979; Sclavi, 2003, pp. 23–28). Inoltre, a tutti gli elementi di questa cornice interpretativa viene dato un significato ben preciso e in base a questo significato vengono messi in relazione tra di loro. Per capire meglio questa parte del ragionamento Gestaltico, secondo me è utile fare riferimento a Theodore Roy Sarbin, uno psicologo e professore di psicologia, noto, tra le altre cose, per essere stato pioniere di quella che è stata chiamata psicologia narrativa.
Sarbin (1986) spiega che per comprendere ciò che ci circonda, noi esseri umani creiamo delle storie, cioè creiamo delle narrazioni, che ci permettono di attribuire un senso alle cose attorno a noi e a ciò che ci accade. Pertanto, si potrebbe dire che l’organizzazione degli stimoli esterni in cornici, schemi, o forme – usiamo il termine che più ci aggrada – non è altro che la creazione di una narrazione, di una storia, in cui ogni elemento ha un significato o un ruolo specifico. Inoltre, in base al significato che viene attribuito ad ogni singolo elemento, la cornice interpretativa ci suggerirà anche che tipo di relazioni ci sono e ci possono essere tra questi elementi e quindi, di conseguenza, ci suggerirà anche che tipo di comportamenti adottare in determinate situazioni. Tuttavia, come spiega Marianella Sclavi, antropologa che ha usato la psicologia della Gestalt per portare avanti i suoi studi, una singola cornice interpretativa avrà un numero limitato, per così dire, di suggerimenti comportamentali da adottare (Sclavi, 2003). Questo presenta almeno due implicazioni.
La prima è che tutto ciò che non rientra dentro la cornice interpretativa di riferimento, viene considerato strano, impossibile, bizzarro, anormale (Sclavi, 2003, pp. 26–27). Proprio questo ricorda la prima parte del dialogo tra il Dr Watson e Sherlock Holmes: il Dr Watson domanda a Sherlock che cosa stesse facendo e perché fosse messo a testa in giù perché, da come si può dedurre, secondo il Dr Watson, quella postura era strana. Cioè, si potrebbe dire che lo stare a testa in giù non era tra le modalità comportamentali previste dalla cornice interpretativa di riferimento del Dr Watson. La seconda implicazione è che, se non siamo consapevoli del fatto che le nostre cornici interpretative di riferimento sono solo una fra tante cornici interpretative diverse tra loro, cioè, sono solo un modo fra tanti di attribuire significato a ciò che ci circonda, finiamo per credere che i suggerimenti comportamentali che la nostra cornice interpretativa di riferimento ci fornisce, siano gli unici possibili e che quindi una volta esauriti, non ce ne siano degli altri. E qui andiamo alla seconda parte della brevissima scenetta tra il Dr Watson e Sherlock Holmes.
Alla domanda di Watson, Sherlock risponde che sta guardando il problema da un’altra prospettiva. In altre parole, si potrebbe dire che ciò che Sherlock sta facendo è scomporre la sua cornice interpretativa di default, creandone un’altra. Infatti, come spiega ancora la Sclavi (2003), se, ad esempio, poniamo come essenziali gli stimoli esterni precedentemente considerati secondari, mentre mettiamo in secondo piano quelli che in un primo momento erano stati considerati stimoli chiave, vedremo che si formerà un’altra cornice interpretativa, che avrà un altro significato, che proporrà diverse modalità relazionali tra gli elementi che la compongono – elementi che a loro volta avranno assunto un significato diverso – e che quindi ci suggerirà strade comportamentali diverse (vedi anche Sclavi, 2008).
La Sclavi (2003) aggiunge che nella vita ci sono delle occasioni – non sempre, ma esistono – in cui è necessario uscire appunto dagli schemi, dai propri schemi mentali, cioè, guardare le cose da una prospettiva completamente diversa perché quella che usiamo normalmente non ci è d’aiuto. Questi sono cambiamenti che la Sclavi chiama di tipo 2. Le situazioni che richiedono un cambio di cornice interpretativa sono spesso quelle situazioni che sembrano non avere nessuna via d’uscita, situazioni che sembrano non avere alcuna soluzione. Quindi, per ritornare al dialogo tra il Dr Watson e Sherlock, trovandosi in una sorta di vicolo cieco in una delle sue indagini, il detective inglese ha provato a rimescolare le cose guardandole sotto un altro schema interpretativo, facendo quindi qualcosa che ‘normalmente’, cioè secondo la (sua) maniera usuale di vedere le cose, era considerata ‘strana’.
