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Scontro di civiltà o guerra fra barbari?
Samuel P. Huntington scriveva che nelle società moderne vi erano civiltà antiche dormienti, che prima o poi si sarebbero risvegliate. Stava forse profetando questo drammatico momento? Possiamo affermare d’essere noi nel bel mezzo di un grande risveglio? Chi può dirlo con certezza? Ma una cosa è sicura: dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, mai come in questo momento l’Occidente intero si è trovato così a un passo dalla catastrofe. Qualcuno potrà obiettare che nel 1962 c’è stata la famigerata Crisi dei missili di Cuba, che ci ha spinti sull’orlo del baratro. Qualcun altro potrà persino ripescare dalla propria memoria storica la guerra del Kosovo 1991-2001, dove, fra l’altro, il governo italiano, nella figura dell’allora Ministro della Difesa Sergio Mattarella, giocò un ruolo fondamentale nell’ignominiosa operazione Allied Force (con buona pace di chi crede ancora nella retorica degli ottant’anni di pace in Europa). Questo è sicuramente vero. Tuttavia, non vi è dubbio che in questa specifica contingenza storica, contrassegnata da un emergenzialismo costante e da un’apocalitticità ormai data per scontata, il grado di pericolo a cui siamo sottoposti è davvero senza precedenti. E la cosa peggiore è che non sono in molti quelli in grado di descrivere con precisione ciò che sta accadendo.
Nella sua contestata analisi geopolitica Huntington parlava di “scontro di civiltà”, perché era convinto del fatto che queste ultime si sarebbero prima o poi affrontate facendo leva ognuna sulla propria cultura d’origine, sul proprio fondamento spirituale o ethos d’appartenenza. Dal suo punto di vista, il confronto bellico ed egemonico del futuro — nostro presente — si sarebbe manifestato sotto forma di una crescente de-occidentalizzazione del mondo, la quale avrebbe fatto emergere altre visioni di civiltà possibili. Una tale ridefinizione culturale dello scenario politico mondiale però, non è qualcosa che avviene indolore. Ciò che infatti il politologo statunitense non poteva immaginare è l’accelerazione vertiginosa del declino dell’Occidente, causato, principalmente, dalla riaccensione del conflitto russo-americano, su territorio ucraino, e dalla violazione di ogni diritto internazionale da parte di Israele nei confronti dei popoli mediorientali (palestinesi e libanesi in primis). Per non parlare dell’aspetto macroeconomico, legato al rapido processo di de-dollarizzazione e del conseguente ingresso dei paesi quali Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti nel cosiddetto “raggruppamento delle economie mondiali emergenti” chiamato BRICS.
Detto ciò, il termine “civiltà” rischia comunque di mandarci fuori strada. Oggi, se ci fossero davvero delle civiltà a confronto, si potrebbe effettivamente protendere per preferire l’una all’altra; ma, invece, ciò che osserviamo, è un imbarbarimento generalizzato di tutte queste presunte civiltà, che si fanno la guerra con l’intento di voler affermare principi ormai decaduti e quasi del tutto disancorati dalla realtà spirituale dei popoli. Ciò che vediamo risvegliarsi non è affatto lo spirito dei popoli, bensì il fondamentalismo criminale dell’élite disumane che governano l’intero pianeta (tanto ad est quanto ad ovest). Come tutti sanno, la parola civiltà deriva dal latino civilis, che vuol dire semplicemente civile, educato, cortese. Se applichiamo questi aggettivi ai paesi che sono oggi in guerra, riuscire a dire con serenità quali sono quelli che combaciano con questa definizione di civiltà è un’impresa impossibile. La politica, il diritto, la democrazia, la libertà di parola, le costituzioni: una volta questi erano elementi che potevamo mettere nel curriculum dell’Occidente; nella carta d’identità della modernità europea-occidentale. Nel 1700 Hegel poteva ancora parlare di “dispotismo orientale”, poiché la Rivoluzione francese aveva da poco segnato uno spartiacque fra i due mondi. Ma adesso, a distanza di secoli, è ancora così? Possiamo ancora dirci portatori di una civiltà “superiore”, più “avanzata”, più “libera”? In un certo senso io credo di sì, ma certamente non nel senso ipocrita e violento con cui intendono questa “superiorità” tecnologico-bellica i vari Biden, Zelensky, Meloni… per non parlare del democraticissimo Netanyahu.
