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Il suicidio di Israele è politico e spirituale


6 Dic , 2024| e
| 2024 | Visioni

Chiunque volesse avere dei lumi intorno alla posizione di Israele nell’attuale scenario mediorientale e mondiale non esiterebbe a cercarli presso gli esperti: analisti geopolitici, storici, opinionisti, economisti etc. Senza trascurare l’apporto indispensabile di queste discipline il presente articolo cercherà di decifrare il contemporaneo seguendo un’altra via di lettura, più strana, perché più antica, che lascio qui risuonare come una sfida: è possibile chiedere proprio alla Rivelazione di cui Israele è depositario quei lumi intorno alla sua attuale posizione geopolitica?

Questa domanda, per non scadere in pura provocazione, o per non scemare nell’assurdo, abbisogna preliminarmente di qualche spiegazione intorno alla sua legittimità. La via che proverò a seguire, e il lettore con me, vale a dire l’idea che il Testo Sacro, un testo la cui redazione risale a oltre 2000 anni fa, possa illuminare l’oggi, il senso e la presenza dello stesso popolo che la custodisce, è – dicevo – un’idea antica, perché si pone deliberatamente alle spalle almeno di due dei fondamentali assi emancipativi della modernità: la svolta, illuminista prima e liberale poi, della decostruzione storico-critica del testo sacro, e dunque la liberazione della coscienza umana (intesa come “ragione storica”) dalla soggezione al dogma, e – parallela e complementare – una fondazione puramente razionale, parimenti moderna, della sfera politica, la liberazione della coscienza, intesa stavolta – robespierranamente – come “ragione civile”, dalla soggezione al carattere sacrale del (di ogni!) potere. Le due cose vanno evidentemente insieme, così come agli Stati Generali del ’89 l’alto clero votava con i grandi di Francia. A questo punto il lettore più cauto paventerà, come è giusto, un ritorno al medioevo, all’integrismo di una lettera che, oggi, si riflette nelle innumerevoli interpretazioni fondamentaliste, più o meno settarie e fondamentaliste, della Bibbia. Proprio quelle che pretendono di rinvenirvi predizioni esatte, cronologicamente determinate. Quasi che il testo fosse un grande scatolone in cui fosse contenuto ogni futuro possibile. In realtà se la Bibbia è profetica il senso delle sue immagini non potrà essere meramente predittivo. Pensare l’Israele di Netanyahu attraverso il testo sacro che fonda la sua esistenza religiosa (e, forse, adesso anche politica) non significa pretendere che quest ultimo ci dica come andranno le cose prima che accadono. Essa presenta piuttosto dei codici, modelli, pattern o – come direbbe Eliade – delle strutture archetipiche entro le quali il presente (qualunque esso sia) può venire reso trasparente, e dunque pensato. Tenteremo così, senza privare gli storici della loro personale riserva di caccia, di vedere se sussista una qualche misura possibile fra le vicende dell’antico Israele e il suo presente, fra i fatti più recenti (dal ’48 in poi) della storia e la memoria sacrale millenaria di questo popolo. Forse che la storia si ripete? Su quali basi cioè (oltre a quelle dell’analisi geopolitica, evidentemente) è possibile parlare di un “suicidio – prossimo! – di Israele” (come si intitola per l’appunto il libro recente di Anna Foa)? La contaminazione linguistico-disciplinare che proponiamo è forse oggi addirittura necessaria se prestiamo fede ad alcuni appelli che si levano in Israele, volti a ricostituirne il sogno messianico (biblicamente giustificato) dell’Eretz Yisrael Hashlemah. Lungi dall’essere un semplice colpo di spugna, la nostra lettura mira a intercettare questo processo di giustificazione teologico-scritturale del governo di Netanyahu che è già in atto, e – al limite – a sovrapporsi ad esso.

