Il Presidente del Consiglio e il Ministro della Giustizia non hanno perso l’occasione: hanno voluto dimostrarci ancora una volta, confermarci, di non aver compreso come stiano le cose e hanno conseguentemente parlato a vanvera. E non credo – anche se può essere – che lo abbiano fatto per confortare il loro elettorato che, magari, desidera sentirsi dire cose del genere: un po’ come fa (ma lo fa apposta) Trump con il suo elettorato. No, la mia impressione è che ai nostri governanti sfuggano i termini della questione che è, riconosciamolo, alquanto complicata dal punto di vista giuridico: il solo che ora conti. Per loro, invece, la questione è principalmente politica e si illudono di risolverla nel Consiglio dei Ministri odierno, subitaneamente convocato coram populo da Giorgia Meloni, lasciatasi dominare da un irrefrenabile impulso di immediato revanscismo.
È un peccato reagire così perché un problema c’è ed è grave in quanto ci coinvolge tutti: quello della nostra sovranità, che la Costituzione nel 1948 ha consegnato al popolo italiano e che il popolo italiano ha, nel frattempo, perduto in parte significativa e senza alcuna consapevolezza. È come se ci alienassero la casa e noi non lo sapessimo.
Ciò non assolve Meloni e Nordio, tutt’altro. Sono cose che avrebbero dovuto conoscere e tener in conto prima di decidere di piazzare in Albania le strutture per i migranti maschi, non vulnerabili e provenienti da paesi sicuri. Soprattutto avrebbero dovuto considerare la sentenza della Corte di Giustizia dell’UE del 4 ottobre scorso. Quel che è accaduto non solo era prevedibile, di più, era scontato.
Il minimo che ci si deve adesso domandare è chi siano i consulenti giuridici di questo governo. Sono preparati o no? Sembrerebbe di no. Sono indipendenti o no? Sembrerebbe di no. Ci si può fidare di loro, soprattutto se ne può fidare il Presidente Meloni? Sembrerebbe di no. Questo è il dato più allarmante. Fonda l’ipotesi del danno erariale cagionato da questo procedere un po’ alla cieca, un po’ alla scaraventa. Ma fonda il sospetto che l’abborracciamento sia una nota caratteristica del Governo in carica, conseguente, tra l’altro, all’inadeguatezza – denunciata da chi scrive prima della formazione stessa della compagine – di parecchi suoi Ministri.
Ora, in sintesi estrema, tutto nasce da una precisa direttiva UE, risalente addirittura al 2013: la 32, pubblicata il 29 giugno 2013 nella Gazzetta Ufficiale UE. Questa normativa stabilisce i criteri comuni per l’esame delle domande di protezione internazionale presentate nei vari Stati membri: l’obiettivo è quello di «istituire una procedura comune di asilo nell’Unione». Si intende che l’Italia avrebbe dovuto starci molto attenta (in carica era il Governo Letta) in considerazione della sua peculiare collocazione geografica: comune sì, ma in buona parte sulle spalle del nostro Paese, pardon della nostra Nazione.
Il (lunghissimo) testo della direttiva è più che complesso, direi bizantino. Anche per questo esso fa problema e introduce un interrogativo che nessuno pone e che, invece, dovrebbe essere seriamente posto, questo: come si norma in UE? L’impressione è che lo si faccia male, in primis dal punto di vista tecnico. Di ciò dovrebbero cominciare ad interessarsi onestamente le parti politiche, compresa l’attuale opposizione che non è immune da colpe, come si vorrebbe far credere.
Ora, in base all’art. 31, par. 8, è consentito agli Stati di ricorrere a procedure semplificate e accelerate di riconoscimento (o meno) dello status di protezione internazionale anche in «zone di transito»: è il caso dei centri in Albania. Occorrono alcuni requisiti, però, tra cui che il richiedente provenga da un Paese di origine «sicuro».
Nei successivi artt. 36 e 37 si rimette ai singoli Stati di stilare una lista dei Paesi ritenuti sicuri, ma considerando sia i dati forniti da certe fonti di informazione (EASO, UNHCR, Consiglio d’Europa, altri Stati membri); che alcune circostanze indicate nella stessa direttiva, precisamente l’assenza di persecuzioni, tortura, pene o trattamenti disumani, pericolo di violenza a causa di guerra.
Il 4 ottobre la Corte UE si è limitata a un’interpretazione di questo contesto normativo, sostenendo che la valutazione del grado di sicurezza deve essere estesa a tutto il territorio del Paese e non limitata ad alcune sue parti. Di conseguenza, la Corte accoglieva il ricorso di un richiedente asilo nella Repubblica Ceca e proveniente dalla Moldavia in quanto la Transnistria (ai confini con l’Ucraina) non poteva giudicarsi sicura.
Può piacere o no, ma le sentenze della Corte di Giustizia sono vincolanti per i nostri giudici: esse hanno natura normativa non limitata al caso concreto e hanno perciò la stessa efficacia delle norme dell’Unione che interpretano (l’interpretazione è qui, come si dice, autentica).
Ergo, il Tribunale di Roma non avrebbe potuto, anche se lo avesse voluto, decidere diversamente: non era oggettivamente possibile concludere che Egitto e Bangladesh siano attualmente paesi sicuri in ogni parte del loro territorio. A rigore, non sarebbe possibile nemmeno in riferimento all’Italia. Il che dimostra, anzi conferma, che c’è qualcosa (e più di qualcosa) che non funziona nella normativa UE. D’altronde, anche se a Roma il Tribunale avesse statuito che l’Egitto sia sicuro in ogni dove, appare scontato che la decisione sarebbe stata impugnata e che la Corte di Giustizia UE alla fine avrebbe ribadito la propria giurisprudenza.
Con queste premesse l’attacco alla magistratura italiana da parte del Ministro della Giustizia resta incomprensibile, tanto più che Nordio è un (ex) magistrato. Con l’ulteriore conseguenza che il convocato Consiglio dei Ministri non potrà cambiare realmente la situazione e perderà tempo, ulteriore tempo: imponga pure con decreto legge la sua lista di Paesi ritenuti sicuri, ma ci sarà sempre un giudice a Lussemburgo che sovvertirà la valutazione del Governo italiano.
Rimane così in piedi il problema di fondo, però: come Italia, noi non abbiamo più la sovranità piena e non ce l’abbiamo, in particolare, circa l’ingresso nei nostri confini. Uno scippo non proprio insignificante operato in danno del ‘sovrano’, il popolo. Di ciò nessuno dice nulla. Questo è il problema: un problema difficile.
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