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Guardare Napoli dando le spalle alla città: considerazioni su “Parthenope” di Paolo Sorrentino


16 Nov , 2024|
| 2024 | Recensioni

Partenope Di Sangro non è un personaggio che cattura le simpatie dello spettatore cinematografico. Tutt’altro. Generalmente, lo spettatore cinematografico si appassiona ai personaggi sullo schermo quando questi esprimono una tensione profonda, anche se incostante, verso un cambiamento della propria condizione esistenziale, e quando rendono questa tensione credibile con l’energia con cui combattono gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dei loro progetti. Allora ci identifichiamo, parteggiamo per loro, viviamo le loro battaglie come se fossero le nostre, ci lasciamo trascinare nei loro tortuosi itinerari esistenziali, gli perdoniamo momenti di debolezza e deviazioni temporanee dal percorso prescelto.

Esattamente quello che NON succede in Parthenope di Paolo Sorrentino. Partenope Di Sangro è un tipico esemplare della “chiattilleria” che ancora oggi caratterizza l’antropologiadella classe agiata napoletana: troppo benestante per avere fame di elevazione sociale, con un orizzonte troppo chiuso per poter lanciare il proprio sguardo oltre i confini del ceto di appartenenza e interrogarsi sulle dinamiche che stanno alla radice della struttura sociale della città (si pensi che capita nei quartieri popolari solo per caso, al seguito di un occasionale amante che si rivela esponente di spicco di una famiglia camorristica), affascinata dai letterati più per l’aura di dissolutezza che li circonda che per la letteratura che producono, attratta dalla prospettiva di diventare attrice più per moda che per vocazione. Insomma, tutto in lei è vissuto in modo superficiale, e lo spettatore si abitua a guardarla con simmetrica superficialità, magari ammaliato dalla sua bellezza, ma senza alcuna sostanziale empatia per il suo destino.

Lo spettatore empatizza (sempre superficialmente) con Partenope solo nel momento della tragedia della morte del fratello Raimondo. Pensiamo istintivamente «povera ragazza, che grande guaio ha passato»: non solo perdere l’adorato fratello, ma anche doversi portare sulle spalle per chissà quanto tempo lo stigma più o meno esplicito della colpa di non averne saputo gestire la fragilità con maggiore equilibrio. Potrebbe essere la scintilla di un qualche feeling tra noi seduti in una poltrona nel buio e la protagonista che si muove sullo schermo. Macché. La reazione di Partenope al proprio dramma familiare è banalmente adolescenziale: si mette a frequentare vecchie dive incattivite dalla vita nella speranza di imparare i segreti della recitazione, poi progetta di elaborare il lutto scrivendo una tesi di antropologia sul suicidio (e meno male che il professor Marotta la dissuade), infine finisce col perdere persino il fedele innamorato di una vita, ormai stremato dal suo sistematico sfuggire alle domande sul senso del loro rapporto.

Per la verità, lo spettatore si è stancato di Partenope già molto prima di Sandrino, per motivi analoghi: niente di ciò che Partenope fa o dice sembra avere radici in quello che pensa, dunque impossibile intessere con lei un rapporto empatico, e guardare le sue grazie che fanno capolino tra le tende con il blu del mare sullo sfondo non può surrogare all’infinito quel pathos che la storia della ragazza è incapace di produrre. Con la differenza che, mentre Sandrino ha problemi di sussistenza materiale da risolvere con una certa urgenza e che lo spingono a partire verso il Nord, noi non abbiamo altrettanta fretta, e niente quindi ci impedisce di rimanere pigramente sprofondati nella nostra poltrona a cercare di dare un senso ai 7 euro che abbiamo speso per essere ammessi nella sala oscura.

Ma poiché ormai è passata più di un’ora da quando le luci si sono spente, urge cercare una diversa chiave di lettura. L’unica ipotesi alternativa che sembra promettente è allontanare lo sguardo da Partenope e virare decisamente su Parthenope (con la acca). Del resto, dando alla protagonista il nome della città che ne ospita le gesta, Sorrentino le ha assegnato una esplicita valenza simbolica. Inutile allora valutare la resa del film interrogandolo sul piano della verosimiglianza psicologica: a Partenope Di Sangro non è stato chiesto di essere psicologicamente verosimile, ma solo di incarnare Napoli, le sue peculiarità e i suoi nodi. E allora riemergiamo dalla poltrona e proviamo a leggere l’ora di proiezione già trascorsa e l’ora di là da venire alla luce di questo diverso schema interpretativo: Parthenope metafora della Napoli a cavallo tra gli anni 50 e la prima metà degli anni 80?