Riassumeremo la nostra indagine in 5 punti

1)La Scrittura racconta la storia di Israele e del Dio poliade della sua dinastia regnante, nel tempo assurto all’ “Unico Dio”. Cosa ci racconta Israele su Israele? Il continuo (e continuamente frustrato) tentativo di costituirsi entro uno stato. Si noti bene, qui non parliamo ancora di uno Stato in senso proprio, con la lettera maiuscola. Prima di ogni statualità in senso politico Israele, più semplicemente, si vede di fronte all’impossibilità di tagliare i ponti con le sue radici originali, che sono nomadiche. È come se il cammino che dal Deserto conduce alla Terra di Canaan, e che segna la fase di transizione dallo stato pastorale dell’antica comunità a quello stanziale, legato alla coltivazione della terra, ai suoi ritmi e ai culti che vi sono connessi (Baal etc.…), è come se il cammino che è al principio della memoria sacrale del popolo stentasse a compiersi “una volta per tutte”, ad acquietarsi, a fermarsi in un punto stabile (uno “stato” nel senso più ampio) e a restare in esso.

2)Dal punto di vista più strettamente pragmatico, questa anima irriducibile di Israele si traduce in una inesausta tensione, una contraddizione interna che sfocia puntualmente nelle due grandi cesure della sua esistenza politica, che sono altrettante catastrofi della sua storia: la distruzione del Tempio nel 586 a.C., ad opera dei neobabilonesi, che segue agli splendori della monarchia davidico-salomonica duramente avversata dai profeti; la distruzione del Secondo Tempio nel 71 d.C., ad opera dei Romani, che segue al tentativo della dinastia sacerdotale regnante (gli Asmonei) di ricostituire Israele come entità politica, di fatto scomparsa nel 586 a.C. e ridotta, per secoli, a un insignificante vassallo del Regno di Persia. Questa “ricostruzione” volta a dare a Israele la parvenza di un’esistenza politico-pragmatica, e di cui quella del Tempio era il segno e il pegno, passò – storicamente parlando – attraverso l’annessione e la giudaizzazione forzata delle terre e dei popoli vicini (emblematico il caso della Samaria), spesso costretti alla circoncisione. L’obbiettivo dichiarato era quello di riportare Israele agli antichi confini del regno davidico. Anche questo tentativo di assicurare al popolo un’esistenza stabile (dotandolo di un esercito, un apparato diplomatico etc.) finì però in un nulla di fatto, e – con Tito – la diaspora riprese così come, per qualche secolo, si era interrotta.

3) Cosa si agita però sotto la superfice agitata di questi sommovimenti storici? Eric Voegelin, nel suo Order and History, parla, in riferimento ai fatti che portarono al 586, di un “suicidio politico” dell’antico Israele. L’espressione è forte e – anche se Voegelin pensava ai profeti quando la scrisse – ci riporta subito alla provocatoria formula di Anna Foa, e alle questioni di più stringente attualità. La ri-fondazione (la terza, nell’ordine) di uno Stato di Israele nel 1948, con il correlato progetto “in cantiere” di un nuovo grandioso Tempio, e la amplificazione militare dei confini fino a riportare Israele alla sua condizione originaria (davidica) come preparazione al tempo della venuta del Messia. Non bisogna fare confusione: certamente, queste tre direttive (spirituali e politiche, archetipiche e storiche) possono esprimersi separatamente e autonomamente, come fino ad adesso è stato, in modo cioè del tutto autonomo (così la Chiesa intende il suo riconoscimento dello Stato). E, tuttavia, il pericolo della loro convergenza non è mai stato così prossimo, e pressante. La stessa rifondazione del ’48 è un evento pressoché unico, in quanto nella storia degli ultimi tremila anni che ci sta alle spalle ha solo altri due precedenti. Riemergono così naturalmente i motivi anticamente connessi a questi ultimi:

Guai a voi, figli ribelli
– oracolo del Signore –
che fate progetti da me non suggeriti,
vi legate con alleanze che io non ho ispirate
così da aggiungere peccato a peccato.
Siete partiti per scendere in Egitto
senza consultarmi,
per mettervi sotto la protezione del faraone
e per ripararvi all’ombra dell’Egitto.
La protezione del faraone sarà la vostra vergogna
e il riparo all’ombra dell’Egitto la vostra confusione. (Is 30,1-3)

non c’è malignità, ma solo realismo, in chi vede nelle invettive dei profeti contro le alleanze militari-diplomatiche fra il “piccolo stato” e i grandi della terra una situazione-tipo che oggi si è semplicemente riproposta.

