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Se più Europa fa rima con più guerra


16 Apr , 2025|
| 2025 | Sassi nello stagno

Uno dei maggiori ispiratori della costruzione politica europea, al secolo Jean Monnet, affermava che l’Europa si costruisse sulle crisi.

Non ho mai compreso a fondo se questa affermazione fosse un manifesto programmatico o una mera constatazione del reale, ma quale che fosse il pensiero sottostante, al politico francese ha dato ragione la storia.

I rappresentanti degli Stati nazionali necessitano infatti di situazioni tali per cui si convincano che la soluzione ai loro problemi sia più efficace in sede eurounitaria, cioè trasferendo potestà decisionale e di imperio sulla materia di turno a un insieme complessivo di organi.

Quando parliamo di processo di integrazione europea intendiamo infatti le cessioni di sovranità che gli Stati conferiscono ad un ente sovranazionale, sia per mezzo di accordi pattizi, sia nel trasferimento della potestà legislativa.

Cominciò con un accordo pattizio la prima grande cooperazione politica moderna in seno al vecchio continente; quando una condizione sine qua non del Piano Marshall prevedeva la gestione delle risorse erogate, coordinata fra tutti gli Stati beneficiari.

L’idea di base era che una cooperazione tra Stati, avrebbe dovuto funzionare come camera di compensazione che spegnesse i rispettivi appetiti egoistici. Dopo il primo conflitto mondiale, l’establishment statunitense attorno al presidente Wilson partorì l’idea della creazione di un mercato comune europeo improntato al libero scambio, come mezzo per il mantenimento della pace. Questo avrebbe efficientemente allocato le risorse, rendendo possibile un benessere diffuso. L’idea fu ritenuta valida un ventennio dopo. Roosevelt infatti pensava che il nazismo fosse germogliato nelle difficoltà economiche e nelle tensioni sociali.

Ma a molti osservatori attenti, tra i quali il professor Giuseppe Mammarella, non sfuggì che la proposta statunitense di fatto andava a risolvere anche un problema interno. Durante il secondo conflitto mondiale la capacità produttiva americana crebbe esponenzialmente, dovendo sostenere sia lo sforzo bellico, sia le ingenti quantità di rifornimenti di beni di primaria necessità per i popoli della vecchia Europa. Finita la guerra, gli Stati Uniti si trovarono con un surplus di produzione, orfano di una corrispondente domanda adeguata di mercato. Fu chiaro come un grande mercato unico europeo potesse rappresentare un mare dove far confluire quel fiume. Le risorse per l’attuazione del progetto vennero così fornite dal Piano Marshall.

Già da questi primi vagiti possiamo dedurre la logica deterministica che predisponeva le nazioni europee alla necessità della cooperazione internazionale. Sarà questo uno schema che ritroveremo nei momenti cruciali del processo di integrazione europea. Ad un’analisi attenta non può sfuggire come nei momenti di maggiore difficoltà il processo di integrazione europea abbia avuto un dinamismo maggiore. Nei periodi di stabilità economico–sociale, le classi dirigenti nazionali ritiravano i loro processi decisionali all’interno dei confini dello Stato. D’altronde fu lo stesso Mario Monti a dire che anche popoli dal forte senso di appartenenza ad una comunità nazionale, in mezzo ad una crisi, potevano essere pronti a delle cessioni di sovranità solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventava superiore al costo del farle. La conseguenza è che una crisi lascia un sedimento, perché dà vita ad istituzioni durature e non facilmente reversibili.

Gli eventi della seconda metà del secolo scorso – l’abbandono degli accordi di Bretton Woods, gli shock petroliferi e le fluttuazioni sul mercato di cambi delle monete europee, private del cambio fisso con il dollaro – fornirono la ratio entro la quale istituire prima il serpente monetario e poi lo SME (il sistema monetario europeo). Ciò sedimentò nelle classi dirigenti la convinzione che dovevamo stabilizzare i cambi.

