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Violenza e democrazia. Quando la riflessione lascia il posto alla propaganda


8 Nov , 2024|
| 2024 | Visioni

Sul Corriere del 31 ottobre, Ernesto Galli della Loggia si pone una questione enorme: la compatibilità tra democrazia e violenza. Tema enorme, appunto, che nelle riflessioni dell’editorialista del Corsera ci si aspetta venga affrontato e problematizzato. Invece nulla di ciò accade scorrendo riga per riga l’articolo.

È un vero peccato che l’autore non sviluppi il tema, limitandosi a riportare degli esempi in cui la democrazia si è resa colpevole di massacri estremi, come i bombardamenti a tappeto sulle città tedesche durante il Secondo conflitto mondiale da parte degli angloamericani o il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Ma, in realtà, l’autore non aveva come scopo quello di problematizzare il tema della democrazia e delle sue disfunzioni. L’intento primario viene infatti svelato nelle prime righe. È quanto succede in Medioriente a costituire lo spunto per porre il tema del rapporto tra violenza e democrazia. E qui si assiste a un primo bias cognitivo, ossia il fatto di considerare Israele l’unico stato democratico del Medioriente. Il riportare gli esempi della Seconda guerra mondiale serve poi a proporre il conflitto sotto la lente di un confronto tra il bene e il male e a sdoganare il paradigma secondo cui per sconfiggere il male è lecito sacrificare masse inermi di persone. Galli Della Loggia scivola nel banale artificio, molto in uso in Occidente quando si vuole demonizzare l’avversario, di identificare una delle parti in causa con Hitler, pur senza farne il nome. Insomma, tutto porta a giustificare l’operato degli israeliani la cui azione non può essere giudicata da un tribunale (evidente il riferimento implicito alla Corte Internazionale di Giustizia) ma solo dalla storia, e a rivendicare la legittimità della politica di fare delle scelte, magari la più feroce e distruttiva.

Se l’eminente storico si sottrae all’arduo compito di affrontare un tema enorme, proviamo a offrire qualche spunto di riflessione, con l’avvertenza che non si potrà, in questa sede, che essere schematici e approssimativi.

Cominciamo ad osservare che non esiste un solo tipo di democrazia. Questa va declinata attraverso un aggettivo. La democrazia classica, dell’Atene del V secolo a.C., dove la parola è stata creata, è cosa diversa da quella attuale. Democrazia, nella Grecia antica, indicava l’esercizio diretto del potere da parte del popolo riunito in assemblea. Non esisteva il concetto di rappresentanza. Va aggiunto che il popolo che aveva lo status di cittadinanza nell’Atene di Pericle costituiva comunque una parte minoritaria della popolazione ateniese che per i quattro quinti era costituita da schiavi, donne, servi che non avevano lo status di cittadini né alcun diritto politico. Inoltre, non esisteva la tutela delle minoranze (Socrate fu condannato a morte con l’accusa di corrompere i giovani con idee considerate corruttrici) e i nemici venivano considerati non umani (è proprio nella Grecia delle guerre del Peloponneso che viene creata la distinzione tra civiltà e barbarie, tra occidente e oriente).

La democrazia liberale, che appare in Europa dopo qualche decina di secoli di oblio della forma democratica, si concentra sulle libertà civili e politiche, sullo stato di diritto e la tutela delle minoranze. Sotto certi aspetti, un passo avanti rispetto ad Atene, che viene però pagato con la perdita di ciò che ha definito il termine stesso. Il potere del popolo esercitato direttamente in assemblea viene sostituito con il concetto di rappresentanza.

Filosofi, storici e scienziati della politica si sono a lungo interrogati su una democrazia depurata dal suo requisito principale, il potere del demos, e se questa possa essere considerata tale in un sistema in cui sono garantite unicamente delle libertà formali senza che ci si premuri di creare le condizioni per renderle sostanziali. Le disuguaglianze economiche, ad esempio, rendono irrealizzabili le libertà anche se formalmente esiste uno stato giuridico che le garantisce. Se un voto può essere comprato, quel voto non è libero. Il liberalismo ha sempre cercato di riservare le decisioni politiche alle élites, contrastando prima l’estensione del suffragio, poi neutralizzandolo con altri modi, tra cui l’aumento delle disuguaglianze. Con i fascismi, forma e sostanza sono state allineate.

