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La punizione del colpevole ai tempi dello Stato costituzionale


22 Ott , 2024|
| 2024 | Visioni

Ci sono questioni che ruotano intorno al diritto che, per il loro grado di tecnicismo, rimangono confinate tra gli “addetti ai lavori” e ce ne sono altre che, invece, trovano ampio spazio nel dibattito pubblico. Si pensi – per rimanere all’attualità – al problema del sovraffollamento delle carceri, un tema sul quale vi è un profluvio di riflessioni e discussioni, che segnalano proprio un interesse diffuso su un tema solitamente prerogativa dei giuristi. Nondimeno, non è di questo argomento che qui intendo discutere, bensì del rapporto tra diritto penale e crudeltà e, in particolare, di come questo possa trovare riscontro nell’applicazione di una pena. Devo precisare, però, che il presente lavoro non ha alcuna pretesa di esaustività, ma rappresenta solamente il tentativo, animato da buoni propositi, di proporre una riflessione che funga da stimolo per uno studio ben più approfondito sull’argomento.

Ragionando di crudeltà nel diritto penale, la prima considerazione che potrebbe farsi riguarda i trasgressori, coloro i quali cioè commettono crimini, che sono dalla società, o perlomeno da una parte nutrita di essa, visti come distanti da “noi”, che quei crimini non commettiamo, o come “nemici” ai quali una punizione, magari anche esemplare, deve essere data. Sono insomma soggetti ai quali “noi” dobbiamo infliggere la “sofferenza” che meritano per aver commesso un reato e per aver tradito la nostra fiducia[1]. Per quanto il ruolo che deve, o dovrebbe, avere il diritto penale in una comunità è da sempre fonte di accesa discussione nel dibattito accademico, e non solo, tale modo di impostare il ragionamento sembrerebbe allinearsi sulle posizioni di chi considera il diritto penale come una manifestazione oppressiva e crudele del potere statale, un diritto che ha, dunque, come scopo quello di escludere, per mezzo della pena, chi ha violato i termini del contratto sociale, chi cioè ha commesso un reato, venendo così meno al patto di osservare le regole del vivere in comune, osservandone i principi[2]. Se non vogliamo che il diritto penale assuma questa natura, si dovrebbe seguire una strada diversa, più inclusiva,che consideri i trasgressori non come nemici, ma come soggetti ai quali deve effettivamente essere riconosciuta una dignità sociale “pari” a quella di qualsiasi altro membro della comunità politica[3]. La fattibilità di questa seconda proposta passa però necessariamente da una riflessione sul concetto di pena[4].

Si potrebbe iniziare col precisare che non tutte le pene sono crudeli. Si pensi, per esempio, a quelle in cui è richiesto di svolgere un certo numero stabilito di ore di lavoro non retribuito per un progetto che avvantaggia la comunità o, ancora, alla libertà vigilata. Tali punizioni – mi sembra – si possono considerare “inclusive”, in quanto puntano a reinserire il condannato in società, facilitando il suo contatto con la comunità civica. Che dire però della reclusione? Quando il trasgressore è rinchiuso entro mura e sbarre – va da sé – è escluso dalla comunità, una esclusione che inevitabilmente ne rende complicato il reinserimento sociale. Qui però non si vuole dire che sulle prigioni debba prevalere una tesi abolizionista – come pure da qualcuno è stato autorevolmente sostenuto[5] – ma solo che queste debbano essere riconsiderate; si potrebbe, per esempio, prendere in considerazione l’idea di giustificare la reclusione solo per limitare la pericolosità di chi ha commesso reati estremamente gravi. In ogni caso, la reclusione deve essere umana, costruttiva, con vari percorsi lavorativi, e soprattutto con più possibilità di incontro con le famiglie; in altre parole, bisognerebbe dar vita ad un sistema penitenziario più “aperto” e più accogliente, su modello di quello nord-europeo (svedese e danese, su tutti), in cui non si deve dimenticare, per come talvolta è avvenuto, che la dignità umana non è soltanto un diritto fondamentale in sé, ma costituisce la base stessa dei diritti fondamentali. Bisognerebbe cioè evitare che il carcere diventi una pena nella pena, in cui non si è in grado di assicurare quelle condizioni di vivibilità che andrebbero garantite a tutti, e che negli ultimi anni hanno condotto ad un tasso di suicidi non ammissibili per uno Stato democratico costituzionale. Solo prendendo coscienza di ciò si potrà rendere effettivo, e non utopico, il reinserimento sociale dei detenuti, invero già reso difficile dalla reclusione e dai suoi “effetti collaterali”, alcuni dei quali tuttavia ampiamente giustificati. Si pensi, per esempio, a chi intenda lavorare con minori dopo essere stato condannato per reati sessuali proprio nei confronti di questi. Nondimeno, al netto di tali casi, andrebbe evitata ogni restrizione dovuta all’inquadramento del soggetto come “ex-detenuto”, piuttosto che come uomo libero. Scontata la pena, il soggetto è, infatti, nuovamente, e a tutti gli effetti, un membro, al pari degli altri, della comunità politica su cui non si può, ma soprattutto non si deve far gravare alcuna restrizione di natura “sociale”.

