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Contro il green: per una vera ecologia

Il numero 1 del 2024 de La Fionda – Contro il green – si apre sotto il segno di una riflessione sul diritto del sistema terra, cioè su quel diritto chiamato a indurre comportamenti umani armoniosi e a valorizzare l’interdipendenza tra gli esseri umani e i viventi non umani: ci si domanda quali enti debbano essere legittimati a sancire e fa valere tale diritto e in particolare se essi debbano avere dimensione statuale o ultrastatuale. Quest’ultima dimensione pare accattivante perché rispondente all’imperativo secondo cui i “problemi globali devono essere risolti a livello globale”; tuttavia, il diritto plasmato da entità sovranazionali, sprovviste delle caratteristiche tipiche dell’ente statuale (quali sovranità e giurisdizione), scade in soft law e dunque è incoercibile. Recuperare la dimensione nazionale è imprescindibile per produrre hard law, cioè diritto coercibile, che possa garantire, con la forza della sanzione, comprovati risultati ambientali; tuttavia, ci si dovrà preoccupare, in primo luogo, di sventare derive tecnocratiche: nessuno Stato, soprattutto se gravitante nell’eurozona, è immune a questo rischio, che si affaccia pericolosamente in considerazione del carattere emergenziale del diritto del sistema terra, il quale richiederebbe un piglio manageriale; in secondo luogo, di assicurare, nella formazione delle decisioni politiche interessanti l’ambiente, il ricorso a meccanismi di democrazia partecipativa, che permettano alla parte sociale debole “di confrontarsi ad armi pari con i detentori di forza sociale”.
Affidare la soluzione della crisi climatica alla tecnocrazia implica anche sedare il conflitto sociale immanente alla transizione ecologica: quali saranno le sorti dei lavoratori impiegati nelle industrie più inquinanti? Per questo motivo un ruolo primario nella transizione ecologica deve essere riservato alle parti sociali: in America Latina si dà il caso il sindacati che hanno ottenuto la riassunzione, presso altre aziende, del personale impiegato da imprese inquinanti, delle quali era stata decretata la chiusura con un provvedimento del giudice. Diversamente, il rischio è di demandare la risoluzione delle questioni al medium giurisdizionale (numerosi sono i casi di ricorsi giurisdizionali contro Stati o imprese), che nella sua ottica duale attore – convenuto (o persona offesa – imputato) non tiene in considerazione gli interessi (e la posizione precaria) di tanti lavoratori, ridotti a “nuove classi subalterne climatiche”. Pertanto, è bene che le associazioni dei lavoratori trovino punti di incontro con gli attivisti per l’ambiente, anche onde evitare che questi ultimi siano irretiti dal capitalismo green delle élite, che mentre colpevolizza i cittadini medi per il presunto sperpero dovuto ai loro consumi quotidiani estrae dal Sud del Mondo, seguendo logiche coloniali, le materie prime necessarie alla transizione ecologica.
Per procurare giustizia sociale è necessario parlare di “rivoluzione energetica e ambientale“, cioè di “una trasformazione repentina e profonda non solo delle tecnologie (…) ma soprattutto della visione del sistema energetico e dell’ambiente”, che dunque metta in discussione il modo in cui è concepito il sistema di produzione e di consumo; la domanda chiave è cosa ha senso consumare: efficientare la produzione delle merci, riducendone l’impatto, è uno sforzo vano se l’orizzonte del consumo è in continua espansione. La rivoluzione ambientale richiede di invertire la rotta del rapporto tra uomo e natura, che vede il primo come homo oeconomicus incaricato di produrre e consumare e la seconda come un fondo illimitato disponibile per le funzioni del primo. Un sistema energetico completamente decarbonizzato e basato su fonti rinnovabili è realizzabile: la discontinuità di queste ultime fonti può essere risolta grazie ai sistemi di accumulo; il modello da sviluppare è quello delle comunità energetiche, in cui le risorse del territorio soddisfano i bisogni di chi vi vive: la sua fattibilità esige la proprietà pubblica, partecipata dalla comunità, delle infrastrutture di produzione, trasmissione e distribuzione dell’energia. Quello della proprietà è un nodo molto delicato e non facile da sbrogliare in un contesto in cui la dimensione globale della crisi ambientale “ha giustificato la delegittimazione dello Stato, delegando alle entità sovranazionali la gestione della crisi”. La partecipazione popolare alla determinazione delle politiche di rivoluzione energetica e ambientale è decisiva, già solo per il fatto che la crisi ambientale e la crisi del lavoro affondano entrambe nelle dinamiche di sfruttamento ed espropriazione proprie del capitalismo.
