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Fuga dalla stasi: verso un nuovo corpo politico?


16 Apr , 2025|
| 2025 | Visioni

I centomila di Roma, nonché le altre migliaia di persone in varie piazze di Italia, scese in strada a manifestare contro il nuovo piano per il riarmo, o più esattamente, contro la strategia della  “prontezza”, in linea con la recente neolingua adottata dalle classi dirigenti europee, cosa rappresentano? È opinione di chi scrive, pur non sapendo bene se a parlare sia la propria capacità critica o piuttosto la propria speranza, che si possano rinvenire in questi fenomeni i primi vagiti di un nuovo corpo politico.

D’altronde, sono già anni che se ne parla. Già al tempo dell’ascesa dei cosiddetti partiti populisti, nonché durante gli anni della pandemia, pullulanti di manifestazioni incardinati su alcuni valori pre-politici ben definiti, il dibattito (alternativo, anche accademico nel primo caso, ma mai mainstream) si interrogava sull’autenticità di questi movimenti. Sono estemporanei? Sono legati al tema specifico e poi destinati a dissolversi? Condividono ideali, valori e progettazione per il futuro? Costituiscono, riassumendo, un movimento politico? Come una rondine non fa primavera, così sarebbe del tutto inopportuno affermare che una sola manifestazione, seppur molto partecipata e preceduta da tanti altri eventi costituenti indizi probanti, possa sancire l’esistenza di una popolazione connotata da una certa coscienza politica. Tuttavia, non è esattamente questo che è in gioco. La nozione di corpo politico indica piuttosto l’esistenza di un comune sentire, di una prassi riconoscitiva tramite cui diverse persone possono giungere ad intendersi, a sentirsi parte di un gruppo e a riconoscersi come compagni in vista di una medesima idea di vita e di futuro.

Enzo Traverso ne ha offerto una profonda disamina nel suo lavoro Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia[1]. Le rivoluzioni che si sono susseguite nel corso degli ultimi secoli hanno avuto come denominatore comune una certa “carnalità”, sostiene lo storico. ‹‹Le insurrezioni sono di norma scoppi di passioni gioiose, con la gente che si riversa per strada, si abbraccia, assapora il piacere di mescolarsi e sentirsi unita in una comunità accogliente, calorosa››[2]. Non c’è rivoluzione, senza che vi sia una comunità di persone consolidatasi, soprattutto emotivamente, intorno a precisi valori e idee. Il migliore contributo che la manifestazione di Roma può eventualmente aver dato è in questa direzione: funzionare da correttore emotivo, offrire una cassa di risonanza, la percezione che il proprio sentire appartenga anche ad altre centinaia di migliaia di persone. Si tratta di un prerequisito pre-politico fondamentale.

Utilizzo la nozione di corpo politico e non di classe proprio sulla base di questa considerazione al contempo – ottimista e realista. Luciano Gallino ha fornito, per quest’ultima nozione, una definizione mirabile: malgrado le classi esistano oggettivamente, esse abbisognano di un elemento di percezione soggettiva per entrare nella lotta politica. Appartenere ad una classe, per il grande sociologo, significa anzitutto avvertire la percezione di una comunità di destino[3]. Comunità di destino significa essere consapevoli di condividere con altre persone le stesse possibilità concrete riguardanti il proprio futuro, le proprie aspettative di vita, la possibilità di usufruire di alcuni servizi. Si tratta, dunque, di una nozione di destino molto concreta. Da tempo ormai, la sbornia neoliberista ha obnubilato la consapevolezza di classe, rimuovendo da un lato la basilare percezione delle concrete possibilità che sono aperte a ciascun individuo, promuovendo, sulla scorta di Mark Fisher, un astratto volontarismo magico, in virtù del quale ciascuno potrebbe diventare qualsiasi cosa nel paradisiaco mondo occidentale neoliberista[4]; colonizzando, dall’altro lato, ogni comparto della vita sociale, per cui nessuno è più stupito del fatto che il rapper  di periferia metta al centro delle proprie canzoni il denaro, il godimento e il potere, così come fanno gli oligarchi finanziari di Davos nella propria condotta di vita. A ciò si aggiunge, inoltre, la privatizzazione e la psicologizzazione del disagio sociale che, seguendo ancora Fisher, è componente strutturale dell’inaridimento di autocoscienza politica nelle classi subalterne[5]. “Tu non soffri, perché il mondo è sbagliato”, bensì “Soffri, perché c’è qualcosa che in te non va. Fatti aiutare!”: banalizzando al massimo.

In questo contesto, la percezione di una comunità di destino sembra minata nelle sue stesse fondamenta. L’immediata conseguenza di una tale prospettiva è l’inesistenza di una qualsiasi alternativa, all’interno della società, al modello neoliberista imperante. Le classi sociali subalterne non riescono a maturare una prospettiva politica condivisa, a condividere valori e progettazioni comuni: si tratta della drammatica stasi hauntologica che Fisher ha posto al centro della propria riflessione. Non è tanto l’impossibilità di cambiare immediatamente il mondo, quanto l’incapacità di riuscire ad immaginarne uno diverso, a costituire uno dei grandi problemi della contemporaneità. Hauntologica, pertanto, perché riguarda l’incapacità di essere “tormentati da fantasmi”, ossia, da visioni del mondo diverse, da un diverso e possibile stato delle cose. Malgrado fiori di intellettuali procedano imperterriti in analisi e disamine sul mondo attuale e tra cinquanta/cento anni, suggerendo aggiustamenti e revisioni, nessuno di queste analisi fa presa sulla realtà sociale. La percezione sociale è strutturalmente alterata: in esso il capitalismo è un’evidenza inamovibile. Le merci, i rapporti di mercato, lo sfruttamento sono percepiti come endemici e naturali: siamo al pieno compimento del feticismo di cui parlava Marx[6].