4)Il mistero del “suicidio politico” non per questo però è stato sciolto. Che i popoli smettano di esistere (vuoi perché sconfitti in battaglia e confluiti in un’unità superiore – come nel caso dell’Imperium – vuoi perché deportati e sterminati – come nel caso delle campagne Assire) è qualcosa in fondo, di ordinario nella storia del mondo. Straordinario è invece che il popolo stesso decida di non esistere, abbracci (almeno in una sua parte) questo suo non-essere, e anzi riconosca e trovi in esso proprio la maggiore fedeltà alla sua essenza. Un popolo dunque che è tale proprio negandosi come popolo? Che è tanto più sé stesso quanto più abdica a sé stesso? Un non-popolo che ha però, proprio in questa sua rinuncia, il suo più intimo segreto di popolo? E se questa rinuncia alla forma-popolo, qualora non venisse attuata liberamente, come nel caso della teshuva/ἐπιστροϕή predicata dai profeti, avvenisse comunque esplodendo contro il popolo stesso? E non è forse questa esplosione (di ciò che s’era negato) la stessa che distrugge il primo, e quindi il secondo Tempio, diroccando? la stessa che si cela dietro le antiche catastrofi (apparentemente solamente storico-politiche) di Israele? Non sono queste esplosioni lo stigma della sua elezione? La benedizione rovesciata in maledizione, la negazione-di-sé che, negata, diventa infine arma di distruzione contro gli altri popoli?

5) Di fatti il movimento di autonegazione che costituisce Israele nel suo nocciolo (“autocritica” potremmo anche dire oggi, a patto di non dimenticarci che “κρίσις/κρίμα” è la parola con cui la Septuaginta traduce lo YOM YHWH), questo movimento dischiude la Santità stessa a cui Israele, in quanto popolo di Dio è chiamato e a cui deve chiamare gli altri popoli. Potremmo dire, a costo di semplificare, che essere popolo di Dio è un Progetto di umanità innanzitutto, Progetto che – come purtroppo vediamo oggi – dopo tremila anni non è neanche ancora iniziato. Cosa significa infatti negarsi, per un popolo, se non tornare a Dio: convertirsi? Quest’ ultima parola va ascoltata, al di là di “Dio” e di ogni steccato confessionale o religioso, nel suo senso letterale: dove con-vergono i popoli se rinunciano a un modo di essere sé, quello determinato dalla violenza fratricida che oppone – da Caino in poi – le stirpi della terra, per iniziare a essere di nuovo, in un altro senso di sé, come nuovo popolo? Il suicidio di Israele non è allora solo politico ma – proprio in quanto tale – perfettamente spirituale. Ciò che è in gioco, nella la violazione dei basilari diritti umani nello stermino di Gaza, è infatti il Progetto Genetico di Umanità di cui Israele è (storicamente) custode, testimone, portatore. Il suicidio è spirituale perché Israele, proprio uccidendo, viene meno a sé stesso, tradisce nel modo più vistoso quel processo di Conversione Universale di cui avrebbe dovuto essere il primo e l’ultimo Testimone. Quel che dunque, se la storia si ripete, possiamo aspettarci, dati i pronostici degli ultimi millenni, è una terza morte di Israele che, come le altre due precedenti, non sarebbe altro che la manifestazione, sul piano storico-politico, di una morte già consumata, sul piano invisibile. Questa condizione equivale sì a un suicidio, ma a un suicidio che assomiglia, tuttavia, scandalosamente, a una distruzione salvifica: quella morte che ti condanna ad essere ciò che sei, e rifiuti. L’elezione, è vero, non si sceglie. Né dunque la si può gettare via con una scrollata di spalle. E’ proprio questa condanna, avrebbe detto Rimbaud, alla nostra Destinazione ultima, ormai inascoltata, che stiamo pagando – Stati Uniti, Israele ed Europa – in un modo o nell’altro, in questo scenario squallido e tetro, ormai agli sgoccioli, è questo debito contratto con la nostra stessa essenza che continueremo a pagare, fino all’ultimo spicciolo, finché non ci decideremo per Altro: per Quello che già siamo e che ci attende di diventarLo.

Di: e

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