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Nichilismo della forma politica e logica dell’insorgenza. In margine a un testo di Carmelo Meazza

La tragedia a cui sembra essersi consegnato il Politico negli stati europei negli ultimi trent’anni – tragedia egualmente composta tanto di impotenza verso i problemi strutturali posti dalla vittoria temporanea della globalizzazione, quanto afasia per l’incapacità di tematizzare, e persino di nominare, i suddetti problemi – sembra avere origini ben precedenti al crollo del muro di Berlino e l’affermazione, apparentemente assoluta, di un capitalismo anomico e di un individualismo sfrenato, entro cui sembra confinata ogni risposta possibile e ogni caduco tentativo di insorgenza. In effetti, il nichilismo del postmoderno sembra trovare luogo già in alcune figure teoriche della modernità. È quindi impreteribile urgenza capire che l’origine di questi mali è da identificare negli strumenti della cattiva metafisica. E, senza che questo sia un momento speculativo separato o consecutivo, pensare e nominare quelle nuove categorie che costituiranno non solo lo spazio teorico, ma anche, e soprattutto, lo spazio di agibilità politica per la prassi del XXI secolo.
Questo è il tentativo che prova a fare il prof. Carmelo Meazza, ordinario di filosofia morale a Sassari, in una delle sue ultime monografie: Il nichilismo della forma politica. Nell’eredità del comunismo im/possibile di Jean-Luc Nancy (Orthotes, Napoli 2024). Come dice il titolo, il saggio non è una monografia integralmente dedicata al filosofo francese, ma si rifà ad alcune sue intuizioni, portandole alle estreme conseguenze teoretiche.
Per capire cosa intenda Meazza con “nichilismo della forma”, dobbiamo ricostruire quello che, nei primi capitoli del saggio, viene individuato come vizio strutturale di ogni fondazione. Ogni ente, in quanto de-limitato, è già consegnato costitutivamente alla propria scomparsa, in quanto depositato nella possibilità della propria stessa negazione. La mela è fissata in ente perché in quanto ente è imminente la possibilità della sua negazione: che marcisca, germogli in melo, che venga mangiata et similia. Ma se io edifico qualcosa su un ente tutto quanto ciò che v’è sopra – il fondato – oscilla nella possibilità della nientificazione insieme al fondamento. Da un lato, il fondato recrimina al fondamento di non essere davvero tale, di dovere retrocedere e precedersi affinché la propria pretesa di fondamento sia veramente tale; dall’altro, il fondamento non può che ribadirsi come ente più ente degli enti, radicalizzando la propria posizione sull’orlo della negazione. Per usare le parole di Meazza:
Una fondazione fonda e assicura, assicura in un fissaggio, in una determinazione che tanto più è stabilizzata e protetta nell’assicurazione, tanto più cede e sprofonda sul suo asse di fondazione e tanto più sprofonda tanto più reclama un supplemento di fondazione. I due momenti si alimentano a vicenda come i due fuochi di un’ellisse. [1]
La polarità che, nella metafisica, rispecchia questa ellisse altro non è che la divisione in materia e forma. Da Aristotele in poi, la forma è ciò che l’ente è di determinato e la materia di indeterminato. Più la forma si radicalizza, più ribadisce la possibilità immanente che la materia possa sgusciare via e tornare informe, e più ci si avvicina a questa possibilità, più è necessario il richiamo alla forma stessa.
Ecco quindi l’ontologia sociale della modernità, descritta dal Leviatano di Thomas Hobbes: la statualità è che un ente in cui la forma costituzionale fissa la materia sociale sempre sospesa nella possibilità del caos, cioè della guerra civile. La guerra civile è perennemente richiamata dal potere statale per giustificare la propria irreggimentazione, e così l’inizialità, in quanto luogo originario e garante di questa corrispondenza ileomorfica. La paura suprema della vittoria del caos sull’ordine si implica reciprocamente con la totalizzazione dei rapporti sociali. Ma questa paura è la premessa stessa alla nientificazione. Con Schmitt, infatti, Meazza ricorda come
[…] tanto maggiore è la violenza sovrana tanto minore è la vigenza e quindi la durata storica dell’ordinamento. [2]
Se noi prendiamo questa struttura ileomorfica, cioè comunità caotica a cui applicare una forma sociale, allora reazione e rivoluzione (quest’ultima per come è stata sempre teorizzata) condividono molto di più di quanto non sembri. Entrambe un richiamo strutturale a una miticità proiettata nel tempo: all’indietro per quanto riguarda la prima, sotto forma di età dell’ora; in avanti per la seconda, sotto forma di utopia. Entrambe concepiscono il loro ideale politico come una forma entro cui ridurre tutta la caotica effettività del corpo sociale. La loro categoria metafisica è la possibilità: comunità possibile, da restaurare o da rivoluzionare. Entrambe queste ideologie agiscono nei limiti del nichilismo della forma. Come abbiamo visto, infatti, la possibilità è il luogo del nichilismo, giacché non ci interessava il suo effettivo scivolare del non ente, ma solo la sua presenza ondeggiante nel baratro di questa possibilità. O, come dice Meazza:
Il nichilismo della forma sta già nel rango di una condizione di possibilità. [3]
Come dice Meazza, l’intenzione è quella di salvare il comunismo dal nichilismo della forma della progettualità, e non di salvare il lato della reazione.
