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La “Palantir ideology”, il contro-indottrinamento della destra di Trump


29 Apr , 2025|
| 2025 | Visioni

Non sorprende che l’amministrazione Trump si sia lanciata in una guerra alle università, considerate covi di sinistra: il versante culturale della conquista del potere è una delle chiavi per spiegare la sua ascesa. Basti pensare al ruolo, più intellettuale rispetto al presidente, del suo vice JD Vance, autore di un testo oltremodo significativo, Elegia americana,che è un vero e proprio manifesto della destra che si autorappresenta come interprete dell’America profonda, hilbilly, popolata dai “dimenticati” (forgotten) nell’immenso spazio fra le due coste. Potremmo definirlo, dal loro punto di vista, un tentativo di contro-egemonia rispetto al predominio egemonico della sinistra “woke”, di cui i campus sono le roccaforti.  Il Kulturkampf alla Trump per ora si declina nella forma, brutale ma efficace, del ricatto finanziario: niente più soldi pubblici se gli atenei non daranno maggiori garanzie su programmi di ricerca, criteri di ammissione e orientamenti didattici, con il pretesto dell’“antisemitismo” che avrebbe contraddistinto le proteste universitarie a favore dei palestinesi contro Israele. Anche in Italia conosciamo bene lo squallido trucco retorico: l’accusa di odio anti-ebraico viene brandita come arma di delegittimazione liquidatoria, che scambia la sacrosanta rabbia per la carneficina in corso a Gaza (e l’eventuale, per altro legittimo, antisionismo) con una riedizione dell’intolleranza antisemita d’antan. Come se denunciare i crimini del governo e dell’esercito israeliano equivalesse al razzismo tout court verso gli ebrei in quanto tali, fingendo che non esistano anche ebrei, fuori e dentro Israele, indignati per la politica sterministica di Netanyanhu e soci.

In realtà, lo scopo strutturale perseguito dai trumpiani è avocare il più possibile al centro, al livello federale, il controllo sull’istruzione superiore che sforna la classe dirigente del Paese. Obiettivo in sé perfettamente comprensibile, dal momento che il trumpismo da un lato si traduce in estrema spregiudicatezza tattica (come si è visto sui dazi, mossa speculativa inquadrabile nell’approccio da imprenditore senza scrupoli qual è Trump), dall’altro consiste nell’occupazione degli apparati del potere reale. Vale a dire in una loro riconversione ideologica a destra e, in particolare, a favore, ovviamente, di quella destra che guarda al lungo periodo, in prospettiva, al dopo-Trump, cioè alla futura era Vance. Le università rappresentano uno snodo fondamentale, per questo “gramscismo di destra” finora praticato a suon di minacce sui fondi, che poi altro non è che il linguaggio e il cuore stesso dell’ideologia, anzi, più in profondità, della forma mentis del MAGA (Make America Great Again): la misurazione del reale, della società, della vita umana secondo l’unico valore ciecamente professato e fideisticamente introiettato: il denaro. Il nazionalismo fornisce l’involucro tradizionale con una funzione di rassicurante attaccamento all’orizzonte mentale fatto di patria, bandiera e “americanità”. Tuttavia, grattata  l’autoesaltazione da appartenenza, emerge l’autentica fede religiosa che anima l’orgoglio a stelle e strisce: solo e soltanto il dio dollaro. È così per il trumpista col berretto rosso, come lo era per il suo predecessore di destra neocon o il democratico liberal, questi ultimi convinti di “esportare la democrazia” a suon di bombe quando, com’era chiaro a tutti tranne ai boccaloni, non si faceva che aggredire e spianare interi Stati (Serbia, Irak, Afghanistan, Libia, Siria ecc) a maggior gloria della potenza, degli appetiti e della globalizzazione a guida Usa.