Tuttavia, la partecipazione popolare (e dunque il conflitto per la redistribuzione) è messa ai margini della transizione verde già nell’ambito dell’European Green Deal, per via del risalto che esso dà all’esecutivo, tanto a livello interno, quanto a livello sovranazionale. Nel nostro ordinamento la transizione è guidata dal Ministero per la Transizione Ecologica e dal Comitato interministeriale per la transizione ecologica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, istituiti con il Decreto Governance. A livello dell’ordinamento europeo – ove si dà luogo allo stanziamento dei fondi –, la Commissione europea si intromette di peso nella determinazione delle politiche interne e nel controllo della loro esecuzione, condizionando così l’indirizzo politico nazionale; si tenga pure conto che le nostre amministrazioni, qualora falliscano nell’adempiere gli obblighi assunti nel PNRR con riferimento alla transizione ecologica, devono essere commissariate. Infine, gli ammortizzatori sociali approntati dall’Unione Europea, frammentati in più strumenti, non sono idonei a supplire adeguatamente al fabbisogno degli Stati membri: questa circostanza priva di dignità moltissimi lavoratori, impossibilitati a riconvertirsi nel contesto di una transizione ordita dall’alto.
Il capitalismo si è immischiato nella transizione ecologica perché può piegarla a proprio favore e ridurre così l’impegno per l’ambiente a un vuoto formalismo: per esempio, il carbon offsetting permette di compensare le emissioni di CO2 acquistando specifiche autorizzazioni, cioè pagando. In tal modo la natura diventa oggetto di una valutazione che le assegna un ben preciso valore sul mercato, precisamente sul mercato dei permessi di inquinare; la natura è dunque considerata un bene misurabile e valorizzabile e pertanto sacrificabile dietro corresponsione di quanto è per eccellenza misura del valore nel sistema capitalista, cioè di denaro. Esistono due tipi di questi mercati: l’uno pubblico e l’altro privato. Nel primo l’ente regolatore pubblico stabilisce, progressivamente abbassandolo di anno in anno, il tetto all’emissione di CO2 e assegna a ciascuna azienda inquinante quote del totale di emissioni ammesse, fino a esaurimento. Le aziende che si trovino a inquinare meno di quanto loro concesso possono vendere le proprie quote a quelle che superano la soglia consentita. Nel mercato privato un soggetto cattura (anche, per esempio, tramite attività di riforestazione) tonnellate di CO2 emesso nell’atmosfera, dopodiché si rivolge a un ente di certificazione indipendente, che gli rilascia tanti certificati quante tonnellate catturate: ciascun certificato può essere venduto ad aziende interessate a dimostrare il proprio impegno ecologico, che possono così dichiararsi conformi ai parametri della sostenibilità senza adoperarsi in concreto in tal senso, semplicemente pagando.
La transizione ecologica presenta, a ben vedere, un alto grado di finanziarizzazione: a essersi tuffati nel business del green sono in particolare i fondi di investimento, che premono sugli amministratori delegati delle società di cui sono azionisti affinché effettuino investimenti green, sul presupposto che “il rischio climatico è un rischio d’investimento”. La costruzione di una finanza verde mondiale ha richiesto un grosso sforzo regolamentare: per esempio, sono stati integrati standard climatici nei principi di contabilità internazionale; le banche centrali hanno immesso standard ambientali nelle linee guida della supervisione bancaria (l’obiettivo è creare non solo un mercato di strumenti finanziari green, ma riconnettere al loro possesso una valutazione più positiva per le banche); le agenzie di rating hanno inserito all’interno dei loro criteri l’impatto sul clima e sull’ambiente. Tutta questa regolamentazione è posta da organismi tecnici, siti al di fuori di qualunque processo democratico legiferante (per esempio, i suddetti nuovi principi di contabilità internazionale sono stati emanati da una costola del Financial Stability Board): è forte il rischio che questi soggetti agiscano in simbiosi con i lobbisti del settore e forse questo rischio si è già verificato se solo si considera che nel settore del green gli investimenti prevalenti sono quelli privati.
Quanto all’Unione Europea, molti Paesi sono riusciti a tagliare le proprie emissioni inquinanti – lungo l’arco del trentennio che va dal 1990 al 2020 – per la ragione che sono andati incontro a un processo di deindustrializzazione e correlata delocalizzazione: trasferire all’estero anelli della catena produttiva o l’intera catena significa sostanzialmente inquinare in altri Paesi. Nel 2023 l’Unione Europea ha avviato in via sperimentale il ‘Carbon border adjustment mechanism’, un meccanismo protezionistico che addebita un dazio in entrata su certe merci ad alta intensità di carbonio, onde far sì il prezzo che è stato pagato nel Paese di esportazione in relazione al contenuto di anidride carbonica emesso direttamente o indirettamente durante la produzione sia equivalente al prezzo che sarebbe stato sborsato nel Paese di importazione. Negli Stati Uniti, invece, l’amministrazione Biden ha lanciato un programma di sussidi – l’Inflation Reduction Act – onde riportare entro i confini nazionali il grosso della manifattura e dell’industria: John Podesta, consulente di Biden per le politiche climatiche, ritiene che il commercio globale contribuisca enormemente al problema climatico, in quanto le sue regole favoriscono il dumping del carbonio, cioè la rilocalizzazione delle emissioni di carbonio da un Paese con politiche climatiche più stringenti a un Paese con politiche più lasche.
