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ANORA di Sean Baker (2024) o l’attesa dell’alba

Anora (2024) di Sean Baker si apre con una lunga carrellata laterale, che introduce il nostro sguardo nel nightclub di Brighton Beach dove la giovane protagonista Anora (o Ani, nome d’arte), si sta esibendo per gli occhi di uno dei suoi anonimi clienti. La carrellata lascia che i nostri occhi scivolino lentamente in uno spazio buio di luci al neon, e acconsentano a guardare, esattamente come gli uomini seduti sulle poltrone al fondo dell’inquadratura, i corpi delle diverse spogliarelliste che performano dinanzi a loro.
Baker ci impone di essere lì, perché il nostro sguardo non è innocente: ci porta, volenti o meno, a proiettarci in quelle sagome (maschili) che, immobili come noi, guardano, si compiacciono, chiedonoun corpo da “toccare” con lo sguardo. Su una di queste ragazze, la nostra Anora, interpretata da Mikey Madison, la camera si ferma con uno zoom che finisce ad inquadrare il suo volto mentre danza: il movimento si condensa e si rapprende su un’unica minuta espressione. Anora, anzi Ani, è lì, tra noi che la guardiamo da questa parte dello schermo, e quegli uomini che, specularmente, la guardano dal suo interno, all’intersezione di uno studiato gioco di sguardi, e sorride. Quello è il suo posto. Lei non è con noi, e noi, dapprima, non siamo con lei: Ani è una vetrina, è una performance di seni e di gambe, è quel sorriso, è un sogno. Ani è una magia, perché è altra da noi.
Poi il figlio di un oligarca russo, Vanya Zakharov, immaturo ventunenne viziatissimo e inconsapevole, si innamora di lei (di questa altra bellissima che sa parlare la sua lingua), e così la corteggia, le fa regali, la paga, la strapaga perché si finga la sua accompagnatrice, la sua fidanzata (non è mica solo una “escort”, Ani). Lui cede, senza dubbio, a quella magia. Sembra innamorato, e forse lo è, ammesso che sappia cosa sia l’amore. È abbastanza chiaro che ami Ani, e che non conosca Anora. Mai fidarsi di chi è tanto alienato da se stesso da affermare di “essere sempre felice”.
Noi, che siamo altri anche da Vanya, (troppo ricco per noi, troppo distante, troppo stupido) un po’ rischiamo di fidarci, pure noi, del suo amore. In fondo siamo in un cinema, e il cinema ne ha raccontate di favole azzurre, molto poco al neon. Ad ogni modo, Ani, che è una magia (e che è anche un certo cinema), si fida, e una veloce promessa matrimoniale a Las Vegas suggella gli esiti fiabeschi di un incontro che sembra del destino. Vanya loves Ani. La Madison, che ha vinto l’Oscar, è splendida: elegante ma volgare, delicata ma aggressiva, sensuale ma dolce. La sua ingenuità però, come la nostra, non poteva che essere disincantata.
Baker, con il suo bassissimo budget, sembra rispondere a certo cinema americano contemporaneo ad altissimo budget (in stile La forma dell’acqua, di Guillermo del Toro, per intendersi). Il fatto è che se si abita all’incrocio degli sguardi, se si è l’immagine della vetrina (femminile, cinematografica…), se si è la magia di una Cinderella post-moderna, si rischia di non poter sopravvivere al peso della realtà, quella del condizionamento sociale, delle regole del mondo, della logica irriflessa, e molto poco magica, dell’ordinario. Nel film, è la famiglia russissima di Vanya, che incombe da lontano, minaccia di arrivare a Manhattan per risolvere tutto, e manda gli sgherri, perché non è ammissibile che uno Zakharov abbia sposato una “puttana”. Nel nostro mondo, sono i pesi profondi della nostra ignoranza, gli schermi della nostra cecità interiore, una società sempre meno capace di accogliere l’umano che siamo…, e che ci fa vetrina, performance, immagine (e basta).
Inizia lì la commedia, che poi è una tragedia, perché Ani, che era una magia, è stata la prima, e forse l’unica, ad aver sperato, davvero, che quella magia fosse una realtà. Troppo giovane, la piccola Ani, e, pure lei, forse troppo stupida, e illusa. Ani, orgogliosa moglie Zakharov dell’ultima settimana, ha creduto alla sua stessa immagine. Noi invece iniziamo a vedere, ben prima di lei, gli esiti di quella grande illusione. La vetrina si incrina… il nostro punto di vista cambia. Baker, che è pure sceneggiatore (ben quattro Oscar tutti per lui), fa entrare in scena un personaggio che a quel punto diventa il nostro portavoce, ci rende testimoni di tutto quello che accade. Ani combatte, strilla, distrugge la casa del marito, cerca di salvare quel suo strano matrimonio mentre gli scagnozzi della famiglia di lui provano ostinatamente e comicamente a mettere in ordine una situazione diventata ingestibile. Ma Igor (Jurij Borisov), l’aiutante degli sgherri armeni della famiglia Zakharov, con i suoi silenzi imbarazzati e la sua semplice presenza, non può davvero cambiare le cose, per quanto sia l’unico ad assumere, modestamente, una posizione neutrale dentro quel casino incontrollabile. Non può fare altro che trattenerla, ascoltarla, vederla, forse comprenderla, Ani. Divertentissimo, il film, con tempi e trovate semplici, efficaci, coinvolgenti. Mentre il mondo scorre (processi, burocrazia, parolacce, spogliarelli, fughe, incidenti, tradimenti, tutto), Igor, come lo spettatore, è lì, ma non c’è davvero. Il suo non è più un rape-gaze, come quello che aveva guidato noi stessi nella prima parte del film: è più semplicemente uno sguardo testimone. Lo spettatore ora non guarda più Ani che si esibisce davanti alla camera in uno spettacolo di Lap Dance. La vede, nella sua sconfitta fragilità, per quello che è, una ragazza rimasta inghiottita dall’incanto di una realtà che non la sa vedere. Igor, quasi sempre muto, ma eloquente nello sguardo, glielo dirà, alla fine, parlando del suo nome: Anora è un bel nome. Anora significa “splendente”. Anora, e non Ani. Noi lo comprendiamo fin troppo bene, e di certo ci riguarda: Ani è la maschera di Anora. Forse ogni uomo e ogni donna dovrebbe recuperare il significato del proprio nome. Rinunciare al nome della magia (quello che ci situa nella realtà secondo condizione prestabilita. Status, lavoro, religione, gerarchia, azioni, crimini, fantasie, etc.), cioè alla nostra Ani interiore, per riacquistare il nome della realtà, e iniziare ad esserci con un’opera realistica di sguardo sulle cose, sulla vita, su di sé. Tutti noi siamo Ani, e potremmo essere Anora.
Il film di Baker, però, che prende atto del bisogno di questo passaggio, non riesce ancora a condurci su un terreno che se ne faccia modello. Come Igor, si fa testimone di una falsa realtà, e quindi abbraccia, con sincero affetto, la sua Ani, perché ama (davvero) le vite ai margini del mondo (Cfr. Un sogno chiamato Florida, 2017)). Ma non può, e nemmeno vuole, assumere la postura di un cinema della novità, che faccia di Anora, e non di Ani, il suo centro e il suo momento iniziale, piuttosto che l’atto del suo stesso disincanto. In questo senso Anora di Sean Baker è ancora un film della notte, che annuncia un’alba (perché disvela le illusioni di una finta favola), la intravede, ma attende ancora di abitarla, e di farla risplendere. Anora “la splendente” è ancora un’attesa.
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