Gli anni della guerra, tuttavia, hanno rappresentato uno snodo decisivo: per la prima volta, dopo anni, la maggioranza delle persone, come peraltro rimarcato sovente dagli stessa media, si è ritrovata intorno ad una contrarietà diffusa nei confronti dell’invio di armi ad oltranza in Ucraina. A ciò si è aggiunto, cosa non da poco, il rincaro dei beni di prima necessità e delle bollette, che stanno ormai riducendo il potere d’acquisto dei cittadini alla mera facoltà riproduttiva, come avveniva nel primo capitalismo degli slums (mentre oggi, magari, si sta “comodi” nel proprio monolocale di 25 Fuga dalla stasi: verso un nuovo corpo politico? a 600 euro al mese).

Il recente piano di 800 miliardi per il riarmo ha avuto l’effetto, pertanto, di stimolare l’immaginario politico di milioni di persone, già messo alla prova da anni di sacrifici richiesti e imposti dalle classi dominanti (almeno a partire dalla crisi del 2008). Esso ha fornito delle coordinate ben precise a milioni di persone, le quali desiderano e immaginano un mondo senza corsa agli armamenti, con la minaccia reale o possibile di una guerra imminente, dove le risorse vengano allocate in servizi diversi da quella della guerra e della deterrenza. Questo folle piano di riarmo ha pizzicato l’immaginario collettivo dei cittadini, chiedendo loro implicitamente come pensassero il mondo di qui a dieci anni. Ha avuto l’effetto di situarli in una temporalità a venire, e non più nell’eterno presente del realismo capitalista, governato dalle leggi dello SPREAD e dei mercati. Si tratta – credo, di un piccolo ma importantissimo fatto.

Inoltre, sancisce un’opposizione: quella tra la visione del mondo delle classi dirigenti e i desideri delle classi subalterne. Si prefigurano, pertanto, le condizioni minime di possibilità per la percezione di un destino comune, tra milioni di persone: accomunate dalle stesse possibilità economiche e di accesso ai servizi, dallo stesso desiderio pacifista, da una certa (seppur vaga) idea del futuro e dall’opposizione ad una classe dirigente in cammino verso la guerra.

Centinaia di migliaia di persone non costituiscono di per sé alcunché, ma sarebbe al contempo errato – credo – affermare che si tratti di una pura casualità. C’è forse alle spalle un lungo fenomeno carsico, il cui avvenire, ancora una volta, dipende da noi.


[1] E. Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Feltrinelli, Milano 2021.

[2] Ivi, p. 84.

[3] Cfr. Ivi, pp. 3-8. Gallino ritiene, in linea con diversi analisti del nostro tempo, che la coscienza di classe sia stata depredata dal modello di vita neoliberista: ‹‹Quello che caratterizza l’epoca contemporanea è che, da un lato, per ogni individuo appartenere a una comunità di destino risulta – se ne renda conto o meno – come una sorta di determinazione ineludibile, ferrea, e quindi siamo dinanzi ad un processo che vede ancora sempre, almeno dal punto di vista della posizione occupata nella società, le classi sociali come comunità di destino aventi una loro perentoria esistenza. Dall’altro lato manca invece, anche in prospettiva, lo sviluppo, la formazione di una o più classi che, oltre ad essere oggettivamente determinate, siano anche in grado di agire come soggetto per modificare in qualche misura il loro stesso destino. Nei termini della distinzione di origine marxiana richiamata poco sopra, manca cioè il passaggio della classe dallo stato di mera categoria oggettiva allo stato di soggetto consapevole di intraprendere un’azione politica unitaria›› (Ivi, p. 8).

[4] Cfr. M. Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici, trad. it. di V. Perna, Minimum Fax, Roma 2020.

[5] Cfr. Id., Realismo capitalista, trad. it. di V. Mattioli, NERO, Roma 2018.

[6] A tal riguardo è molto interessante la lettura che Fisher fornisce del feticismo. Nelle sue ultime lezioni, il feticismo è interpretato innanzitutto come una sorta di fenomeno di deformazione percettiva della realtà sociale. Il nascondimento dei reali rapporti di produzione nel feticcio della merce è letto da Fisher come un dato percettivo paralizzante: l’individuo si sente impotente e distaccato da quelle merci alla cui produzione egli stesso contribuisce. Il feticismo separa innanzitutto percettivamente il produttore dal prodotto: il suo corollario è la paralisi dell’azione. Cfr. M. Fisher, Desiderio post-capitalista. Le ultime lezioni, trad. it. di V. Perna, Minimum Fax, Roma 2022.

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