Urge un cambiamento del nostro modo di intendere la giustizia penale ed anche, se non soprattutto, una trasformazione della nostra comunità politica, perché è solo a partire da questo cambiamento che si potrà avere un diritto penale meno crudele e pene meno degradanti e più umane. È bene capire cioè che il problema non è punire; d’altronde, le sanzioni penali sono necessarie, a meno che non si voglia vivere in una società in cui viga il caos, ma è il modo di punire che fa la differenza. Non c’è, inoltre, perlomeno così sembra osservando alcune realtà, nessuna relazione tra la severità delle pene e la diminuzione dei reati di cui se ne prescrive il divieto; se, infatti, fosse vero che più si inaspriscono le pene minori saranno i reati commessi, il numero di questi ultimi dovrebbe essere minore lì dove le pene sono più rigide, eppure così non è. Scott Turow, per esempio, nel suo, Punizione suprema[6], dimostra, attraverso dati molto dettagliati, proprio questo, e cioè che, nonostante in alcuni Stati degli USA ci sia ancora la pena di morte, il tasso di omicidi è lì largamente maggiore rispetto a quello dei Paesi europei, in cui la pena di morte non è prevista. Ciò dimostra, dunque, che più che chiedere un continuo inasprimento delle pene, sarebbe il caso di agire sulla prevenzione, cioè sulla rimozione delle cause sociali che tendono ad accrescere la probabilità di commettere reati: disuguaglianze sociali, povertà, abbandono scolastico. Come, infatti, dimostra il caso degli Stati Uniti, è proprio nelle comunità e nei gruppi etnici più svantaggiati che i tassi di criminalità sono maggiori.


[1] Una riflessione analoga è stata proposta da R.A. Duff, Punishment, Communication and Community, Oxford University Press Inc., New York, 2001, in part. cap. 3.

[2] Alcune teorie giustificano la pena sulla base della teoria del contratto sociale o del principio del fair play: cfr. R. Dagger, Social Contracts, Fair Play, and the Justification of Punishment, in Ohio State Journal of Criminal Law 8, no. 2 (2011), pp. 341-368.

[3] Cfr. R.A. Duff, Punishment, Communication and Community, cit., cap. 3.

[4] Sulle teorie della pena, in una letteratura pressochè oceanica, si vedano R.A. Duff, Punishment, Communication and Community, cit.; R.A. Duff, D. Garland, A Reader On Punishment, Oxford University Press Inc., New York, 1994; L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, VII ed., Laterza, Roma-Bari, 2002; G. Fiandaca, Prima lezione di diritto penale, Laterza, Roma-Bari, 2017; Id., Punizione, il Mulino, Bologna, 2024; H.L.A. Hart, Punishment and Responsibility, Oxford University Press, Oxford, 1968; K. Günther, Responsabilità e Pena nello Stato di diritto, Trauben, Torino, 2010. Da ultimo, si veda A. Nisco, Teorie espressive della pena: un’introduzione critica, Giappichelli, Torino, 2024.

[5] Cfr. G. Colombo, Il perdono responsabile, Adriano Salani Editore, Milano, 2013.

[6] S. Turow, Punizione suprema. Una riflessione sulla pena di morte, Mondadori, Milano, 2003.

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