Quando interpretato da questa prospettiva, l’affresco composto dal regista si rivela effettivamente strutturato in “blocchi” che potrebbero legittimamente considerarsi paradigmatici di dimensioni significative dell’universo Napoli. Il blocco che ha come sfondo la casa di Posillipo descrive la vita della borghesia operosa degli anni 50 e 60, incarnata dal comandante Lauro: chiusa su sé stessa, separata dalla città, endogamica in senso quasi letterale (la mappa dell’attrazione erotica si muove tutta all’interno di un triangolo chiuso tra fratello, sorella e il figlio della cameriera), proiettata sul mare piuttosto che sulla terra, simbolicamente tesa a trascendere la città piuttosto che a confrontarsi con essa. Poi c’è il blocco ambientato a Capri, rappresentativo di una dimensione caratteristicamente interdetta ai napoletani dei ceti produttivi («a Capri i napoletani non ci vanno mai, chi perché non ha i soldi, chi perché non ha il tempo»), e quindi luogo elettivo dell’esotico, palcoscenico di un triste e surreale balletto che ha per protagonisti un’aristocrazia decadente e un ceto artistico intento alla dissipazione. Poi ci sono il blocco legato al personaggio di Roberto Criscuolo, che apre allo spettatore le porte del mondo della camorra e delle sue grottesche ritualità, e il blocco legato al personaggio del cardinale Tesorone, finestra panoramica sul ruolo del clero in una città ritratta come pervicacemente avvinghiata alla dimensione del magico. E infine c’è il blocco legato all’università, dove il prof. Marotta tesse lentamente la tela destinata a catturare la protagonista man mano che lo svanire della giovinezza ne svuoterà la smania di sentire e la renderà sensibile al desiderio di vedere.

Che spetti ad un antropologo il ruolo di dare un ordine al percorso della protagonista non è affatto casuale: l’antropologia è evidentemente il filo conduttore con cui Sorrentino vuole legare i blocchi di cui si compone la narrazione. Scelta evidentemente coerente con le predilezioni estetiche del regista, perché nel panorama antropologico partenopeo germoglia ad ogni angolo di strada quel “grottesco” che ne ha sempre ispirato al massimo grado la fantasia visionaria. Peccato solo che Sorrentino scelga come griglia interpretativa un’antropologia di quart’ordine, da inchiesta televisiva per il pubblico della fascia pomeridiana: per intenderci, quella antropologia che campeggia da decenni sui media generalisti, che per ritrarre Napoli non trovano niente di meglio che raccontarne la patologica parabola come irrimediabilmente inscritta nei suoi codici genetici. «La bellezza che illanguidisce la città e la imprigiona nella condanna alla pigra contemplazione di sé stessa», «la camorra che cristallizza le relazioni sociali in un eterno medioevo in cui la pervasività tentacolare della famiglia soffoca l’individuo e le sue energie creative», «un immaginario che concepisce il destino individuale e collettivo come legato più al miracolo di San Gennaro che alla laboriosità e alla determinazione dei singoli» e altre amenità di questo genere.

Questa ricostruzione di una Napoli modellata dalle sue (presunte) specificità antropologiche,  grazie al massiccio sostegno da parte della gran parte delle istituzioni di produzione e diffusione della cultura, ha purtroppo ormai egemonizzato l’immaginario collettivo, e quindi supera senza incontrare resistenze il giudizio della ampia maggioranza degli spettatori seduti in sala. La ragione sostanziale del consenso di cui questa narrazione gode nei centri del sistema mediatico è fondamentalmente che fa comodo alla ampia maggioranza dei soggetti che hanno il potere di muoverne i fili: i politici locali e nazionali, che questa narrazione libera dall’imbarazzo di spiegare l’immobilismo di una metropoli dotata di risorse ed energie niente affatto “ordinarie”; i ceti parassitari che dominano incontrastati la città, che dietro lo slogan della città indolente possono nascondere l’effetto soffocante della propria rapacità; e infine gli intellettuali della diaspora partenopea, per i quali il refrain «è impossibile trovare la propria dimensione in un posto così» rappresenta il più comodo degli alibi per legittimare la propria diserzione.

