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Lettera a Luigia Sorrentino sul poema Olimpia

Cara Luigia,
ho letto molte volte Olimpia (Interlinea, 2013/2019), non so neppure dirti quante, da appena qualche giorno ho assistito allo spettacolo nato dal tuo poema e portato in scena nella Città dell’altra economia da Valeria Almerighi, Chiara Catalano, Giuseppe Savio, viola da gamba di Maurizio Lopa. Un coro greco di voci ha fatto rivivere Olimpia in un rituale sibillino.
Fabrizio Fantoni mi ha raccontato del tuo rapimento nella scrittura, iniziata con la visione di un dipinto: La caduta di Iperione di Cy Twombly, e di come tu abbia preso subito appunti, e di come, pochi giorni dopo, tu abbia attraversato l’antro della Sibilla cumana, luogo misterico, rinvenuto a seguito degli scavi dell’area archeologica di Cuma. Galleria artificiale dove, secondo la leggenda, operava la Sibilla e qui emetteva i suoi oracoli. Una galleria scavata nel tufo intorno al settimo secolo avanti Cristo, citata da Virgilio che descrive un antro simile.
Tu, rapita, nel luogo mitico in cui la vergine sacerdotessa benedetta da Apollo compiva i suoi oracoli, proseguivi la tua ricerca verso l’origine. Altro luogo della tua ricerca è la villa di Poppea, nel porporino sferzante delle pareti, tra gli scavi archeologici di Oplontis (area di ritrovamenti archeologici appartenenti alla zona suburbana pompeiana di Oplontis).
Perché Olimpia? Quel poema che avresti prima intitolato Sulla soglia del vento divenne Olimpia mentre, sul divano della tua casa di Trastevere, ne leggevi a Valentino Zeichen degli estratti, lui ebbe questa precisa visione: Olimpia, la città greca dei giochi.
Il tuo poema è legato a Hölderlin, a una grecità tutta hölderiniana, filtrata dal romanticismo tedesco, dove il tema è la notte, l’apeiron, l’indistinto, e il rivoltarsi del senso dell’esistere. L’indistinto, il frammento, il preformato, l’informe in quanto sostrato arcaico a noi giunto per stralci e successivi rimandi. Tu sei testimone di una tradizione antica, che in te si è riaccesa, nel fuoco della parola che giunge da un altrove siderale.
Olimpia ripercorre le tappe di un tempo mitico, in una riscoperta dell’età arcaica, dove l’intuizione dell’impersonale si manifesta in una grazia scaturita dal confronto con la morte – con una morte in particolare, e con l’evento del morire, la realtà dell’essere mortale propria all’umano. Si legga dunque la sezione di Olimpia intitolata Iperione come un omaggio a Hölderlin, come un’irruzione dell’impersonale nella poesia italiana contemporanea, che torna alle sue radici più antiche, eterne.
Canti qui il corpo poetico avvinghiato alle nostre viscere – ciò che dal passato si traduce in noi per trasportare nel futuro, non senza il peso dello strappo, del confronto con l’illimitato – la coscienza dello strappo, la reminiscenza e il portato di una cultura altra, la sovrapposizione tra grecità arcaica e romanticismo tedesco. Il coro greco, le tematiche hölderliniane, la morte di Diotima, l’acquisizione della notte come origine, la cavità della sorgente, l’onniavvolgente che sovrasta e stritola l’umano, in quanto essere infinitamente mortale. Un’espressione ripresa non solo da Hölderlin, ma anche da Rilke, perciò incastonata nel tempo come eternità, nel risuono degli archetipi.