In questa fase storica, chi sta messo peggio è, purtroppo per noi, l’Occidente. Come scrive lucidamente lo storico francese Emanuel Todd, nel suo libro intitolato La sconfitta dell’Occidente, i due occidenti, quello americano e quello europeo, stanno combattendo queste guerre per “difendere una democrazia che non esiste più”. Essi lottano contro l’Oriente per salvare un sistema che è sempre più oligarchico, imperialistico e nichilistico. A pensarci bene infatti: cosa c’è di più incivile in tutti questi massacri fatti con le armi occidentali in Medio Oriente? Quali sono i valori che si intende esportare o difendere? Perché dovremmo preferire l’Occidente rispetto all’Oriente? C’è ancora una differenza sostanziale fra questi due ordini mondiali? Oggi queste drammatiche domande dovrebbero essere gridate nelle piazze al posto degli sloga pro Putin e pro Hamas. L’Occidente, come ha ricordato di recente Franco Cardini, non può essere in alcun modo ridotto all’individualismo della “giovane America”, al primato dell’economia sulla politica. E nemmeno si può credere di ridurre l’intera cultura occidentale alla logica geopolitica della supremazia della tecnologia sull’eticità dei popoli. C’è molto altro; c’è molto di meglio. Eppure, quest’altro e questo meglio vengono continuamente obnubilati: colpevolmente dimenticati da una falsa coscienza colonialista, che genera falsi miti — come quello della crescita economica —, i quali impediscono un reale confronto a livello diplomatico, per quanto riguarda perlomeno il cessate il fuoco, ma anche a livello culturale, per ciò che concerne l’integrazione positiva fra le diverse visioni politico-spirituali del pianeta.
Una volta, fino agli anni ottanta del Novecento, la cultura europea si faceva carico di questi problemi di carattere antropologico-spirituale, ed elaborava continuamente visioni critiche interne all’area occidentale per mantenere desta l’attenzione su quelli che dovevano essere i valori di questo vasto “continente”. Pensatori come Jaspers, Pasolini, Marcuse o Derrida, tanto per fare qualche nome, venivano già accusati di essere anti-occidentali, semplicemente perché non si bevevano la propaganda americana. Noi europei oggi dobbiamo decidere se continuare a sposare supinamente la logica tecno-finanziaria degli Stati Uniti d’America, oppure se vogliamo provare a recuperare una nostra specifica identità europea. L’Unione Europea ha fallito in questa impresa di unire il popolo europeo perché anch’essa, come fosse una grande Wall Street, ha visto nella moneta l’unico valore di coesione possibile. Ma, al di là degli errori dell’Ue, dovremmo dirci con chiarezza che l’autentica cultura europea non ha nulla da spartire con quella americana (ammesso che ve ne sia una degna di questo nome). In questa lotta fra Est e Ovest, fra Oriente e Occidente, fra dispotismo orientale e imperialismo atlantico, l’Europa non è costretta a schierarsi con nessuna delle due aree geografiche. Di fatto, da sempre, siamo un’altra cosa rispetto all’una e all’altra “civiltà”. La nostra visione culturale, infatti, è l’unica capace di fare sintesi, di estrarre cioè il meglio dalle tradizioni secolari di questi due poli opposti. A partite dalla seconda guerra mondiale, questa nostra capacità di mediazione ce la siamo dimenticata, e non soltanto perché, come ricorda spesso Lucio Caracciolo, noi siamo i perdenti della seconda guerra mondiale, ma soprattutto perché passiamo molto tempo a corre dietro alle follie dei grandi imperi, invece di pensare a come ridare vita, senso e forma al nostro.
Jean Monnet, padre fondatore dell’Unione Europea, affermava che bisognava costruire l’unità tra i popoli e non limitarsi alla cooperazione tra gli stati. Questa formula credo venisse espressa in buona fede da Monnet, ma considerando le enormi differenze che vi sono fra gli stati interni all’Ue, e tenendo conto di come è andata sviluppandosi la storia in questi ultimi decenni, non sarebbe il caso di ripensare integralmente al senso destinale di questa “unione” senza unità? Viste anche le degenerazioni politiche dell’attuale Ue, che hanno portato persino alla rielezione della guerrafondaia von der Leyen, non sarebbe forse meglio riaprire una discussione profonda sulla natura spirituale, ancor prima che economica, dell’Europa, e quindi dell’Ue? Dinnanzi all’imbarbarimento generalizzato, alla decadenza dell’impero occidentale di Megalopolis (per citare l’ultimo film di F.F. Coppola), l’unica soluzione è ripristinare un minimo di vitalità politica. Dove impera la guerra e il disastro, l’unico modo per salvare il salvabile è pretendere una cultura all’altezza delle sfide che stiamo vivendo. Saremo in grado, come popolo europeo, di smascherare una volta per tutte le menzogne dei nostri governi e chiedere a gran voce una politica scevra da qualsiasi atteggiamento corrotto e sottomesso ai diktat dell’impero anglo-americano? Siamo capaci di lavorare fin da ora per porre le basi di una trasformazione radicale della nostra impostazione servile e mai pienamente consapevole del valore storico e spirituale del nostro continente? È ancora possibile sperare in una civiltà che sia davvero degna di questo nome?
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