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Chi sono io per giudicare un gay?


22 Mag , 2025|
| 2025 | Visioni

Questa frase famosa di papa Francesco non indica una rinuncia a esercitare l’autorità papale, a esprimere una posizione. Anzi, al contrario, è precisamente una presa di posizione intelligente di un’auctoritas che non ha paura di deporre se stessa nel popolo, per riacquisire una verticalità dopo averne allargato la base, per tentare di rilanciare al tempo della secolarizzazione compiuta una trascendenza immanente più autentica (secondo i dettami della “teologia del popolo”). Il senso di quella frase è: quale agape è quella che rifiuta aprioristicamente, stigmatizza o addirittura demonizza? Certo non quella del Figlio dell’Uomo. Vogliamo tornare al tempo dei roghi, seppur in forma simbolica? Degli esorcismi? Delle “cure” coatte? Non crediate siano tutte cose di altri tempi: conosco personalmente studenti universitari che, ancora venti anni fa, hanno patito ripudi, violenze morali e ricatti familiari, e ancora ne soffrono. Oggi la situazione è in gran parte diversa, per fortuna. Ma la realtà era quella, e può sempre tornare. Purtroppo, il mainstream gay attuale è improponibile: conformista, vacuo, superficiale, nichilista. Nulla a che fare con Pasolini, Testori o Visconti. In buona compagnia, peraltro, con il femminismo egemonico, che mima i peggiori modelli maschili, e con l’occidentalismo bellicista. Tutto sempre in nome del mercato globale, della reductio ad pecuniam di tutto, di un individualismo esasperato che travia la libertà, di una teologia economica e scientista che fanatizza e ottunde le menti, di una decadenza culturale ed estetica all’insegna dell’omologazione.

Leggere l’omosessualità, e il desiderio dei corpi in generale, come “peccato” è del tutto fuorviante. L’omosessualità è un fatto. È sempre esistita, è stata variamente considerata nella storia, ma non è né una deviazione né una moda passeggera. Altra cosa è una certa mentalità gay occidentalista e globalista, che si è totalmente saldata al neoliberalismo in chiave presuntamente “progressista”: qui vigono tanto la moda quanto il conformismo. Così come semplificazioni mercificatorie (ad esempio, su temi delicati come la gestazione per altri, che dovrebbero perlomeno suscitare dubbi). Del resto, come sappiamo, il dibattito sul punto è aperto anche nel campo femminista (si veda la recente polemica Cavarero-Butler, ma in generale le posizioni di tante femministe storiche, a partire da Luisa Muraro).

Venendo alla tentazione (e alle illusioni) di “restaurazione” nella Chiesa, a una certa tendenza all’irrigidimento (scambiato per purezza dottrinale), di cui sembra si faccia fatica a liberarsi: ha senso sostenere che la sessualità è legittima solo se funzionale alla procreazione (con tutto il rispetto per il procreare, e anzi con la consapevolezza della centralità dell’Origine, del nostro provenire da essa, per ognuno di noi)? Ha senso negare il corpo e l’eros, pretendendo di scrutarli, conformarli e disciplinarli quasi ossessivamente? Non è una forma, molto rivelativa, sintomatica, di fobia e di opacità, innanzitutto verso se stessi e il “corpo” della Chiesa?

La psicoanalisi ci insegna che siamo originariamente bisessuali (anzi, pansessuali). Poi anch’essa, sulla scia di un certo positivismo freudiano, ha preteso di definire un canone di “normalità”, non spirituale, ovviamente, ma naturalistico (lo stadio “genitale”). Non parliamo della psichiatria, che fino a qualche decennio fa includeva l’omosessualità tra le deviazioni sessuali, patologizzandola. Oggi queste posizioni, che risentivano di un clima sociale e di una serie di pregiudizi, sono per fortuna superate. Dopo di che è vero, e bisognerebbe avere il coraggio di scavare dentro ciò, che l’omosessualità è a suo modo e in un certo senso (non negativo né squalificante) “anormale”, cioè fuori da una norma prevalente, e allo stesso tempo da sempre presente come possibilità e sfida dentro ciascuno di noi, o perlomeno molti, e certamente in ogni comunità umana: tanto che anche società tradizionali le hanno trovato un posto, circoscrivendola ma anche in qualche modo accettandola entro certi limiti: vedi i femminielli a Napoli, con la loro straordinaria “juta” che si ripete ogni anno il giorno della Candelora alla Mamma Schiavona del Santuario di Monte Vergine, sopra Avellino, accompagnati da una trasversale compagnia popolare fatta di mamme di famiglia, figli nipoti e nonne, devoti, cantanti folk ex operai della FIAT di Pomigliano come Marcello Colasurdo (per citare il più noto, purtroppo scomparso di recente), il tutto corredato dalla bellezza vitale e contagiosa dei canti popolari  (il che dimostra che la “tradizione”, se ha veri fondamenti antropologici e storici, ed è vissuta collettivamente, non è una prigione): della serie, il “genere” non è un’invenzione recente, così come le sue “questioni”. E poi, naturalmente, c’è, e c’è sempre stato – meno gioioso e teatrale – il vasto mondo del sommerso, che coinvolgeva e coinvolge tanti, a patto di rimanere nell’invisibilità, perché certe cose si possono fare, ma non pubblicamente, in quanto occorre confermare certi ruoli sociali. Ma in fondo il desiderio e il piacere sono sempre disordinanti, e questo va ben al di là della questione omosessuale: basti pensare alla lunga storia di demonizzazione del piacere femminile e all’ossessione per il suo controllo.

