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Tutela dei diritti umani e divieto di ingerenza: il caso del Sudan


2 Dic , 2024|
| 2024 | Visioni

L’11 settembre 2024 il Consiglio di Sicurezza ONU ha adottato la terza risoluzione riguardante il Sudan dallo scoppio della guerra civile, nell’aprile 2023. Come per le due risoluzioni precedenti, tuttavia, anche questa non ha prodotto alcun effetto significativo. La risoluzione ha confermato sanzioni, esteso l’embargo sulle armi e ricordato alle parti belligeranti l’importanza di “assicurare la protezione dei civili”. Nel preambolo si richiamano numerose risoluzioni adottate in precedenza sul Sudan, risalendo fino al 2005. Si nota, tuttavia, l’assenza della risoluzione 1706 del 2006, che molto avrebbe a che fare con la situazione odierna. E non è la prima volta, tanto che questa delibera si è guadagnata il soprannome di “risoluzione dimenticata”.[1] Nonostante alcuni difetti, la 1706 è stata la prima risoluzione country-specific a contenere un riferimento alla dottrina di intervento umanitario detta Responsibility to Protect (R2P), adottata proprio per autorizzare una missione di pace nella guerra civile di allora, in Darfur (uno dei numerosi conflitti interni che hanno afflitto il Sudan fin dall’indipendenza). Ma perché la R2P non compare nei dibattiti del Consiglio di Sicurezza sulla questione sudanese?

La R2P e la situazione sudanese

La R2P, approvata dal World Summit dell’ONU nel settembre 2005, legittima l’intervento del Consiglio di Sicurezza (se necessario, anche con la forza) per sopperire a un governo che abbia “manifestamente fallito” nella propria responsabilità di proteggere la popolazione da crimini atroci. La R2P era stata ideata alla fine degli anni ’90 per risolvere il dilemma tra difesa della sovranità e difesa dei diritti umani, permettendo alla comunità internazionale, in casi gravi, di intervenire a scopo umanitario negli affari interni di Stati sovrani.[2]

L’origine dell’attuale guerra civile in Sudan è da ricercarsi nei contrasti sorti tra le due fazioni militari che da cinque anni determinano le sorti del paese: le Sudan Armed Forces (SAF), esercito governativo guidato dal generale e attuale presidente Abdel Fattah al-Burhan; e le Rapid Support Forces (RSF), milizia collaterale dell’esercito, ma autonoma, con a capo il generale Mohamed Dagalo “Hemedti”. I due hanno avuto un ruolo di primo piano nel rovesciamento del trentennale regime di Omar al-Bashir – di cui peraltro facevano parte – attraverso un colpo di stato nell’aprile 2019. In seguito, i militari hanno permesso la formazione di un governo civile, salvo rovesciarlo con un nuovo colpo di stato nell’ottobre 2021, sempre orchestrato dal duumvirato Burhan-Hemedti. I contrasti tra i due non hanno tardato però a manifestarsi, in particolare intorno alla spartizione dei posti di potere e alla questione dell’assorbimento delle RSF nell’esercito regolare, che avrebbe in sostanza segnato lo scioglimento della milizia. Queste tensioni sono sfociate prima in piccoli scontri a Khartoum, per poi degenerare in conflitto aperto dalla metà dell’aprile 2023. La guerra vede anche il coinvolgimento di attori esterni quali Egitto ed Emirati Arabi Uniti, che sostengono rispettivamente le SAF e le RSF, con materiale bellico e finanziamenti.

Dopo quasi venti mesi di combattimenti, l’attuale situazione in Sudan presenta tutti i tratti di un caso in cui la R2P potrebbe essere invocata: la guerra ha causato milioni di sfollati interni e la fuga di una massa di rifugiati nei paesi confinanti; la popolazione civile è oggetto di attacchi indiscriminati e violenze diffuse da parte di entrambi gli schieramenti; la situazione alimentare e sanitaria è sempre più grave e gli aiuti umanitari faticano a raggiungere le zone più a rischio.[3] Tuttavia, ad oggi, l’unico richiamo alla R2P è arrivato da una risoluzione del Consiglio per i Diritti Umani, organo dotato di un potere più che altro simbolico. Il Consiglio di Sicurezza non è stato in grado di agire in base alla dottrina, sia a causa delle profonde divisioni politiche (soprattutto tra i membri permanenti), sia per le controversie che a partire dall’intervento in Libia del 2011 hanno minato il dibattito sulla R2P. L’assenza di un riferimento, anche indiretto, alla dottrina nelle risoluzioni del Consiglio sembrerebbe indicare una certa riluttanza delle grandi potenze ad affrontare la crisi sudanese in un framework potenzialmente efficace. Il problema, però, non è soltanto la R2P – che, se non viene inserita in risoluzioni sul Sudan dalla cacciata di Omar al-Bashir dal potere nel 2019, viene comunque spesso citata dal Consiglio di Sicurezza (l’ultima volta a maggio 2024, in una risoluzione sul Sud Sudan). Il vero problema è il timore che un intervento in base alla R2P possa essere strumentalizzato per influire sull’andamento della guerra e cristallizzare una nuova frammentazione del Sudan (dopo la secessione del Sud Sudan nel 2011).

