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Volti del potere: Simon Boccanegra


2 Dic , 2024|
| 2024 | Terza Pagina

Nel luogo per antonomasia del potere per oltre duemila anni, Roma (oggi, nostro malgrado, non ci resta che osservarne i resti) va in scena la prima della stagione del Teatro dell’Opera dedicata appunto al tema dei volti del potere.

Ad aprire la stagione è il volto paterno di Simon Boccanegra, ma anche quello dilaniato dalle lotte fratricide e dall’azione del tosco.

Michele Mariotti, in un particolare momento della propria vita, dalla buca, coglie in pieno le sfumature dei singoli personaggi senza tuttavia disdegnare ritmi serrati, quasi isterici che amplificano le emozioni degli stessi; le minime imperfezioni nei duetti andranno via nelle prossime recite, già in netta diminuzione dal primo atto, superata l’ansia del debutto.

Particolarmente riuscita l’interpretazione dell’Amelia Grimaldi di Eleonora Buratto per impasto vocale e del Fiesco di Pertusi per emanazione dei fiati, anche se con voce poco corposa.

Sempre attenta la pronuncia verdiana di Salsi, mentre Pop in Gabriele Adorno risulta perfettamente a suo agio, molto meno convincente ed incisivo risulta essere Hakobyan nelle vesti di Paolo Albiani (comunque bravo nella scena della auto-maledizione).

Eccessivamente appiattita sulla sfera privata la regia lineare, minimale  e statica (le scene rimandano ai quadri metafisici di De Chirico) di Richard Jones, nella quale la politica è relegata a dei manifesti elettorali o all’effige scultorea dell’ultimo atto con i quali la politica di Simone sembra più propaganda che altro.

Il Simone, invece, è un dramma politico che assorbe sì la caratterizzazione psicologica dei personaggi che aveva determinato una svolta nella drammaturgia verdiana a partire da Luisa Miller e passando per la trilogia popolare, ma che rispolvera, anche, il tema del potere e più precisamente del suo peso su chi lo esercita come già era stato un decennio prima con opere quali il Macbeth e I due Foscari e come sarà successivamente in Don Carlos.

Ed infatti è possibile cogliere un parallelismo tra I due Foscari e il Simon Boccanegra, seppure nella maggiore consapevolezza musicale e teatrale della seconda; il doge di Genova e quello di Venezia sono schiacciati, in un’atmosfera plumbea e soffocante, dal loro ruolo pubblico e dal crudele destino, vero protagonista delle opere verdiane.

Anche il mare (grande assente ingiustificato di questa messinscena) è un elemento che accomuna le due opere, le onde sono evocate sin dalla scena introduttiva della seconda edizione del Simone ed è protagonista della morte verso l’esilio di Jacopo Foscari, ma non ha un ruolo liberatorio, bensì solamente nostalgico verso ciò che non è stato, di un’età della libertà ormai perduta (“Il mare!… il mare!… quale in rimirarlo/Di glorie e sublimi rapimenti/Mi si affaccian ricordi! – Il mare!… il mare!…/Perché in suo grembo non trovai la tomba?) .

Tuttavia non si deve ritenere un caso che Verdi, con la collaborazione di Boito, rispolveri quest’opera dopo oltre un ventennio, da un lato comprendendone le potenzialità non ancora espresse di un’opera che ha avuto minor successo di quello che meritava, dall’altro ne vuole lasciare un’immagine ancora più politica con l’introduzione della Gran Scena del Consiglio, in cui si mostra la capacità strategica del primo Doge di Genova nel raggiungere la pace con i Tartari, nel ricercare la pace tra Adria e Liguria in quanto “hanno patria  comune” (riprendendo il carteggio di Petrarca con le due Repubbliche), è qui evidente il patriottismo risorgimentale di Verdi molto più che nelle opere giovanili e nonostante siano passati vent’anni dall’Unità d’Italia mai del tutto raggiunta, e nel sciogliere l’intricata tela delle lotte intestine per il potere (le rivendicazioni delle famiglie dei Grimaldi e degli Adorno, oltre che sullo sfondo la sete di potere di Paolo, Pietro e Lorenzin l’usuriere).

Genova presentava, infatti, una struttura politica alquanto fragile, nella quale la ragion di Stato soggiaceva spesso all’ambizione individuale ed in cui il potere politico ed amministrativo era continuamente minacciato da interessi particolari di fazioni frammentarie e familistiche che non permettevano la stabilità nella creazione di un corpus politico unitario.

Anche le masse (plebe), in questo caso la potente borghesia mercantile genovese forte di capitali e assetata di potere (e non pescatori di salmoni norvegesi), rappresentata dal tribuno Paolo Albiani, non risultano più essere benigne e oppresse come nel coro dell’Atto IV del Macbeth, ma incrostate di avidità e malvagità, pienamente immerse nella lotta per il controllo della città.

Paolo Albiani è un anticipatore, per molti versi, di Jago, unici personaggi nell’intera composizione dell’autore, ad essere connotati negativamente senza che mai vi pervada un barlume di umanità che al contrario è ben presente in Macbeth come nel Conte di Luna che nella loro crudeltà sono, invece, vittime ancor più che carnefici.

Seppur questa risulti essere un’opera lugubre e cupa nella sua squisita tessitura musicale, non va comunque taciuto il messaggio di speranza che ne traspare, in quanto mentre la vicenda storica prosegue con lotte, intrighi ed esili, il soggetto narrato da Verdi, Piave e Boito, finisce con una riconciliazione nella morte tra le famiglie dei Boccanegra, degli Adorno e dei Fieschi.

In ultima battuta va, inoltre, segnalata la valenza etica del protagonista, buon padre di famiglia, privo di ambizioni, moralmente probo e che esercita con costanza lo strumento della clemenza.

Personaggio che tanto a cuore sta a Verdi e nel quale lui stesso si rispecchia come modello di uomo della Resistenza.

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