Il tuo poema ripercorre le tappe di un tempo mitico. Non c’è un mito di Iperione, è un personaggio solitario, ripreso prima di tutti da Hölderlin, poi da Keats. Iperone è un titano sotterraneo, esce dalla terra, e poi striscia. Non riesce a diventare potente. Perde, e quindi cade e muore. Iperione di Hölderlin, a parte l’amata Diotima, incontra personaggi filosofici che erano i suoi compagni di classe, ma il suo romanzo parla anche delle rivoluzioni in atto in quel periodo come la Rivoluzione francese che desiderava ci fosse anche in Germania. Tra i compagni di studio di Hölderlin c’erano Hegel e Schelling, con loro lui legge Spinoza, Kant, Rousseau, Fichte. Il tema dell’Iperone è il sogno di una rivoluzione in Germania, maturato attraverso l’eremitaggio nel mondo greco, e Iperione scrive queste lettere perché sogna una rivoluzione partendo dal pensiero greco. Bellarmino per Hölderlin è colui che non si piega, rappresenta il filosofo. Anche nel tuo libro c’è un riferimento alla rivoluzione: gli insorti, ma in questo caso riguarda le primavere arabe. Hölderlin è uno dei più grandi di tutti i tempi, colui che ha avuto maggiori rapporti con i grandi poeti dell’illuminismo. Hölderlin in Iperione fa riferimento ai suoi amici, Hegel e Schelling, con i quali aveva notevoli diverbi. L’elemento del caos prorompe in esso, l’impeto del titano. Anche la figura del Titano è un riferimento a Hölderlin, l’origine del mondo, questa lotta tra luce e ombra, questa scaturigine. Iperione è composto di sessantadue lettere, sono due libri di lettere indirizzate da Iperione al suo amico Bellarmino, inserite tra queste vi sono dodici lettere alla sua amata Diotima, infine un riferimento alla morte di Diotima.
Il tuo poema è dedicato a Hölderlin, difatti Olimpia è anche un’opera filosofica, ma ovviamente scritta da una poetessa. L’assolutezza in cui si trova Olimpia, poema che abbraccia tematiche ancestrali, è il concetto di morte come infinitamente mortale, poiché l’umano è l’essere più mortale di tutti, eppure la morte non riguarda solo l’umanità, ma anche la natura. È un essere mortale, ma tutto è mortale, il mondo vegetale, il mondo animale, è tutto mortale. Una morte a cui conduce la propria opera nel suo compimento, non la morte volontaria, ma una morte felice, che è la vita stessa, una messa in atto della morte. È l’accadere della morte a conferire senso alle nostre attività della vita e, perciò, ne è sorgente, origine e scaturigine. L’uomo nasce mortale, ovvero diverso dagli dei. Blanchot ci dice che lo svolgersi dell’esistenza ci porta alla morte. Questo senso della mortalità nasce nel pensiero filosofico dell’antichità. Aristotele lo porta in evidenza attraverso il sillogismo, e Parmenide attraverso il discorso sull’essere. Olimpia canta l’unione della natura, della bellezza della natura, la cui incarnazione è Diotima. Iperione va alla ricerca dell’unità tra bene e male, nella poesia di Hölderlin è molto presente il tema dell’unicità, Diotima è l’unica: l’unica donna, l’unica amata. Dopo la terribile lotta tutto era svanito, qualcuno vedrà l’eroe caduto nella pietra: la figura dell’eroe. L’addormentato è il Titano che dorme e che la poesia cerca di svegliare. Sul ciglio della collina vedemmo una sola volta l’unica, la sua bellezza raccolta in una sola luce liberata. La nostra presenza abbandonata prima che potesse sfiorire. L’unica bellezza.
Il tema dell’unicità torna in Olimpia. Diotima è la vita, l’incarnazione del mondo.