Peccato però che si tratti di una ricostruzione sostanzialmente falsa. La bellezza ottundente della città, il radicamento della dimensione del magico e la criminalità organizzata non avevano infatti impedito a Napoli di vivere, nel trentennio post-bellico, una stagione caratterizzata da una straordinaria espansione e dall’inclusione nel meccanismo di produzione e distribuzione della ricchezza di una fascia massiccia di popolazione caratterizzata da storica marginalità economica e sociale. Del resto, se ne accorge persino Sorrentino, che nella prima mezz’ora del film allude più o meno esplicitamente ad una sorta di età dell’oro della città (anche se sceglie un simbolo controverso come Lauro per rappresentarla. Ma Sorrentino avrà visto almeno Le mani sulla città?). Purtroppo, però, quando deve raccontare la fine di quella stagione, il regista si inventa uno snodo di grande impatto emotivo (il colera), ma privo di rilevanza sostanziale ai fini della spiegazione del destino della città.

Infatti, se a cavallo tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 la parabola virtuosa di Napoli si inverte, non è perché la sua borghesia operosa si allontana dalla scena per sopraggiunti limiti di età e gli eredi designati di quella generazione sono troppo impegnati nell’elaborazione dei propri lutti per prenderne il posto, come il film sembra voler lasciar credere. La stagione di espansione del secondo dopoguerra si chiude perché Napoli, sotto la pressione incrociata dei livelli di governo nazionale e continentale, è costretta a distaccarsi dalla sua seppur controversa tradizione industriale, e finisce per rimanere sospesa per decenni tra le macerie di quel passato abiurato (le carcasse vuote degli impianti dismessi e la popolazione resa ridondante dalla deindustrializzazione e che trova rifugio nelle pieghe del sommerso o nell’esercito della manovalanza camorristica) e fumosi progetti di riconversione urbana che guardano vagamente al post-industriale. E dentro quel vuoto tra un passato che non passa e un futuro che non si materializza, si infilerà ancora una volta la borghesia rapace legata alla rendita, condizionando pesantemente la traiettoria evolutiva della città.

Di questo conflitto sul destino della città, di cui sono piene le cronache dell’epoca, nel film non c’è purtroppo traccia, come opportunamente ha fatto notare Goffredo Fofi nella recensione pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno. Studenti e disoccupati si scontrano con la polizia sullo scalone dell’università, ma è un’immagine quasi subliminale. La macchina da presa si disinteressa agli scontri per “chiudere” sulla protagonista immersa nel dramma della gravidanza indesiderata e totalmente estranea rispetto alla storia che si sta facendo attorno a lei. Alla borghesia chiattilladi cui Partenope è espressione (e a Sorrentino che ne abbraccia evidentemente la prospettiva culturale), abituata a guardare al mare dalle terrazze di Posillipo e dai baretti di Chiaia e a volgere le spalle alla città, è preclusa la comprensione di tutto ciò che nella dimensione urbana è estraneo ai propri interessi di classe. Nell’immaginario dei suoi membri, il proletariato urbano è sistematicamente rimosso e il sottoproletariato può essere colto solo come singolarità antropologica.

In sintesi, Sorrentino cerca di tessere un film sull’intreccio di storia individuale e storia collettiva, ma finisce a mio avviso per fare male l’una e l’altra cosa. La storia individuale manca di verosimiglianza psicologica (e quindi di potenza drammatica), e la storia collettiva manca di radicamento nella realtà della città di quel periodo storico. Il che potrebbe anche non essere un grandissimo problema, se la narrazione di Napoli rimandataci dallo schermo non contribuisse a consolidare nell’immaginario dello spettatore luoghi comuni fatti apposta per nascondere ai suoi occhi il ruolo chiave dei gruppi di interesse che muovono i fili della vicenda della città. «Lasciarsi andare» e godersi passivamente le immagini che scorrono sullo schermo, come Sorrentino ci invita a fare, potrebbe essere una prospettiva interessante, se sullo schermo non si finisse per discutere velatamente di questioni di grande rilevanza per il presente e il futuro di circa un milione di persone e se il sottotesto non fosse intriso di quell’ideologia della rimozione del conflitto che da trenta anni egemonizza la produzione culturale nazionale, producendo danni enormi sul piano della capacità di comprensione degli snodi politici cruciali della nostra storia recente.

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