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Contro Parhenope: alla ricerca di un nuovo cinema barbaro


5 Nov , 2024|
| 2024 | Terza Pagina

Paolo Sorrentino ha costruito anche opere di grande interesse – tra le più compiute, probabilmente, del cinema italiano degli ultimi vent’anni. Ed è proprio questo, in realtà, a rendere problematica la tesi che qui si vuole esporre, perché il suo ultimo film, Parthenope, si pone, invece, in continuità con un certo “spirito del tempo”, con quel suo lato più insidioso – quella meramente estetico – divenendo portatore, di riflesso, di alcuni aspetti critici della nostra contemporaneità e della sua antropologia, e, cioè, di quel mondo di crisi che ci è toccato di abitare. Perché, infatti, quella dimensione estetizzante, presente anche in altri film di Sorrentino, ma in gradazioni e, soprattutto, in contesti differenti (all’interno dei quali poteva assumere anche una dimensione di sensatezza – cfr. Loro dedicato a Berlusconi), diviene in Parhenope l’unica, e sola, idea – il centro dell’intera l’opera – finendo per assumere, così, le forme di quella cultura estetica che assorbe tutto e che si compone di atmosfere sfuggenti e di enigmi, o misteri, fittizi che non solamente non conducono a nulla, ma, ancor di più, non interrogano neanche: sono privi, cioè, di reali domande. 

Non esiste, innanzitutto, un contesto storico dell’opera: vengono inserite delle date che non significano nulla di concreto, o reale – anni ’50, ’60, o ’70 sono parole, e concetti, privi di memoria, o di alcuna tradizione. Sembra, cioè, di esser immersi in un “eterno presente” – in realtà, il nostro presente, esteso a passato e futuro – senza alcun confronto reale con le differenze qualitative e, soprattutto, con ciò che ne è stato di una società, e di un mondo, che si sono perduti. Il mondo degli anni ’60 o ’70 sembra lo stesso di quello degli anni 2000 – sfuma qualsiasi specificità sia nei contenuti strictu sensu, sia nelle scelte stilistiche (nella caratterizzazione dei personaggi, ma anche nella fotografia, o nelle immagini). A regnare, piuttosto, è l’evoluzione dei caratteri scissa dal contesto esterno, l’astrazione degli individui della storia – in linea diretta, anche qui, con alcune tendenze fondamentali della cultura contemporanea. 

Ma per cultura estetica si intende qui, soprattutto, l’assenza di qualsiasi elemento di durezza, o sostanza – la dimensione di ricerca come finzione, o peggio come distrazione. Il film, infatti, si compone di caratteri che sembrano “giocare” con la cultura – che leggono libri sui letti abbracciati ad altre persone, senza vestiti (a proposito di quel nuovo mondo instagrammabile), o, ancora, che affrontano grandi tematiche con citazioni ad effetto, che non hanno, in realtà, alcuna funzione se non quella di svilire discipline e tradizioni storiche. Si impone, cioè, l’esser-inconsistente come carattere fondamentale della contemporaneità – figure che non procedono alla ricerca di alcuna idea, ma solo del piacere, piuttosto, di sembrare colti, di mostrare che, anche loro, scrivono e ricercano. Così, lo stesso Silvio Orlando, il professore di Parthenope, una delle rare figure del film che sembra mantenere residui di durezza, sembra finire, da ultimo, anche lui risucchiato da quella stessa cultura estetica, nella costruzione di componimenti ad effetto che mirano a scioccare “per il solo gusto di scioccare”.

È questo uno dei motivi per cui tutti i caratteri del film, centrali o secondari, anche quando sembrano perdersi, non lo fanno mai veramente, fino in fondo: abbandonarsi ad uno stato di disgregazione, infatti, richiederebbe un atto di volontà o di pensiero – una vera indipendenza – proprio ciò che in loro è assente. Così, la struttura problematica del film non è nell’aver rappresentato una condizione di decadenza, o tramonto, borghese (anche La grande bellezza si muoveva su questo filone, ma in modalità estremamente più efficaci), ma di averla ritratta in termini solo fintamente estetici. Quella costellazione di temi che procede dalla malinconia alla giovinezza (o infanzia) perduta, e, ancora, dai primi amori rivelatori di qualcos’altro a questioni tragiche come il suicidio e il dolore di un’assenza, inseriti in quello sfondo di cui sopra, sembrano perdere qualsiasi traccia di realtà: un movimento circolare teso a confondere, piuttosto che a far emergere interrogativi – che gioca, ancora una volta, con alcune questioni decisive dell’umanità, riducendole a colpi ad effetto (di prestigio), miranti ad uno choc teso a lasciare a bocca aperta, ma che distrae, in definitiva, da qualsiasi forma di pensiero. È così anche difficile, in realtà, soffermarsi sui singoli temi del film, perché sembrano esser assorbiti, interamente, da quella cultura estetica che tutto consuma, non lasciando alcun resto.

Ed è per questo che il film diviene rivelatore di una parte decisiva della nostra cultura e dei suoi luoghi di sapere – una rappresentazione di ciò che siamo, o siamo diventati, dagli spazi pubblici a quelli privati: neanche corrotti, o ostili, piuttosto vuoti, alle soglie dell’inconsistenza. Ecco, dunque, la problematicità dell’opera: non assumere questo mondo contemporaneo per mostrarne le crepe, o le possibili fratture, bensì per sedercisi sopra, con la finalità di darne una giustificazione, o salvezza, estetizzante. Sposare, in conclusione, una “civiltà” che, abbandonando ogni elemento di durezza, si rifugia ormai, sempre più, in maschere, e continui veli, allo scopo di tenere nascosta la propria condizione di irrealtà. 

Ma allora, osservando questo film, ci si dovrebbe anche chiedere se ci possa essere la via per un nuovo cinema eretico – che rigetti questo velo apparente di civiltà, opponendo ad essa una dimensione di barbarie. Per un nuovo cinema barbaro, dunque, se questa è l’unica civiltà – nella forma, così come nel contenuto che da essa dovrebbe emergere: eretico, o scorretto, ma non nelle modalità di una prevedibile critica al “politicamente corretto”, piuttosto, che si ponga la finalità di criticare, e riformulare, le fondamenta strutturali di questa cultura. Se dunque Parthenope coglie una parte rilevante, probabilmente la più numerosa, di quest’antropologia contemporanea, forse, però, di questa, se ne potrebbe, e dovrebbe, ancora scorgere una componente residuale, marginale, impossibilitata ad integrarsi, che anela un’altra forma di cultura e che si pone alla disperata ricerca di una via – è a questo (aurorale) mondo che un nuovo cinema, ed una nuova forma politica, dovrebbero rivolgersi.

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