Sublimazione e manifestazione di questa necessità fu la nascita della moneta unica e la nascita dell’UE, entità profondamente plasmata dai principi liberisti prima ancora che dai principi di rappresentanza e democraticità. L’applicazione dello schema crisi/integrazione europea trovò di nuovo spazio nel 2009 con la crisi dei mutui sub prime americani. Il contagio per il fallimento della Lehman Brothers, considerata al tempo “Too big to fail”, si profuse in Grecia e sulle piazze d’affari di tutto il mondo. Il nuovo scenario mise in crisi la rigida governance della politica monetaria europea e costrinse il board della BCE a sostanziali cambi di rotta. Si incentivò l’armonizzazione delle politiche economiche degli Stati membri, si introdusse il Fiscal compact e il dovere per gli Stati di ottenere il nulla osta della Commissione Europea circa le bozze delle leggi di bilancio, prima ancora di sottoporle al dibattito e al voto parlamentare. Risulta quindi piuttosto evidente che si è sottratto al processo parlamentare l’atto principale di indirizzo politico dell’esecutivo che, ponendo inoltre la questione di fiducia, marginalizza ulteriormente l’assemblea elettiva.

Infine, l’introduzione del Recovery Fund approvato nel 2020 e che poggiava su degli eurobond garantiti dal bilancio unionale. L’obiettivo del programma era sostenere la crescita economica post – pandemica, ma alcuni criteri assuntivi per accedere alle linee di credito erano rappresentati da alcune riforme armonizzatrici delle politiche economiche europee. Ancora una volta lo spazio di discrezionalità statale si è ridotto.

In Italia sia il Fiscal compact, sia il Recovery Fund sono stati firmati da governi tecnici: prima il governo Monti e poi quello Draghi. Ciò evidenzia che le decisioni più importanti sono prese al di fuori di una logica stringente di democrazia rappresentativa.

L’intento di quanto detto è cercare di normalizzare il concetto secondo il quale il processo di integrazione europea necessiti di crisi per svilupparsi.

Il grande interrogativo è se la continua cessione di sovranità nei vari campi decisionali sia l’unica via e che conseguenze abbiano nel futuro le cristallizzazioni dei cambiamenti effettuati.

Colpisce in questi giorni la rinnovata vigoria bellica di alcuni presidenti europei e il Piano Von Der Leyen sul riarmo. La sua attuazione porterà una nuova integrazione nel campo militare. Le nazioni dovrebbero aprire delle linee di credito per aumentare e riuscire a coordinare tra loro la logistica militare, i servizi satellitari di orbita medio-bassa e l’intelligenza artificiale in uso ai servizi di intelligence. La minaccia russa sarebbe la crisi sul quale poggiare l’armonizzazione delle politiche estere e militari degli Stati. Ma le conseguenze della nuova cessione di sovranità potrebbero essere esiziali.

Un riarmo, come incautamente definito, potrebbe essere recepito come un atto ostile e aumentare le tensioni internazionali.

Peralto occorre ricordare che fare deterrenza alla Russia, che possiede 6.257 testate nucleari, appare kafkiano dal momento che occorrerebbe almeno un decennio. Così come caricaturali appaiono molte dichiarazioni ostili dei politici italiani nei confronti della Russia senza che la nostra nazione possieda un’adeguata protezione dello spazio aereo. In un continente che vive una profonda crisi economica e un profondo inverno demografico, parlare di riarmo sembra l’ultima cosa da fare.

Avremmo bisogno di distensione e di un dibattito per capire le cause profonde della crisi con la Russia e per analizzare la traiettoria che sta percorrendo l’Unione Europea. Piuttosto che la retorica del riarmo e di un eventuale esercito europeo, che per le tensioni in un’unica area trascinerebbe un continente in guerra, avremmo bisogno di apparati di sicurezza tecnologicamente avanzati per renderci indipendenti da Elon Musk, che potrebbe spegnere i suoi Starlink per motivi di opportunità politica.

Se il piano Von Der Leyen avesse successo, Jean Monnet avrebbe di nuovo ragione: l’integrazione europea si sarebbe nuovamente fatta con la crisi e i politici europei ne avrebbero solo applicato il paradigma. Finché il prezzo da pagare per il nostro riarmo, rimarrà sul piano delle schermaglie dialettiche potremmo ancora decidere di pagarne il conto. Laddove invece il prezzo da pagare fosse realmente una nuova guerra con l’Europa unita in campo militare, l’avremmo pagata a caro prezzo. Ci troveremmo quindi in campo aperto e di nuovo in un’epoca che pensavamo fosse confinata ai libri di storia, animata però da interpreti dotati di un potenziale distruttivo esponenzialmente superiore.

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