Dunque smodatezza come nuova forma di vita libera? Al netto del fatto che, mi si passi la boutade, una fase di esperienza “libertina” può far bene a tutti, perché può insegnare ad allargare le proprie prospettive ed esperienze del mondo, degli altri e di sé (ricordiamoci che Agostino fu a lungo sedotto e insidiato dalla carne, trovando anche in quell’energia le fonti della sua interiorizzazione spirituale), non è così semplice. Di un ordine, e un limite, c’è bisogno. Ne ha bisogno l’eros stesso. Lo sapeva il Foucault della Storia della sessualità. Il punto è, come sempre, se questo limite è una conquista autenticamente personale, o qualcosa di subito senza comprensione, se è radicato in un’interiorità complessa e non fissa, oppure se è frutto di un’imposizione violenta e cieca, in nome di un dogmatismo astratto e falso (nel caso del cristianesimo, che non ha alcun appiglio nell’originario messaggio gesuano). Un dogmatismo che innanzitutto inganna se stesso ed è il segno di una profonda scissione (da ciò la doppia vita, nella Chiesa e non solo) e di una patologica rimozione. Il tema semmai è quello del senso della rilevanza dell’eros, della sua centralità identitaria, che non può essere svilita: ciò implica il rispetto dei corpi/anime, la capacità di sottrarsi al consumo, l’evitamento della banalizzazione. Sapendo che l’insidia del nichilismo può sempre celarsi nella potenza disordinante dello sperdimento erotico. Ma attenzione: quello sperdimento può anche essere fonte di conoscenza di sé e degli altri, di elevazione spirituale. A patto di accettarne la profondità. Di non farne né un’abitudine edonistica vuota, né – per contrasto – oggetto di un’ostile retorica bigotta (e in fondo un po’ “guardona”).

In questo senso, la famosa frase di Papa Francesco ha cambiato più di tanti trattati dottrinali. Il senso era: siamo tutti figli di Dio. Nell’amore non può esservi di per sé un male. Avrebbe dovuto chiarire anche teologicamente? Forse si, anche se era “politicamente” rischioso, in una Chiesa a rischio di scissione, sia per gli attacchi esterni/interni (che erano partiti contro Benedetto, ma che in parte sono proseguiti, magari cambiando matrice), sia per una difficoltà a governare che è stata, con modalità diverse, tanto del pontificato di Ratzinger quanto di quello di Bergoglio. D’altra parte, va detto che Fiducia supplicans c’è stata, e già quella scelta di ammettere la benedizione non liturgica delle coppie gay (oltre che delle coppie non sposate e di quelle civilmente sposate con un precedente divorzio ma senza annullamento), senza peraltro mutare “ontologicamente” la dottrina del matrimonio cattolico in quanto sacramento, ha suscitato reazioni scomposte. Certo, in quanto pontefice, Francesco avrebbe potuto e forse dovuto mettere i puntini sulle i, chiarire bene il senso e la portata di tale significativa innovazione pastorale che inevitabilmente ha implicazioni dottrinali e una notevole portata simbolica, e soprattutto la sua assoluta compatibilità con il messaggio gesuano, anzi, la sua piena fedeltà ad esso; e magari mettere in discussione non con battute, ma con più ordine, le cause e i contesti che determinano la sessuofobia (la quale nasconde presumibilmente una sessuomania) di una parte non infima della gerarchia ecclesiastica. Invece Francesco ha scelto la via della performatività del linguaggio (forse anche per calcolo politico “gesuitico”). In ogni caso, l’innovazione è stata grande. Su tali temi, ha fatto entrare aria fresca di verità nella Chiesa: ciò che molti aspettavano. Credo, e spero, che non sarà possibile tornare indietro. Leone, il cui programma è quello di “mettere in forma” l’eredità di Francesco, avrà qui uno dei suoi banchi di prova. La questione omosessuale, ma in generale il grande tema dell’eros e della sua sacralità, così come delle questioni bioetiche che investono lo statuto dell’umano (da liberare dalla pretesa totalizzante di una “genetica liberale” che non ammette repliche e dubbi critici), va sottratta alla presa dell’ideologia globalista neoliberale, alle pantomime dell’UE di Ursula von der Leyen, così come a quelle dei neotradizionalisti da burletta.

