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Recensione a “E Dio creò lo sport” di Carlo Magnani
Tutto il testo, E Dio creò lo sport, di Carlo Magnani si costituisce attorno a questi nuclei fondamentali: la ricostruzione della messa in crisi del paradigma moderno ed una riflessione che si potrebbe definire esistenziale, o antropologica, concernente il fenomeno sportivo in relazione a questo significativo mutamento d’epoca. Perché, infatti, è la dimensione storica l’avvio dell’intero discorso – e, più precisamente, quella che egli definisce la “crisi del paradigma moderno”: e, cioè, la messa in discussione di quella difficilissima tensione, propria di tutta la modernità (che, a sua volta, è considerabile, strutturalmente, come Krisis), tra piano trascendente e piano immanente, tra sacro e profano, e, ancora, tra emancipazione da una teologia prescrittiva/ordinatrice, ma senza la possibilità di liberarsi mai, una volta per tutte, da una qualche forma, o memoria, di teologia politica. Lo sfondo di questo testo è, quindi, costituito da una forte tesi di filosofia della storia: il fatto che si stia consumando un importantissimo passaggio d’epoca all’interno della modernità – in direzione di qualcosa che, forse, non si potrà più chiamare moderno, da cui non si potrà tornare indietro, e che quindi, soprattutto, bisognerà affrontare in modalità serie, dure.
Si scorge, infatti, anche nelle pagine più analitiche riguardanti il fenomeno sportivo una tensione più originaria, definibile come politica, ma anche esistenziale: l’istituirsi di un corpo a corpo con un tempo storico che deve esser radicalmente criticato e, di conseguenza, un anelito, anche se sempre più ostruito, in direzione di nuovi, e differenti, vie di pensiero. È, infatti, uno di quegli scritti che, pur parlando apparentemente di altro – in questo caso del problema sportivo – si fa testimonianza di un’insoddisfazione, sempre crescente, per una società, ed una Cultura, solo all’apparenza pacifiche, o civilizzate. Un testo che conserva una dimensione di barbarie, acuita, probabilmente, in alcuni passaggi, con posizioni che, cioè, non sempre, si pongono in un processo di mediazione dialettica con il carattere decadente di questo tempo storico – ma che, anche in ragione di questo, si fa portatrice di un carattere di urgenza: il non poter più accettare di abitare una società siffatta.
È importante questa premessa, in quanto ci dona la possibilità di entrare immediatamente nel cuore, nella tesi centrale, dello scritto – il fatto, cioè, che il fenomeno sportivo, pur considerabile, ed esaminabile, nella sua autonomia estetica, si costituisca sempre in una strettissima relazione con le più importanti sfere valutative dell’umano. Qui abbiamo accennato alla relazione con il contesto storico, su cui torneremo, ma, al fondo, la genesi del libro si costruisce attorno ad un ulteriore rapporto: quello tra sport, riflessione estetica e problematica della trascendenza. Perché il centro di tutto il discorso, infatti, è che lo sport, considerabile nei termini di una declinazione peculiare di tutta la sfera artistica, abbia la possibilità di introdurci ad un dialogo con il trascendente – qualcosa, cioè, che pur nascendo dal vivere, lo oltrepassa, e ne viene oltrepassato.
Lo sport, dunque, in linea con più grandi espressioni artistiche, come possibilità di costruzione di forme che, pur originandosi sul piano del vivere, giungono ad autonomizzarsi da esso – divenendo mondi compiuti, organici, internamente concatenati: la creazione di microcosmi armonici (pur nella loro massima apparente contenutistica disarmonia) in grado di orientare il nostro sguardo in direzione di una possibilità eccedente. Sono, dunque, almeno due i passaggi che costituiscono la tesi di questo scritto in relazione al problema della trascendenza. Innanzitutto, il rinvenimento nella dimensione sportiva – nella visione delle sue gesta, o di quelle che potremmo definire le sue forme in movimento – di un qualcosa che si costituisce nei termini del simbolo: quella possibilità di compiutezza (anche, sottolineiamo, nella possibile massima contraddizione) in grado di superare la dimensione caotica del vivere – la costituzione di microcosmi in cui, finalmente, poter-riconoscersi. Tuttavia, il simbolo sarebbe ancora vincolato, in modalità troppo stringenti, al piano di immanenza – sì superamento del piano del vivere, ma senza poter procedere mai oltre la sfera del sensibile e del visibile. Da qui il secondo movimento del testo, probabilmente quello decisivo – la dimensione sportiva non è solamente costruzione simbolica, ma anche possibilità di relazione con il trascendente, perché, infatti, nelle gesta degli “eroi sportivi” (anch’essi sempre più in oblio, ma ci torneremo) si rivela anche, e soprattutto, lo scardinamento di quel piano di immanenza a cui rimarrebbe vincolato lo stesso concetto di forma simbolica. Nello sport si nasconde, così, quella potenzialità di ricerca di un qualche residuo sacrale, o spirituale – la possibilità, in ultima istanza, di esperire “la trascendenza all’interno del piano di immanenza”.