Sembra qui la poesia divenga non più un’affermazione di un io sul mondo – l’io novecentesco, l’io psicoanalitico che fagocita il mondo e lo descrive dalla sua prospettiva di io-pensiero è qui assente – ma una cavità pronta a tramandare, nel segno della passività, della pazienza, il compito terrifico dei sacerdoti, farsi abitare da forze ingovernabili e domarle. E tu lo fai mediante la parola, uno strumento insieme proprio e estraneo, come il corpo, come la psiche, come la coscienza, l’essenza di ciò che siamo. Tale è l’essenza della poesia, la poesia purissima non può essere l’invenzione di un linguaggio nuovo, che si accordi con il parlato dei contemporanei, o l’accostamento a tematiche sterili, già pienamente discusse nel sistema del senso comune. La tua poesia è un dispositivo di passività, passione e incanalamento di forze che giungono da lontano e si pongono come ponte tra passato e futuro. Nasce nel silenzio, nello studio, nell’ascolto, mediante il confronto con i temi e universali e imperituri, molto distanti dal quotidiano berciare di un presente già scomparso e rimpiazzato da un nuovo presente ancora più effimero. Esiste un solo grande tema: la vita e la morte, la vita nella morte, la morte nella vita, e i loro punti di indiscernibilità.
La discendenza
Chiamava da una cavità morbida e sotterranea, vivente nella furia di un amore che atteneva soltanto a lei. Pulsava l’essenza perenne, rigenerandosi da sola, senza interruzione. Al taglio improvviso della carne, ci gettò contro le nostre stesse viscere, i nostri organi, con gli escrementi. Ci tenne lì, in una lunga attesa, ci nascose, mentre lei si espandeva larga, liquida e piena. in sé contenne l’umido spazio della notte.
Iperione, la caduta
nulla può crescere e nulla può così perdutamente dissolversi come l’uomo
(F. Hölderlin, Iperione)
CORO 1
tutto stava su di lei e lei sosteneva tutto quel peso e il peso erano i suoi figli creature che non erano ancora venute al mondo lei stava lì sotto e dentro
questa pena l’attraversava ancora quando venne meno qualcosa
le acque la accolsero
e quando si avvicinò alla costa della piccola isola, tutti portava nel suo grembo
Coro 2
c’è una notte arcaica in ognuno di noi una notte dalla quale veniamo una notte piena di stupore quella perduta identità dei feriti
si popola di volti, quell’abbraccio mortale
in un tempo sospeso tra mente e cuore mai la notte fu così stellata
gettati in mare ingoiarono acqua e pietre, e strisciarono sulla sabbia e furono in totale discordia ebbero passi pesanti e sparirono, sottoterra
il cenno si dissolve da sé cade il fragile umano frutto effimero, del mortale
Coro 3
nella cintura d’acqua fluttuava immenso l’indistinto inattuato attaccava la nebbia melmosa, non era ancora luce ma notte continua, durava in quello spazio la non luce
si volse la notte si volse bisognosa a noi che aprimmo lo sguardo alla forma sollevata
solo questo gesto che vede qualcosa si schiarisce illumina e avvicina nell’istante posato
negli occhi che egli chiude
Coro 4
si comportava da colosso come se dovesse stringersi inghiottito dal nero della pietra sul confine piantava bastoni inestirpabili
ci sorpresero le lunghe impronte rifugio di mole e di potenza fissate lastre di pietra
il volto nostro sovrastò la figura altissima, negli occhi si schiuse la forma inguainata con braccia e gambe saldate contro il corpo
lo sguardo nostro entrò in quel suo essere infinitamente mortale
Coro 5
la luce si disperdeva, cadeva la massa corporea appoggiato alla densità della goccia egli era là nel suo confine il mutamento fu uno svanire arbitrario dal fondo del vento sprigionava trascinando fuori da sé qualcosa che lentamente appare
così in esso ciò che ripetutamente arriva entra nel suo sguardo
nel sollevarsi contro la nebulosa divenne la brezza distesa sull’acqua a lei si infranse perdutamente alla nettezza di lei che si apriva davanti a lei si lasciò cadere, infine Iperione
Coro 6
abbiamo perso tutto caduti in un eterno frammento la prima luce su noi infuocata ha bruciato tutto
la prima creatura di umana bellezza
è morta, ignota a sé stessa
i popoli appartengono alla città
che li ama
privi di questo amore ogni stato
scheletrisce e annera
la natura imperfetta non sopporta
il dolore[1]
[1] L. Sorrentino, Olimpia, Interlinea, 2013, rist, 2019, pp. 57-61
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