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Lettera a Veronica Tomassini
Cara Veronica,
ti scrivo in un momento in cui ho sospeso tutte le recensioni, ma preferisco scrivere questa lettera piuttosto che tacere di fronte a un libro come Sangue di cane, scoperto da Giulio Mozzi e pubblicato da Laurana nel 2010, di recente ripubblicato nella prestigiosa collana i Delfini de La nave di Teseo. Tu avevi trovato il linguaggio, la storia aveva trovato te. Ecco che un’architettura perfetta si fa sostanza, cammino sacrificale, ma non destinato al sacrificio insensato quanto alla comprensione compassionevole. Ti scrivo questa lettera nonostante mi sia stato sconsigliato di farlo, ti scrivo, e forse poi non avrò più la forza di scrivere nulla a nessuno. Non posso separare la scrittrice dalla donna, dunque, non posso dire scrivo questa lettera alla scrittrice dimenticando la donna, non lo farò, scrivo questa lettera senza infingimenti, leggendo la tua storia scritta magistralmente e vissuta terribilmente. E, leggendoti, mi sembra di entrare a far parte del gruppo di bevitori polacchi, di essermi addormentata con te la notte in cui Slawek sparisce. Mi sembra che la tua voce sia enormemente potente e raggiunga profondità che ho conosciuto solo mentre ero sospesa tra i due mondi.
Non posso approcciarmi alla tua opera con fare critico, seppur possa dirti di aver sentito nella tua voce rivivere l’Henry Miller di Tropico del Capricorno, e il William S. Burroughs di Pasto Nudo. In ogni caso, tu sei tu, non credo ci siano state invenzioni per portare avanti la narrazione, ripeto, tu sei tu. Ti è stato spalancato il miracolo della verità cui ne L’ombra e la grazia Simone Weil sostiene si possa giungere solo mediante il dolore. Tu hai avuto accesso al dolore cosmico, e perciò alla verità. La tua scrittura è di una potenza micidiale poiché la tua vita – la tua fede – è di una potenza micidiale. Resta talvolta la subdola domanda che molti continuano a rivolgere alle persone con questo tipo di destino: Perché l’hai fatto? Perché ti sei fermata a guardarlo? Perché hai permesso a un universo altro di emarginati e prostitute di entrare nel tuo e sconvolgerne il corso? Ecco, tu hai una risposta a una domanda che per me è ancora aperta quando mi si domanda perché abbia lungamente desiderato morire, e probabilmente si risolve nella totale assenza di senso o nel desiderio di sparire, dove la sparizione è l’annientamento dell’umano, dell’ego dunque, di qualsiasi cosa generi sofferenza in noi, e ciò coincide con una vita, nella sua singolarità. Tu dici – anche in Vodka siberiana lo scrivi – per pietà. La pietà è amore, la forma più alta d’amore, non eros, non philia, ma agape. Agape è la madre assoluta che tutto accoglie e smargina i bordi di un sociale putrido. Agape è la forza primigenia, la resistenza alle sventure. Voglio dirti che solo i pochissimi in grado di maneggiare la lingua con un simile incanto sono capaci di sbrigliare un’esistenza a tal punto avvinta al malheur di weiliana memoria, e che tu puoi sbrigliare ogni nodo e ogni forma di dolore, poiché non c’è nulla da inventare, solo da riordinare i vissuti, mentre la storia si scrive attraverso la tua persona. Voglio dirti che la verità è contenuta nel tuo nome, ma va accolta con parsimonia, poiché la verità è un chiodo che trafigge, e occorre potersi distrarre, prendersi delle pause prima di venirne inghiottiti. Voglio dirti, infine, che la donna Veronica e la scrittura di Veronica coincidono, e questo non è un danno, ma un dono, e al culmine del malheur, come sai, è la grazia a elevarti, non tu con le tue mani, ma una forza in te. E questa forza serve fino al punto in cui è necessario che la voce parli, canti o gridi. Che tu sia geniale lo riconoscono in molti, ma credo in pochi possano sentire con te ciò che ti trafigge, il compito. Io lo sento. Voglio solo dirti grazie.
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