Ma tutto questo complesso di problematiche entra anche in relazione con un’altra tematica rilevante da un punto di vista culturale – quella del racconto, non solo strettamente sportivo: come, cioè, si debba interpretare, e quindi ancor prima guardare, il mondo della vita ed il mondo delle forme. Perché, infatti, anche qui si apre una questione che, andando oltre la dimensione sportiva, riguarda la nostra Cultura: quale è il tipo, la modalità convenzionale, di racconto che si fa sì nell’arte (e quindi nella dimensione sportiva), ma anche negli eventi culturali, sociali o politici che ci circondano? E, quindi, cosa è che è caduto in oblio, e cosa, invece, andrebbe, lentamente, dissotterrato – con quali dimensioni, cioè, dovremmo, nuovamente, entrare in dialogo? Qui si apre tutta una critica dell’autore, Carlo Magnani, a quella che egli definisce “ragione calcolante” – il fatto, cioè, di ridurre qualsiasi evento, o impresa (sportiva o non) a fenomeno quantificabile, misurabile, e quindi strettamente legata ad un’analisi toto immanentistica. Perché qui, infatti, il tema non è la scienza, né soprattutto una critica della scienza, da cui si rifugge, piuttosto, le modalità, o il peso specifico, che vengono attribuite all’analisi, al mero dato, al calcolo nell’interpretazione degli eventi. È in questo scarto che si introduce la possibilità di un altro racconto, in grado di entrare sì in un dialogo, necessario, con le promesse, e le scoperte, anche della tarda-modernità, ma senza abiurare mai a quella propria originaria funzione di costruzione di simboli, di creazione di immagini complessive – finanche di quel concetto oggi completamente ai margini, e caduto in disuso, di Weltanschauung, o visione del mondo. Una differente modalità di interpretare che è, poi, innanzitutto, una differente modalità di vedere: rinvenire nella dimensione artistica, e quindi nel fenomeno sportivo – nelle sue gesta, come nei suoi caratteri fondamentali – figure esistenziali, possibilità antropologiche, fino ad arrivare a scorgere embrioni di alternative Culturali o politiche.
Ma ora, ricollegandoci, infine, alle problematiche da cui siamo partiti – il contesto storico, la messa in crisi del paradigma moderno – ci si deve chiedere: vi è ancora possibilità, oggi, per lo sport di svolgere quel suo ruolo di costruzione simbolica e di richiamo ad una qualche forma di trascendenza? In altri termini – il fenomeno sportivo non rischia anch’esso di esser assorbito dalla “crisi di una Cultura”? Il problema cioè è quello del “futuro dello sport”, come si intitola anche l’ultimo paragrafo di questo scritto, in cui si legano, non a caso, i livelli portanti dell’intera riflessione dell’autore – quello sportivo, quello storico-politico e, quindi, quello teologico-trascendente. Ed è presente qui, in questo tentativo di risposta, una costitutiva oscillazione che sembra esser però più il riflesso di quella realtà all’interno della quale viviamo. Perché, infatti, da una parte l’autore, anche richiamandosi alla nota espressione pasoliniana del “calcio come ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, sembra volerci dire che nello sport tout court vi sia ancora la potenzialità di andare alla ricerca di tracce del sacro (con tutte le implicazioni, non solo teologiche, ma anche sociali, o politiche, che questo concetto assume), in direzione contraria a quanto avviene nelle nostre società. In altri termini: il fatto di vivere in quella che in termini lukacsiani potremmo definire “l’epoca della totalità perduta” costringe verso una ricerca esistenziale, singolare, legata anche ad ambiti parziali, settoriali, al fine di trattenere, o conservare, una qualche memoria storica di qualcosa che va sempre più perdendosi. Ma d’altre parte, questa Cultura della “totalità perduta” sembra, lentamente, assorbire tutti i suoi elementi, anche quei piani, cioè, che sembravano poter costituire, almeno nella nostra immaginazione, delle “isole beate” – compreso anche, e forse soprattutto, visti i suoi recenti sviluppi, il fenomeno sportivo. Ed è per questi motivi che il testo che si chiude con una vena pessimistica, anche se mai definitiva, o assoluta – la testimonianza, piuttosto, di affermare, che quest’epoca non è così civilizzata come si tende a descriverla e che, di conseguenza, si dovrebbe cominciare a dire, con durezza, che non si può più accettare di abitare pacificamente al suo interno.
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