La scienza politica del Novecento ha contestato perfino il concetto di rappresentanza. L’individuo medio non essendo in grado di accedere agli arcana imperii della politica non può esercitare consapevolmente una scelta attraverso il voto. Questo risulta poco più di un esercizio di stile che serve a legittimare una classe politica autoreferenziale votata a perseguire i propri interessi e quelli di determinati gruppi di potere piuttosto che svolgere il ruolo di rappresentanti di interessi contrapposti. Tanto da annullare persino la dialettica tra maggioranza e opposizione. Emanuel Todd, riguardo ai paesi occidentali, nell’ultimo suo libro, La sconfitta dell’occidente, preferisce parlare di oligarchie liberali anziché di democrazie, proprio a evidenziare la perdita della cittadinanza politica da parte del popolo. Ad esse contrappone il concetto di democrazie autoritarie, dove, pur sussistendo l’esercizio della libertà formale di voto, manca la tutela delle minoranze. Ma, anche le osservazioni di Todd non tengono conto della deriva autoritaria che stanno subendo i paesi occidentali nei quali il dissenso viene represso sempre più energicamente anche se riguarda l’opposizione politica piuttosto che le minoranze etniche o di genere.

Queste brevi e sintetiche riflessioni ci mostrano quanto sia complesso il concetto di democrazia e quanto sia fragile la sua applicazione. Anziché usare la storia per giustificare i genocidi rendendoli compatibili con la democrazia, bisognerebbe partire proprio dalla consapevolezza della sua fragilità per muoversi con la massima cautela. Oggi sembra che in occidente si vada verso una realizzazione sincretica degli aspetti peggiori della democrazia classica e di quella liberale. Gli esempi riportati nell’editoriale di Galli Della Loggia dovrebbero farci dubitare della patente di democraticità di quella che da sempre, in modo assiomatico, viene considerata la più grande democrazia del mondo. È possibile considerare democratico un paese, come gli Stati Uniti, con grandi disuguaglianze sociali e nel quale, fino agli anni Sessanta, una parte della popolazione, quella afroamericana, era esclusa dal voto e segregata? Un paese che in nome dell’anticomunismo (a meno di non identificare il comunismo con il male assoluto) favoriva le più spietate dittature e abbatteva governi democraticamente eletti? La democrazia vale solo a casa propria e si arresta sulla soglia della ragion di stato? O è una prassi che deve essere estesa anche al di fuori dei propri confini? Questo discorso vale, oggi, soprattutto per Israele, uno stato che applica la segregazione razziale nei confronti dei palestinesi e opera la violenza dei pogrom nei territori occupati. A tale politica coloniale, in opera dal 1948, si è aggiunto il genocidio scaturito come reazione al massacro del 7 ottobre. Massacro la cui drammaticità è sbiadita di fronte agli oltre quarantamila morti provocati da Israele. Il governo israeliano ha caratteri palesemente fascistoidi e prima del 7 ottobre stava tentando una riforma costituzionale che avrebbe ulteriormente limitato la tutela delle minoranze. Eppure, si continua, in modo miope o volutamente fazioso, a considerare lo stato ebraico una democrazia.

La democrazia occidentale, che pratica sovente la filosofia dei due pesi e delle due misure non ha più appeal fuori della sfera occidentale (ma neanche all’interno vista la proliferazione di partiti che si richiamano esplicitamente al fascismo). E questo proprio perché si è sviluppata con le contraddizioni illustrate sopra e in politica estera ha seguito la visione sposata da dall’editorialista del Corsera. Il risultato è stata la preparazione del terreno fertile per portare a compimento la fine dell’egemonia dell’occidente nel mondo di cui l’editoriale da cui abbiamo preso spunto rappresenta uno sterile tentativo di occultamento.

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