Tornando alla questione della cultura, è evidente che a un “indottrinamento” se ne vuole sostituire un altro. Tutto tristemente regolare, in una logica, appunto, di potenza ancor prima che di potere. Di qui la normale sensazione di grottesco che emana dalle chiacchiere sui docenti che non diffonderebbero vera cultura ma ideologizzerebbero i loro studenti. Bella forza: non potrebbe essere altrimenti. Non esiste e non è mai esistita alcuna cultura “neutra”, per il semplice fatto che non è umanamente possibile: qualunque manifestazione del pensiero deriva da un punto di vista, un qualche presupposto, una visuale inevitabilmente debitrice nei confronti di una visione del mondo, raffinata o no che sia. Di sinistra o di destra o di vattelappesca. La novità è che ora stanno cominciando a muoversi ben precisi supporter di Trump, già da tempo attivi sul fronte della battaglia per le coscienze. Il più importante e intellettualmente dotato di tutti è Peter Thiel. Fondatore di Palantir, corporation fondamentale nel comparto tecnologico, Thiel, gay dichiarato, allievo di René Girard, millenarista proprietario di svariati ettari in Nuova Zelanda attrezzati per un’eventuale apocalisse, liberista estremo (anche se, bisogna dire, onesto: “la democrazia è incompatibile con la libertà” ha detto una volta riferendosi, va da sé, alla libertà neo-liberale, intesa come selezione darwiniana che sfocia nello strapotere, secondo lui logico e giustificato, delle grandi multinazionali), può essere considerato, nella schiera dei tecnocrati d’assalto al seguito di Trump, l’ideologo del gruppo. In modo molto più abile, ad esempio, di un Marc Andreeessen, informatico inventore di Netscape, ma di suo un volgare speculatore finanziario, autore di quel Techno-Optimist Manifesto il cui unico pregio, fra deliri di onnipotenza in lode alla tecnologia unica salvezza dell’umanità, è rendere scoperta in poche righe l’anima ancora e sempre ultracapitalistica del transumanesimo spicciolo, macina-quattrini, del trumpismo “colto”.

A metà aprile, come informa Andrea Venanzoni sul Giornale (“Come evitare i debiti e la dottrina woke: «Università Palantir», 29/4), la società di Thiel è partita con una campagna social intitolata “skip the debt, skip the indoctrination”, che si rivolge ai giovani diplomati per un tirocinio pagato con possibilità di assunzione per farsi a loro volta indottrinare, ma in questo caso dalla Weltanshaaung di tecno-destra. La laurea Palantir, nei propositi del ceo Alexander Karp (altro signore sofisticato: dottorato in sociologia su testi di Habermas, Adorno e, si capisce, Girard), nelle intenzioni dovrebbe far compiere un salto teorico rispetto alla mera dimensione economica e di consumo della Silicon Valley, proiettandosi verso uno stadio ulteriore, “rivoluzionario”, dell’analisi dei dati. In parole povere: trasformare il modello di organizzazione sociale riprendendo a interrogarsi sul senso dell’Occidente, in preda a un declino anzitutto dovuto a un ripiegamento autocolpevolizzante, non più abbastanza “prometeico”, futuristico, avveniristico, da pionieri del progresso illimitato. Una sorta di dottrina della volontà di potenza occidentalista e tecnocratica, un neo-imperialismo culturale votato a varcare i confini non solo dell’America, ma del mondo e dello stesso pianeta. Qualcosa di molto più ambizioso, almeno sulla carta, della sola reazione al wokismo, richiamato nel claim della campagna pubblicitaria. “Il progetto presenta una forte connotazione ideologica e filosofica”, come sottolinea lo stesso Venanzoni, che pure dà una descrizione simpatizzante all’iniziativa. Ideologia contro ideologia: è sempre la stessa antica contesa, il solito vecchio gioco di parti rovesciate e in contrapposizione. Chi vincerà? Solitamente, chi ha più mezzi. E di mezzi non difettano certo i lucidi pazzi alla Thiel, che avranno sì meditato a lungo su Girard e la Scuola di Francoforte, ma evidentemente devono essersi scordati per strada Hans Jonas (“Il principio responsabilità”). Detto ciò, mai desistere. Perché chi desiste dalla lotta…

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