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Le acque della fine: le contraddizioni del film Flow


21 Nov , 2024| e
| 2024 | Terza Pagina

“L’assenza di futuro è già iniziata”, scriveva Günther Anders osservando quanto l’apocalisse di Hiroshima e di Nagasaki avesse eclissato l’umano sperare in un domani, quella fiducia profetica in un mondo-per-l’uomo che, con rivoluzioni, progressi o regressi, si donasse, comunque, come pensabile, vivibile nell’attesa, costruibile, appunto, nella Speranza[1].

È proprio per l’uomo che in Flow (2024), film d’animazione diretto da Gints Zilbalodis, quel futuro viene del tutto a mancare. E, probabilmente, solo per lui.

In un acquatico spazio post-Antropocene, in cui dell’uomo si mostrano solo tracce e lacerti (case, sculture, templi di un passato passato), starà alla natura ricostruire, in un certo senso, la sua casa. La trama è semplice ed essenziale: un piccolo gatto nero, per sopravvivere alle improvvise ondate che travolgono inaspettatamente la terra emersa – una sorta di nuovo frastornante diluvio universale – trova rifugio, insieme a un pigro capibara, all’interno di una vecchia barca a vela, che lo trasporterà, arca-salvezza, via via, di altri animali, in un viaggio silenzioso e magico, fluttuando sul mondo sommerso. Un gatto e un capibara, quindi, e un cane, un lemure, un uccello serpentario, che scivolano in uno spazio sconfinato di acque, foreste e città perdute: forse spazio più interiore e simbolico che esteriore e reale, più una sorta di Bardo Thodol di attesa e rinascita, che un terra storica del dopo-umano; uno spazio abitato da mostri preistorici (è in gioco un eone geologico e simbolico), e avvinto in un gorgo fluviale di emersioni e risucchi di tempesta. Sfidano, questi animali animalissimi, tentazioni umanissime (tribù, specchi, egoismi, distrazioni, paure), costruiscono reciprocità e, vicendevolmente, si salvano. Coerentemente con l’universalismo arcaico della tradizione favolistica, il loro rapporto, cosciente ma mai davvero antropomorfizzato, diventerà così il tessuto simbolico su cui si darà il destino di una possibile comunità del domani. Flow, in fondo, parla di questo: di ricerca, di salvezza, di ciò che rimane, quando si eclissa il volto dell’uomo. Una sola immagine, per lui, che lo rappresenti: una testa scolpita, senza identità, in attesa di essere, anch’essa, avvolta nell’acqua: la sua speranza appartiene, di fatto, al “no future”.

Ecco, forse proprio su questo punto – la scomparsa (distopica) dell’umano – può essere trovata la chiave per porre criticamente al sofisticato film di Zilbalodis almeno una questione, delle tante che si potrebbero sbalzare sulla sua superficie fluviale. Sì, la presenza ingombrante dell’uomo sulla terra pare sempre più giustificare, e da decenni, le fantasie di una sua disparizione. Nell’età dell’AI, dello zombie, dei cyborg, della datificazione della vita, nell’epoca della “crisi filosofica del soggetto”, il suo eclissarsi post-umano non è affatto qualcosa che elude un decennale sentire di sfondo; anzi, artisticamente, potrebbe sottesamente ribadirlo, confermarlo e – qui lo snodo che può essere messo in luce – accoglierlo, legittimarlo, auspicarlo.

Non si tratta affatto di difendere, di contro, un progressivo “ottimismo umanistico”, spesso colluso con una “metafisica” tecnologica che sfocia nell’ideologia di una salvezza informatica, programmabile, digitalmente messianica, e quindi intrinsecamente anticristica[2]. Quel cosiddetto ottimismo, che scommette sull’artefatto senza conoscere il “potere” in spirito dell’uomo, è troppo lontano dal riconoscimento del suo vero potere per non ridursi a quantificarlo, e a ucciderlo. Non sa che l’uomo è, con Pico della Mirandola, «interstizio tra la fissità dell’eterno e il flusso del tempo e (come dicono i persiani) copula, anzi imeneo del mondo, rispetto agli angeli (ne dà testimonianza Davide) solo un poco inferiore»[3]. Nessun ottimismo “tecnocratico” da difendere, quindi: quell’uomo tardo-antropocenico ha già svelato storicamente la consunzione della propria identità diffranta. Per quell’umanità, post-Hiroshima, si attenda il diluvio, la tempesta, la sommersione deflagrante. Per essa, si accolga il flusso diluviano che ne spazzi via l’arroganza, poiché l’assenza di futuro, a quel livello, è sempre stata (amen).