Proprio la vigenza di politiche climatiche accomodanti nei confronti delle emissioni industriali costituisce un fattore che, al fine di decidere ove stabilire un’attività produttiva, supera quello della specializzazione, cioè della disponibilità in una determinata area geografica delle tecnologie più efficienti e delle risorse produttive. La mancanza di regolamentazione ambientale, “in un regime di libera circolazione di merci e capitali, fornisce un potente impulso alla delocalizzazione e al processo di deindustrializzazione dei Paesi capitalisticamente più avanzati”. Produrre in Paesi a meno intensa regolamentazione climatica significa sfruttare quelle differenze di costo che sono espressione “di una differenza nel grado di sviluppo sociale”. In assenza di un organo di governo mondiale capace di far rispettare normative sul clima di portata globale, viene suggerito ai Paesi che optano per una più intesa regolamentazione ambientale di imporre misure protezionistiche ai Paesi più inquinanti; la conseguenza indiretta sarà una reindustrializzazione dei primi Paesi, passaggio fondamentale per ridurre il commercio globale, che, comportando la mobilità e dunque il trasporto delle merci, è una grave causa di inquinamento.
Quanto alla Cina, essa considera la transizione ecologica un obiettivo da bilanciare con le esigenze dello sviluppo economico e sociale: essa si percepisce come un Paese in via di sviluppo e quindi ritiene che il giudizio sull’adeguatezza del proprio impegno ambientale può provenire esclusivamente da sé medesima, senza condizionamenti esterni; questo suo sentire collima con quello di molti altri Paesi, come l’India. Attualmente, il piano quinquennale nazionale prevede cinque obiettivi di politica ambientale, tutti vincolanti; i risultati ottenuti nel perseguimento di questi obiettivi fungono da criterio per la valutazione dell’operato dei funzionari. Tuttavia, i piani quinquennali – e dunque anche gli obiettivi ambientali in essi stabiliti – sono suscettibili di mutamenti sulla base delle priorità politiche. La Cina ha inoltre introdotto nel codice civile un principio programmatico secondo cui le relazioni tra privati devono benificare l’ambiente e istituito zone territoriali in cui chi investe in progetti ecologicamente rilevanti o emette obbligazioni verdi gode di condizioni agevolate.
Infine, il numero della Rivista non manca di affrontare le intersezioni fra le politiche green e l’agricoltura.
Il Sud del Mondo è sotto lo scacco del Nord industrializzato, il quale gli ha imposto l’adozione di tecniche agricole progredite, che consentono di incrementare la produzione e così esportare (per rivalutare la moneta, rimpinguare le casse statali e saldare i debiti con il Fondo Monetario Internazionale), ma che hanno spremuto i suoli fino a impoverirne la composizione, hanno inquinato le falde acquifere e nuociuto alla salute degli agricoltori. In tutto il mondo si registra un aumento dei prezzi degli alimenti causato dalla volatilità del prezzo del petrolio, dal consumo crescente di carne (la cui produzione contrae l’offerta di cereali), dal cambiamento climatico stesso, dalla speculazione sui derivati e, infine, dall’impiego degli agrocarburanti: in questo contesto, è fondamentale rivendicare la sovranità alimentare, intesa come legame privilegiato tra il produttore e la sua comunità locale di riferimento.
Da parte sua, l’Unione Europea si è impegnata a ridurre le emissioni nel settore agricolo tramite una serie di misure, tra cui l’aumento della superficie dedicata alla agricoltura biologica e la riduzione dell’uso di pesticidi, fertilizzanti e antibiotici. Questi cambiamenti rischiano seriamente di mandare sul lastrico i piccoli e medi produttori agricoli, che sono già svantaggiati dagli accordi di libero scambio conclusi dall’Unione Europea, che privilegiano l’esportazione dei prodotti agroalimentari lavorati (in cui di solito sono specializzate le grandi aziende) a scapito di quelli primari, non lavorati. La classe dirigente europea ha inoltre iniziato a considerare la tecnica del carbon farming, cioè la conversione di terreni coltivati e pascoli in prati permanenti o foreste, finalizzata a ridurre le emissioni. Gli agricoltori aderenti otterrebbero dei “crediti di carbonio” da vendere su appositi sistemi di scambio; le insidie sottese a questa pratica, legate in particolare ai costi a carico degli agricoltori, sono ben analizzate nel numero.
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