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La notte fa ancora paura


23 Mag , 2025|
| 2025 | Recensioni

La notte fa ancora paura (minimumfax) è il romanzo d’esordio di Fosca Navarra. Avevo presentato il suo esordio poetico edito da Ensemble Perdutamente, ritrovando una profetica maturità stilistica che sembra venire da un altro mondo, da un altrove.

La notte fa ancora paura, scritto con lo stile impeccabile dei classici, penso a Laclos, Proust e a Malombra di Fogazzaro, in una postura semantica incredibilmente matura, nonostante la sua giovane età. Si tratta di un libro sul patriarcato e sulla chiave femminista in quanto risposta che – in questo caso – non risponde mai del tutto, non passando all’atto, o venendo sconfitta. Sembra un documentario, uno spaccato di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere, o potrà essere, perché qui il femminismo non si compie, qui troviamo l’abuso e la sottomissione. Ma in fin dei conti cosa nella letteratura deve compiersi o risolversi? È forse, la letteratura, un messaggio di salvezza? Lo è mai stata? Direi di no.

Disorientante, senza centro, proliferante, come vuole Deleuze in Mille piani; ma la notte di Fosca sono sette piani di realtà, storie d’abuso, gravidanza e abbandono scritte con sette stili diversi a seconda dell’epoca in cui ci si immerge. 

Sono sette dimensioni del possibile, la prima più ambientale e coreografica, quasi proustiana; la seconda psichica come il danno ricevuto, e la tensione alla percezione della coincidenza con la morte; la terza orientale e antidemocratica come il femminile che deve servire e sottomettersi al maschile; la quarta un frammento di nouvelle vague, dove neppure attraverso la libertà si è liberi e, anzi, l’apparente libertà in quanto libertinaggio coincide con l’asservimento, nonostante la prostituta Madeleine cerchi di opporsi alla prevaricazione maschile; la quinta, è la dimensione più ampia dell’abuso dove la piccola etiope Fenan nel 1936 si scontra con il binomio violenza/fascismo; la sesta, Amy, nell’America maccartista degli anni Cinquanta si configura come un incontro con il sé; la settima, Carmen, che alle soglie del 1968 in una Napoli estrema e cinematografica si domanda se per essere amata sia necessario rinunciare a sé stessa. In queste sette dimensioni vi sono zone d’ombra e sacrifici, e risuona l’urlo che chiede libertà e uguaglianza, per quanto l’urlo sia anche un canto per via dello stile che risuona altissimo.

La notte fa ancora paura è un libro decisamente letterario, che lascia un amaro in bocca per via del tragico destino delle protagoniste, l’obbligo a restare in esistenze che non hanno scelto, dentro regole maschili e maschiliste che non hanno voluto e che diventano la loro rovina. Ciò che colpisce, ancora una volta, è lo stile, perché muta in ogni episodio, inizialmente vi si potrebbe rivedere il Laclos de Le relazioni pericolose, e alcuni episodi della Recherche di Proust, ma anche la Ortese de Il porto di Toledo, e poi diventa sempre più secco, e si scende sempre più in fondo all’animo umano e femminile, qualcosa di profondamente felino e insondabile, in cui la felicità si allontana ogni volta di qualche millimetro; in altri casi è proprio violenza e tortura, qualcosa di Sadiano, come nella Justine

Non so quanto tempo sia stato necessario per imbastire una simile architettura, e quanta ricerca storica e quanta invenzione vi sia; mi domando quale sia per Fosca Navarra il ruolo del gatto e della felinità e il legame di quest’ultima con la femminilità. Il sette è un numero paradigmatico: sette episodi come sette sono le vite del gatto, fa pensare perfino a dei riferimenti numerologici.

Alcune donne finiscono per essere lasciate perché chiunque abbiano amato si è sentito divorato da loro, mentre loro abusate e abbandonate; e tuttavia anche con una possibilità – una potenzialità – di cuore, giacché un cuore infranto è pur sempre un organo che un tempo fu intatto. Ecco, certe pagine ricordano ancora il sentire che per necessità di sopravvivenza spesso mutiliamo. Ogni scrittore è in parte una persona orrenda, con un cuore mutilato. Forse la scrittura serve finché si è in quello stadio del reale, e quando la frana si rimargina smette di servire, oppure evolve.

Il mondo non è mai stato così clemente da concederci una tregua. Ci ferisce saperci utilizzati senza amore, senza cura, ma accade troppo spesso, è l’umiliazione quotidiana della ruota, quel punto minuscolo in cui figuri come vita vuota. A furia di sopportare soprusi diventi glaciale. Non credi più nel donare amore, o zelo, senza restituzione. A un certo punto avviene: ci sentiamo cavi, svuotati dalla misura colma di violenze. A volte le protagoniste di Navarra vengono guardate come oggetti strani e bellissimi di cui servirsi, a cui consigliare una terapia (o una mutilazione), a cui chiedere, sempre e solo chiedere. Nessuna persona è un oggetto. Chi si percepisce tale finisce per esserne travolto, schiacciato. Quando chiedi qualcosa a un essere umano devi considerare anche l’altra parte, la junghiana ombra. Le protagoniste di Fosca attendono tutte una devozione senza confini.

Chissà se capita a Fosca, come capita a me, di domandarsi se ci sia ancora tempo, non il tempo biologico, ma il tempo di avere le qualità fisiche e psichiche per fare ancora della vita qualcosa di straordinario mediante la scrittura, o mediante il dialogo. Credo lei l’abbia fatto. Ha viaggiato in epoche e continenti distanti pur restando dov’è, ma compiendo un viaggio nella letteratura. Un viaggio che si trasformerà in un Nostos: il ritorno a casa dopo migliaia di peregrinazioni; estinguere ogni debito karmico, e godere di quel che resta, finché resta. 

Donna non era ancora, quando posò per il ritratto. Lo si evince va dal piglio scomposto dello sguardo, fra il turchese e l’acerbità di un frutto; dal mancato assestamento, sui lineamenti camusi, di un sorriso in bilico tra il richiamo delle bambole e la gene si di una maldestra civetteria; dal pulsare dei seni al di sotto del corsetto chiaro. Persino nel modo in cui teneva un po’ inclinato il capo, rovesciando sulla spalla destra il peso degli albeggianti boccoli intessuti di nastrini, lasciava intendere una sorta di profezia rispetto alla prossimità del suo menarca. Fu con tale aspetto – quello che sfoggiò per lungo tempo in una cornice d’oro, su una parete dell’illustre salotto di corso Venezia n. 7 – che a Elisa Adda toccò di passare alla posterità. Con un ritratto che non sopportava, che – così diceva spesso – aveva colto il momento in cui si era dovuta rassegnare alla propria scarsa avvenenza.

«Perché lì ho perduto tutto!», diceva al padre e alla madre, quando li pregava di rimuovere il dipinto. «Perché lì ho cessato di essere tenera e di potermi conquistare le persone con le moine! Ci sono forse altre maniere per una donna di ottenere ciò che vuole?»

Per sua fortuna, la terzogenita degli Adda veniva a stento no tata nel suo stesso ritratto. Al centro dell’attenzione era invece la splendida gatta che teneva in grembo.

Si chiamava Aida.

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