Altra cosa, però, è dimenticare in toto (forse ideologicamente), l’umano. L’umano: senza il quale il mondo non è mondo, la terra non è terra, l’universo non è universo; perché in un abbraccio teantropocosmico (Panikkar) l’unità profonda che intrama le esistenze, trova voce, parola, pensiero nell’uomo in cui questa unità si regala e può essere detta. Mondo, Dio, e Uomo, nella giusta postura di coscienza, sono Uno[4]. Il rischio, per Flow, è che, pensando la scomparsa post-apocalittica, post-umana, post-, dell’uomo si difenda, indirettamente, la scomparsa medesima di ciò che fa della vita uno spazio di senso, di unificazione, di unità. Gli animali non “parlano” (anche se a loro modo, parlano), perché non nominano la realtà, non possono ricostruirla, trasformarla, rivoluzionarla. Si comprendono, nella loro straordinaria mimetica digitale, abbastanza da onorare il proprio affetto. Sono dotati, cioè, utopicamente, di quel virgulto di coscienza (naturale, divina, e umana) che li fa essere amici nonostante tutto, nella stessa misura in cui però, per allusione ed implicitamente, (appunto, distopicamente), quello stesso virgulto (naturale, divino e umano) è sottratto all’uomo, in realtà suo detentore regale, insieme a loro, e non contro di loro.

In realtà sottrarre l’uomo significa liquidare (flow) ogni speranza nel domani, annegarsi in quanto donatori di senso, in quanto“logoi”. Affermare, con un linguaggio sofisticato e una tecnica sopraffina, quanto troppo spesso, con parole soffocate e insipienti, si sente per le strade delle nostre megalopoli stanche: che non c’è un domani in cui sperare, non c’è un futuro per cui giocarsi la vita, non c’è un umano da salvare.

La contraddizione più sottile e bella di Flow finisce del resto per trovarsi in ciò che nel mondo-senza-uomini è, di fatto, intrinsecamente umano: il racconto di quella stessa fine. Prima che una storia di Gaia, infatti, Flow appare agli spettatori come una straordinaria e stupefacente fantasmagoria digitale. Il flusso cui allude il titolo non è solo la fluidificazione di una coscienza che, acquaticamente, fluttua su un mondo alla deriva; è il flusso dell’acqua simulata dalla tecnologia del software Blender, il virtuosismo elegante e dettagliato dei giochi di luce e colore, della spuma, del riflesso, della pioggia. È il flusso di una telecamera virtuale che scivola liberamente negli spazi metamorfosandosi nelle più varie situazioni ambientali.

È molto strano, si dovrebbe riconoscere, e sanamente paradossale, che il mondo-senza-uomo finisce per essere raccontabile esattamente da ciò che quell’uomo ha inventato per dirlo. Che la tecnica digitale, così distante (fuor di metafora) dalla terra, dall’acqua, e dai boschi, diventi l’occasione per costruire un immaginario credibile e stupefatto di terra, di acqua e di boschi. Ecco la contraddizione: che nella distopia anti-antropica di Flow, la tecnologia dell’uomo morente racconta la storia del suo stesso superamento.

Non appena l’uomo alle soglie del nuovo millennio si accorgerà che quella tecnica nasce da un bisogno di corrispondere al creato, che ogni tecnica sgorga da ciò che nell’uomo è sorgivo, creativo ed eterno; allora forse potrà immaginare un domani. Una speranza che non si giochi nell’opposizione, fittizia e falsa, tra progresso tecnico ad infinitum e scomparsa dell’umano ad nihil (in entrambi, infatti, è negato l’uomo), ma nella riscoperta della scaturigine altra che fonda ogni umano (e naturale) pensare, creare, costruire, anche, se non soprattutto, dopo Hiroshima.

Del resto, come recitano i versi del poeta Marco Guzzi, finire fa rime con fiorire: / ma solo gli amanti lo sanno[5].


[1] Anders G., Le Temps de la fin, L’Herne, 2007, p213.

[2] Quinzio S., La sconfitta di Dio, Adelphi, 1992.

[3] Pico della Mirandola, Oratio de Hominis Dignitate, Einaudi.

[4] Panikkar R., Visione trinitaria e cosmotendrica. Dio-uomo-cosmo, Jaca Books, ed. Milano 2023.

[5] Guzzi M., Lo sentiamo, il pericolo cresce, da Facebook: il profilo dell’uomo di Dio, Paoline ed., 2017.

Di: e

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