Neotradizionalismo e pseudoprogressismo sono speculari, dominati come sono da riduzionismi, semplificazioni, strumentalizzazioni. Sono ideologici senza ideologie.

Nel neotradizionalismo vige un concetto di natura rigido, essenzializzato. Siamo sicuri che sia compatibile con quella rivisitazione dell’anima, all’insegna dell’autenticità e del fervore spirituale interiore, che proprio Gesù propone, lanciando una sfida all’aristocrazia gerosolimitana, cioè ai cultori della Legge (divina e naturale) come esteriorità oggettiva? Il “naturale” per l’umano è sempre una seconda natura. Ciò che no significa che non ci sia un aggancio alla natura (essendo gli essere umani corpi finiti animati dalla psyche, che anche ad essa appartengono). Natura che lancia sfide originarie che non possono non essere raccolte e che tuttavia antropologicamente sono state “risolte” in modi diversi (ciò che fa una cultura, nei suoi tratti originari). Ma la natura della natura umana è di essere naturalmente innaturale: cioè siamo destinati all’artificio. Ciò che non significa arbitrio contingente e superficiale, senza spessore, ma accumulo di artificalità, sedimentazioni storiche e antropologico-culturali, che si evolvono, mutano, ma sulla lunga durata del tempo, e per opera di tutti e di ciascuno, cioè come lavoro che procede con il contributo ineludibile dei soggetti (nella modernità ciò vale anche “per sé”, cioè è evidente e oggetto di consapevolezza). Tali soggettività non possono trovare il proprio senso se polverizzate, cioè non inscritte in un orizzonte di senso comune, ma allo stesso tempo quell’orizzonte di senso non si realizza senza il contributo delle soggettività medesime. E quelle eretiche, spesso non capite e addiritaure perseguitate, danno anch’esse un contributo fondamentale a questa edificazione, anzi forse il più essenziale, perché innovano, indicano una strada, ma non autoreferenziale, bensì per tutti.  Del resto Gesù stesso era una di queste soggettività eretiche, come Socrate, Lutero, Francesco. Come lo furono – ognuna a suo modo –  anche Antigone (in nome della legge arcaica del sangue), Ipazia, Giovanna d’Arco, Chiara d’Assisi ecc. Del resto, i santi (così come i filosofi e gli artisti), si sa, sono sempre sul crinale, spesso a rischio di eresia.

Nei neotradizionalisti circolano concetti di “natura” e “bene” improponibili, funzionali a essere mobilitati polemicamente. Nozioni rigide e semplificate, poco plausibili persino rispetto alla grande tradizione del diritto naturale. C’è poi la questione complessa – e pure strumentalizzabile – dell’organicismo sociale, che non può essere liquidato come antimoderno, che è presente in una certa misura, pluralizzata e soggettivizzata, anche nella modernità politica di massa (come il tema di un certo grado di omogeneità sociale), che coglie il punto dell’insufficienza dell’individualismo, ma anche che è sempre a rischio di farsi quietismo, di alimentare  la contrapposizione di un sociale “armonico” al “politico” come volontà trasformatrice. Nel neotradizionalismo temi reali vengono curvati in chiave caricaturale. Simulacri e feticci sono presenti non solo nella post-sinistra, ma anche in quella “mezza cultura” reazionaria (che peraltro è infinitamente meno profonda della grande cultura di destra del Novecento, con i suoi antecedenti controrivoluzionari, da un lato, e nietzscheani, dall’altro): è anch’essa postmoderna, benché a sua insaputa. Quindi non ha un rapporto sano neppure con la Tradizione (quella vera, che o è cosa viva – un “trampolino”, come diceva Eduardo – o non è). È un modo non per assumere realmente, ma per strumentalizzare la questione antropologica, di fatto aggirandone la reale portata. Da un certo punto di vista, la cultura woke e il neotradizionalismo “postmoderno” si sostengono a vicenda. E sono accumunate dalla tendenza alla banalizzazione e alla semplificazione. Il neotradizionalismo è l’opposto della Tradizione (tanto quella premoderna, quanto quella che transita, filtrata e rielaborata, nella modernità). Così come il woke non è la radicalizzazione, né tantomeno il compimento della modernità (se non altro perché astorico), ma il suo traviamento, una forma di accecamento. Rispetto a tale deriva, aperta è la riflessione sulle responsabilità e le aporie dell’ultra-illuminismo. Ma certo la risposta non può essere l’irrazionalismo, ma un concetto di ragione “dialettica” con le spalle talmente larghe da assumere su di sé ciò che la eccede. Meglio un logos arrischiato, che si apre al mistico e riconosce la natura spirituale anche delle questioni politiche secolari, di un intelletto asfittico.

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