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Forse era Dio in bicicletta


14 Feb , 2025|
| 2025 | Sport

Ero nel pieno della post-adolescenza, stagione della vita in cui si riesce a fatica a riempire di qualcosa le lunghe estati pigre. Ad aiutarmi nel compito c’era, da sempre, la passione per lo sport. Il calcio, con le amichevoli estive, e la formula 1, da guardare insieme agli amici. Defilato, il ciclismo. Non disdegnavamo il tifo per un Chiappucci o un Bugno, in mancanza d’altro.

Dovette essere in una tappa del Giro, che lo vedemmo per la prima volta. Aveva poco più di vent’anni, ne mostrava quasi il triplo: magrissimo, la calvizie resa più evidente dalla chierica, in alcune tappe un improbabile cappellino blu. Eppure, quando arrivava la montagna e quel ragazzo dallo sguardo triste si alzava sui pedali, sembrava che gli altri restassero inchiodati al suolo. E restammo incantati. E il ciclismo scalzò le amichevoli estive e la formula 1.

Ne aveva di cose, quel ciclista, per diventare l’idolo di un tifoso sedicenne. Su tutte, una sfiga degna di un personaggio dei cartoni animati, di quelli che corrono verso un burrone, non se ne accorgono e continuano a roteare le zampe prima di volare giù. Come quando, alla Milano-Torino del ’95, un fuoristrada finito chissà come e perché sul tracciato, lo centrò e gli spappolò tibia e perone. La sua carriera si salvò per miracolo. O al Giro del ’97, quando un gatto decise di attraversare proprio mentre passava lui, facendolo cadere: quell’anno avrebbe potuto vincere.

Nella mia vita da tifoso, alle sconfitte sono abituato, e lo ero anche allora: tifo Roma da quando sono nato, e i primi Mondiali di cui ho coscienza sono Messico ’86 e Italia ’90, in ritardo di qualche anno all’appuntamento col trionfo. Ebbene, se c’è qualcuno che mi ha insegnato che alla sconfitta si può essere abituati, ma non ci si deve rassegnare, è lui. Me lo insegnò al Giro del ’98, e subito dopo al Tour, a cui partecipò quasi a forza. Me li ricordo bene, quei mesi: la chierica era sparita, erano invece comparsi un pizzetto, una bandana e un orecchino. Era nato il Pirata. Il Pirata che si alzava sui pedali e andava via, e stavolta a fermarlo non c’erano fuoristrada né gatti, e figuriamoci gli avversari. Provate a ripescare, in giro per il web, la tappa di Les Deux Alpes del ’98. Le montagne che sembrano grigie da quanto è brutto il cielo, la pioggia battente, lui che si alza sui pedali e Ullrich che sembra avere la colla sotto le ruote. Lo scavallamento, la complicata vestizione della mantellina, la discesa sull’asfalto bagnato con la posizione a uovo, il corpo accartocciato sulla ruota posteriore.

Non so se ha ragione Carlo Magnani, che su E Dio creò lo sport vuol vedere del divino in taluni gesti sportivi: non sono un credente, e di spiritualità e dintorni non me ne intendo. So però che se mi nominano Dio, mi vengono in mente alcune immagini di lui, di Marco Pantani, bellissime e bruttissime. Les Deux Alpes, certo: il giorno in cui gli dei ascendono. E poi, il giorno in cui cadono: quel maledetto 5 giugno del 1999, con il secondo Giro già in tasca. L’ingresso di quell’albergo a Madonna di Campiglio, il capannello di giornalisti, i suoi occhi che avevano pianto di rabbia, la mano fasciata dopo aver distrutto lo specchio della camera, l’incipit di una storia torbida. 

Quando penso a lui, penso che due volte è morto e una volta è risorto. È davvero un peccato, che l’ordine non sia stato questo. Che la resurrezione dal letto d’ospedale dopo quell’incidente alla Milano-Torino abbia di così tanto preceduto la morte spirituale a Madonna di Campiglio, e poi la seconda morte, quella della carne, il 14 febbraio del 2004. Quella morte di cui sappiamo assai meno della sua vita, e dello straziante romanzo che era diventata.

Quanto a me, da quel giorno di San Valentino del 2004 non ho più guardato una gara di ciclismo. Quando ne incrocio una in TV, magari alle Olimpiadi, sento risalire una strana, brutta sensazione su per lo stomaco. Non la sensazione della sconfitta: quella, un tifoso la mette in conto, anche la più cocente, anche nei momenti più importanti. Piuttosto, la sensazione di qualcosa che mi venne strappato tanti anni fa, e che non riavrò mai più. E ripenso a Gianni Brera, e al suo saluto a Maradona dopo il fatale test antidoping del ’91: Ma grazie lo stesso.

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