Il primo passo è quello di comprendere tutte le implicazioni della portentosa frase di Jean-Luc Nancy:
La comunità ci è data con l’essere e come l’essere, ben al di qua di tutti i nostri progetti, volontà e tentativi. In fondo, perderla ci è impossibile. [4]
L’essere è la comunità, che semplicemente accade. La comunità trascende l’immanenza degli enti, costitutivamente prigionieri della possibilità della stessa fine. La comunità non è frutto di una operazione, ma semplicemente si dà, la si accoglie nel suo darsi e la si dona. Questo semplice darsi della comunità, però, tradisce, ad avviso di chi scrive, alimenta una incomprensione di Nancy, che disegna una incredibile ontologia comunitaria ostinandosi però a chiamarla comunismo in luogo di comunitarismo. In ogni caso, da questa pagina si eleva l’orizzonte della nostra ricerca:
[…] la comunità esige una figura della prassi che sospenda e abbandoni la categoria del possibile. [5]
La linea teorica di Nancy, per quanto feconda, rimane nei confini del comunitarismo perché non è in grado di fondare teoreticamente le ragioni di una insorgenza comunista, sottratta, naturalmente, alla progettualità e al nichilismo della forma. La risposta di Meazza si articola nel terzo capitolo, La manifestazione e il piano di immanenza. Logica diagonale di una insorgenza.
Noi sappiamo, con Nancy, che stiamo lavorando con un trascendente ben diverso dalla cattiva trascendentalità a cui pure sarebbe riferibile una certa differenza ontologica tra ente (al di qua) ed essere (al di là). Scrive il pensatore francese, poco dopo il passo citato sopra:
La comunità, quindi, è la trascendenza; ma la ‘trascendenza’ che cessa di avere un significato ‘sacro’ non significa appunto nient’altro che la resistenza all’immanenza […]. [6]
La trascendenza non sarebbe altro che questa impermeabilità al transeunte, rispetto a ogni lesione ontologica di cui le più disparate soggettività potrebbero promuovere. La conseguenza più drastica di questo, e che trova riscontro diretto con l’impostazione di Meazza, è che se la cattiva trascendenza (cioè la trascendenza proiettata in un fuori) è negata, allora l’ente deve rifuggire questo di fuori ed essere proclamato come nient’altro che ente, una piena positività dell’ente, una sua certa convertibilità con l’essere e l’abbandono radicale di ogni tipo di relatività con il niente, entro cui rimarremmo nella cornice della cattiva metafisica e nel nichilismo della forma. Non «l’ente non è niente» ma «l’ente non è nient’altro che ente». Principio di eccedenza, istanza antimetafisica di manifestatività che in qualche modo possiamo trovare nella dirompente frase di Parmenide secondo cui «l’essere non è non essere», che potremmo quasi rileggere come la prima formulazione di questa pienezza manifestativa dell’ente che stigmatizza e rifugge la semplice negazione del niente[7].
Il comunitarismo di Nancy è così radicalizzato da Meazza: se niente è solo un certo modo di dire altro, e altro va radicalizzato al punto di dire nient’altro che ente, il comune-tra-noi deve essere spogliato dalla relatività della relazione: ovvero, io non posso pensare il comune come una semplice comproprietà, o come una produzione comune, incastonato nei due termini di una relazione. La terra comune non è comune se possiamo dircene tutti possessori per una parte; non è il comune neanche l’appartenenza familiare, che ci vede legati da un comune denominatore genetico, sociale od onomastico. Il comune che andiamo a cercare, invece, è proprio la relazione spogliata dalla relatività dei relativi: ovvero, l’eccedenza dalla relazione. E se il comune è un certo modo di nominare l’improprietà tra noi, questo resto rispetto alla totalizzazione, allora potremmo dire, con Meazza, che
Il reale è il nome che si deve dare a questa diagonalità dell’irrelato rispetto ai relati. Una diagonalità simultanea alla relazione. Non c’è relazione, se il reale non nomina questo irrelato come altro dall’essere l’uno semplicemente altro dell’altro. In questa figura teorica il reale è simultaneo a una relazione e dichiara un comunismo come il piano di immanenza assoluto rispetto a una relazione. [8]
Ora, abbiamo capito che l’unico modo per radicalizzare questa alterità è concepirla come alterità dall’uno e dall’altro della relazione. E da questo abbiamo capito che comune, realtà e improprietà nominano la stessa cosa. Ma in questo passo viene messo in relazione il comunismo a questo piano di immanenza. Capire il legame ci permette di comprendere la logica dell’insorgenza in grado di liberare finalmente il comunismo dalla possibilità.