Una questione di prospettive
Per concludere, ritornando alla domanda iniziale, probabilmente uno dei motivi per cui non si è ancora riusciti ad animare un movimento rivoluzionario non violento all’altezza dei tempi è da ascrivere al fatto che non si è riusciti ad uscire dagli schemi mentali usuali. Prima ho menzionato le logiche di potere, che vengono sempre riproposte con l’unica differenza che chi le ripropone, propone esclusivamente il cambio di chi sta al vertice, cioè di chi detiene il potere. Quindi, per usare la terminologia della Sclavi, quello che viene proposto è semplicemente un cambiamento di tipo 1, cioè un cambiamento che mantiene la stessa cornice interpretativa, e non un cambiamento di tipo 2 e cioè un cambiamento di schema mentale.
Questo ci aiuta anche a capire perché sembra che non si riesca ad uscire dalla logica distruttiva del noi contro voi. Se infatti ci guardiamo intorno e se per esempio guardiamo ai conflitti armati attualmente in corso, l’unica via relazionale possibile tra coloro che si identificano come nemici l’uno dell’altro è quella che potremmo chiamare dell’inimicizia. Via che, nel migliore dei casi, porta ad una forma di tolleranza, o forse sarebbe meglio dire di sopportazione, dell’esistenza altrui e che, nel peggiore dei casi, quando ad un certo punto si supera una certa soglia, un certo limite di sopportazione, porta allo scoppio della violenza fisica vera e propria, che può terminare o con la sottomissione di una delle parti all’altra o con l’annientamento di una delle parti (e.g., Sclavi, 2003, pp. 25–28).
Se, invece, come spesso si sente dire, l’obiettivo è evitare il verificarsi di queste situazioni distruttive e si vuole veramente portare qualcosa di nuovo, intraprendendo una strada che non ci porti come individui e come società all’autodistruzione (quindi, in sostanza, se si vuole davvero invertire la rotta nella quale sembra che ci troviamo al momento), secondo me, una strada è quella di provare a fare un esercizio di scomposizione dei nostri schemi interpretativi usuali e provare a vedere persone e cose attorno a noi da un punto di vista completamente diverso (magari proprio mettendoci a testa in giù come Sherlock!). D’altra parte, nelle varie tecniche psicoanalitiche/psicoterapeutiche spostarsi fisicamente da un lato ad un altro di uno spazio, serve proprio a guardare il problema che si sta analizzando da una prospettiva diversa, con occhi diversi, perché questo ne facilita la risoluzione. Dunque, riuscire ad animare un movimento rivoluzionario non violento dipende anche dal riuscire a modificare il modo di comprendere il mondo circostante, guardandone tutti gli esseri viventi e non viventi in modo diverso da quello solito e quindi mettendoli in relazione – mettendoci in relazione – l’uno con l’altro in maniera diversa da come normalmente li metteremmo in relazione.
Bibliografia
Guzzi, M., Destinazione libertà, 2024. L’oligarchia brama la Terza Guerra Mondiale: solo la Pace ci salverà.
Henle, M., 1979. Phenomenology in Gestalt psychology. Journal of Phenomenological Psychology 10, 1–17.
Sarbin, T.R., 1986. Narrative Psychology: The Storied Nature of Human Conduct. Praeger, Westport, Connecticut.
Sclavi, M., 2008. In Theory. The Role of Play and Humor in Creative Conflict Management. Negotiation Journal 24, 157–180.
Sclavi, M., 2003. Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte. Bruno Mondadori.
Welch Larson, D., 1994. The Role of Belief Systems and Schemas in Foreign Policy Decision-Making. Political Psychology, Political Psychology and the Work of Alexander L. George 15, 17–33.
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