Verso un intervento umanitario?

Nelle ultime settimane alcuni movimenti e dichiarazioni diplomatiche hanno messo in luce una dinamica interessante.

Il 7 novembre il governo sudanese ha accusato in modo esplicito le RSF di intensificare deliberatamente il conflitto e il suo impatto sulla popolazione civile, al fine di provocare un intervento militare internazionale “con il pretesto di proteggere i civili”. In pratica, le RSF punterebbero ad innescare un intervento esterno nel conflitto, che potrebbe prendere la forma di un’operazione sotto la R2P. Secondo il Ministro degli esteri sudanese, tale intervento aiuterebbe le RSF ad “evitare la sconfitta” e a mantenere i territori conquistati finora.[4]

Se tale accusa non è dimostrabile, tuttavia ci sono indizi che qualcosa si stia muovendo a livello internazionale, in particolare dalle parti di Londra. Il 31 ottobre, l’ex-primo ministro dell’effimero governo civile e leader del Sudanese Coordination of Civil Democratic Forces, Abdalla Hamdok, ha partecipato ad un evento della Chatham House, suggerendo la necessità di implementare una no-fly zone e delle aree sicure in Sudan, e arrivando a ventilare la possibilità di un “coraggioso” intervento internazionale “boots on the ground” a protezione dei civili. Davanti alla sede del prestigioso think tank inglese ci sono state contestazioni da parte di membri della diaspora sudanese, sostenitori di al-Burhan e dell’esercito governativo.[5]

L’11 novembre l’Inghilterra, che ricopre la presidenza di turno del Consiglio di Sicurezza, ha annunciato l’intenzione di sottoporre al Consiglio una nuova bozza di risoluzione per garantire l’accesso di aiuti umanitari anche senza l’autorizzazione del governo, in particolare facendo riferimento all’importanza del valico di Adré, al confine tra Ciad e Darfur occidentale.[6] La zona (come quasi l’intero Darfur) è sotto il controllo delle RSF, nonostante la presenza di altri gruppi armati “neutrali”. Il passaggio è essenziale sia per la fuga degli sfollati, sia per l’afflusso di aiuti alle regioni più colpite dalla guerra, Darfur e Kordofan, ma è anche utilizzato per il traffico di armi verso i belligeranti, proibito dal Consiglio di Sicurezza.

Appena due giorni dopo, il governo sudanese ha confermato l’apertura del valico di Adré, estendendo in extremis il permesso di tre mesi che sarebbe scaduto il 15 novembre.[7] La mossa di Khartoum ha reso superflua una delibera del Consiglio di Sicurezza atta a garantire l’apertura del valico. Il problema è che, se da un lato si vuole evitare un intervento internazionale, che potrebbe essere innescato da una chiusura dell’accesso agli aiuti, dall’altro le RSF vengono rifornite di armi attraverso questo passaggio.

Il 18 novembre la Russia ha bloccato l’adozione della risoluzione proposta dall’Inghilterra, approvata dagli altri quattordici membri del Consiglio. La seduta è stata particolarmente turbolenta: la Russia ha accusato l’Inghilterra di atteggiamento “neo-coloniale”, mentre il rappresentante britannico puntava il dito contro il “meschino” e “cinico” veto russo.[8] La Russia si è detta preoccupata circa il linguaggio della bozza, giudicato poco chiaro nell’individuare come sola autorità legittima il governo di al-Burhan e nell’escludere la possibilità di un dispiegamento di forze internazionali nel paese. Anche gli ambasciatori di Algeria e Cina, nonostante il voto favorevole, hanno espresso riserve sul testo della risoluzione. Il rappresentante di Khartoum al Consiglio ha criticato “certi attori” (ed esplicitamente gli Emirati Arabi) che punterebbero a minare l’integrità territoriale del Sudan attraverso un intervento internazionale, e ha lamentato l’aumento delle consegne di armi alle RSF attraverso il valico di Adré.

Divisioni, sospetti, reticenze: uno “stallo alla sudanese”

Ora, è possibile fare alcune considerazioni in ragione di quanto sopra descritto.