La lesione ontologica della totalizzazione sociale predica un comune legato alla proprietà e alla produzione: una relazione totale in cui tutto si pone al di qua dei relati. Porsi come semplicemente oppositivi a un sistema dato comporta partecipare di questa relatività, collocarsi all’interno, riconoscerla, promuoverla e, in quanto semplicemente negarla, riaffermarla. Impossibile, leggendo queste pagine, non pensare alla storia della contestazione in Europa degli ultimi sessant’anni, dal Sessantotto in poi, dove orde di giovani marcianti e nichilisticamente oppositivi si sono poi ritrovate, entro al più un decennio, dall’altro lato della barricata. Questo passaggio teorico ci aiuta a capire perché ciò è avvenuto, e perché non c’è in alcun modo contraddizione con questo apparente ribaltamento di posizioni. Oppure possiamo riflettere sulla futilità della distinzione tra destra e sinistra nel momento in cui queste si definiscono solo in maniera blandamente oppositiva l’una rispetto all’altra, facendole precipitare in una vera e propria coincidentia oppositorum. Pensiamo, aggiungiamo noi, quale incredibile avanzamento sulle categorie politiche dei diritti umane, dettate da un cattivo razionalismo e illuminismo, se iniziassimo a pensare la comune umanità e l’universalità del diritto come l’improprio tra noi e non come qualcosa che è proprio di tutti, e di cui, va da sé, incombe la presenza costante della lesione che disegna un qua e un là, civiltà e barbarie, il giardino e la giungla: insomma, la guerra umanitaria i cui dispositivi ideologici sono già stati abbondantemente disinnescate, per citare solo due pensatori, da Carl Schmitt o Danilo Zolo. E proprio Schmitt in qualche modo interrompe questa tradizione metafisica. Come ricorda Meazza, Schmitt ribadisce che non si applicano regole al caos. Ovvero: l’assolutezza (vincolo dai legami) dello stato d’eccezione è tale solo dal punto di vista dell’ordinamento, e non della situazione data[9]. Quanto più il potere prova a forzare questa situzionalità, quanto più si consegna a un supplemento di forza arbitraria che testimonia, in realtà, la fragile precarietà di quel potere costituito stesso. In qualche modo, ci dice lo Schmitt riletto da Meazza, il cattolicesimo romano gode di questa inconcepibile potenza politica che riesce a nominare l’antepolitico o pregiuridico alla base dell’inerenza della forma politica al corpo sociale. Il tempo del cattolicesimo non è il tempo dell’economia politica perché la natura che ha di fronte non è l’informe barbarico alla base del lavoro produttivo. Il lavoro, viceversa, si adatta alla terra, seguendone le faglie.
In conclusione: per irrompere nella storia, se è vero che l’opposizione semplice è un altro modo per riaffermare la totalizzazione, e se questa opposizione è legata al regime relativo della proprietà, è necessario saper nominare il reale: cioè, porsi diagonalmente rispetto alla situazione data; concepire la temporalità non nell’“al di fuori” di un passato o un futuro che si impongono come condizione di possibilità dell’azione, ma aderire in questa strana immanenza del tempo dato; instaurare una potenza costituente che abbandoni le velleità spontaneistiche del movimentismo a favore di una potenza costituente che non vive il proprio inizio con l’inizialità, puntuale e ni-entificatrice di un evento, ma con la dirompenza di chi riesce ad accompagnarsi sempre al proprio inizio.
Dal comunitarismo di Jean-Luc Nancy al comunismo di Carmelo Meazza. Questa prospettiva permette di rileggere in modo compiuto e costruttivo la storia del Novecento, offrendo una apertura che, solo nella pratica della filosofia politica potrà trovare il campo ultimo di verificazione.
[1] Carmelo Meazza, Il nichilismo della forma politica. Nell’eredità del comunismo im/possibile di Jean-Luc Nancy, Orthotes, Salerno 2024, p. 23.
[2] C. Meazza, Il nichilismo della forma politica, op. cit., 77.
[3] C. Meazza, Il nichilismo della forma politica, op. cit., 37.
[4] Jean-Luc Nancy, La communauté désoeuvrée, Christian Bourgois Éditeur, Paris 1986; trad. it. di A. Moscati, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 2013, p. 78.
[5] C. Meazza, Il nichilismo della forma politica, op. cit., 9.
[6] Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa, op. cit., p. 79.
[7] Cfr. C. Meazza, Il nichilismo della forma politica, op. cit., pp. 47-48.
[8] Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa, op. cit., p. 67.
[9] Cfr. C. Meazza, Il nichilismo della forma politica, op. cit., p. 94.
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