Innanzitutto, al-Burhan ha preferito estendere l’apertura del valico di Adré, pur sapendo che ciò favorisce il contrabbando di armi alle RSF, piuttosto che rischiare l’imposizione dell’apertura da parte del Consiglio. Il motivo per cui il governo di al-Burhan teme un intervento internazionale a protezione dei civili è che la sua legittimità ne uscirebbe fortemente compromessa, con ulteriori ripercussioni sulla fragile unità territoriale del paese. Le autorità ufficiali si sono già dovute trasferire da Khartoum a Port Sudan, e una forza di pace ONU staziona dal 2011 nella regione meridionale di Abyei, che di fatto è sottratta al controllo governativo. Nel luglio 2023 al-Burhan aveva rifiutato la proposta dell’IGAD (Intergovernmental Authority on Development) e del presidente kenyota, William Ruto, di dispiegare una forza di pace africana in Sudan, accusando Ruto di avere legami con le RSF.[9]

Inoltre, il Sudan, da sempre tra i paesi più scettici sulla R2P, cerca l’appoggio di Cina e Russia, membri permanenti del Consiglio che condividono una visione critica della dottrina. Curiosamente, l’accusa alle RSF di voler alzare il livello dello scontro per provocare un intervento internazionale ricalca quella mossa proprio dai russi all’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK), all’epoca dell’intervento NATO in Serbia del 1999. Cina e Russia, così come gli altri membri BRICS, si sono inoltre opposti ad ulteriori applicazioni pratiche della R2P dopo il disastro dell’intervento in Libia del 2011.

Infine, la crisi sudanese evidenzia la complessità di applicare la dottrina della R2P in un contesto di profonde divisioni in seno alla comunità internazionale. Da un lato, l’impasse nel Consiglio di Sicurezza dimostra i limiti strutturali della governance internazionale, in cui gli interessi nazionali sovrastano spesso la protezione dei diritti umani. Dall’altro lato, la situazione sul campo richiede risposte urgenti e coordinate, pena il perpetuarsi di una tragedia umanitaria che ha ormai raggiunto proporzioni ragguardevoli.

Per superare questa crisi sarebbe essenziale rafforzare il dialogo tra i principali attori internazionali, cercando compromessi che garantiscano la neutralità delle operazioni umanitarie. Sarebbe inoltre utile integrare l’approccio R2P con il coinvolgimento di organizzazioni regionali autorevoli, come l’Unione Africana, il cui statuto prevede il diritto all’intervento umanitario (art. 4).

Fino a quando la R2P verrà strumentalizzata per fini politici sarà sempre percepita, soprattutto nelle ex-colonie del “Sud Globale”, come il mascheramento di ingerenze indebite di potenze straniere negli affari interni di Stati sovrani, e non come un necessario e positivo progresso verso il superamento della contrapposizione tra difesa dei diritti umani e difesa della sovranità.


[1] Williams Paul D. e Black David R. (dir.), The International Politics of Mass Atrocities: The Case of Darfur, London: Routledge, 2010.

[2] Bellamy Alex J. e Dunne Tim (dir.), The Oxford Handbook of the Responsibility to Protect, Oxford University Press, 2016.

[3] «Sudan: One Year of Conflict – Key Facts and Figures», OCHA, 14.04.2024, https://www.unocha.org/publications/report/sudan/sudan-one-year-conflict-key-facts-and-figures-15-april-2024.

[4] «MFA denounces hosting RSF militia representatives to speak in foreign forums instead of classifying it as a terrorist organization», Sudan News Agency, 07.11.2024, https://www.suna-sd.net/posts/mfa-denounces-hosting-rsf-militia-representatives-to-speak-in-foreign-forums-instead-of-classifying-it-as-a-terrorist-organization.

[5] «Sudan’s ex-PM Hamdok labelled ‘traitor’ after calling for foreign intervention», Middle East Monitor, 11.11.2024, https://www.middleeastmonitor.com/20241111-sudans-ex-pm-hamdok-labelled-traitor-after-calling-for-foreign-intervention/.

[6] «UN Security Council considers action on Sudan war», Reuters, 11.11.2024.

[7] «Sudan extends opening of Adre crossing for aid delivery», Reuters, 13.11.2024.

[8] «S/PV.9786», UNdocs.org, 18.11.2024, https://undocs.org/Home/Mobile?FinalSymbol=S%2FPV.9786&Language=E&DeviceType=Desktop&LangRequested=False.

[9] «Tension Between Sudan, Kenya’s Ruto Impedes IGAD Mediation Effort in Sudan», Voice of America, 25.07.2023, https://www.voanews.com/a/tension-between-sudan-kenya-s-ruto-impedes-igad-mediation-effort-in-sudan/7195894.html.

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