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Garlasco


24 Mag , 2025|
| 2025 | Visioni

Se ne parla tanto e troppo a vanvera. Le informazioni che abbiamo, ammesso che siano vere o corrette, non ci consentono di capire quale sia lo stato delle indagini. Quindi sarebbero doverosi, da parte di tutti, il silenzio o, almeno, la cautela. Ma un tale self restraint è roba fuori dal tempo, dai contesti, probabilmente dall’antropologia italica. E allora, per coerenza, mi asterrò dal dire la mia, anche perché non saprei veramente che dire.

 L’opinione comune è sconcertata e non riesce a comprendere la ragione per cui dopo una sentenza definitiva di condanna e a distanza di così tanto tempo si profili adesso l’affacciarsi di una responsabilità di altro o altri, con la conseguenza che in carcere sarebbe stato costretto un innocente. Ecco quindi le accuse alla polizia giudiziaria, agli avvocati, ai magistrati che avrebbero sbagliato e gravemente, ciascuno secondo la propria funzione: indagini, accuse, difese, giudizi mal condotti per sciatteria o anche peggio. Ora che in Italia il sistema giustizia sia gravemente ammalorato è a dir poco incontestabile: tutti gli elementi, studi giuridici, regole, persone, strutture, dovrebbero essere riconsiderati. Così stando le cose, e credo che così stiano realmente, le proposte e le riforme abbozzate dal Ministro Nordio sono meno che acqua fresca. Tuttavia, tornando a Garlasco, occorre introdurre il caso in una dimensione più ampia e pregiudiziale: vediamo.

 Intanto bisogna considerare che la Corte d’Assise d’Appello di Milano, che ha condannato Alberto Stasi a 16 anni di reclusione, era composta da due magistrati togati (giudici di mestiere) e da sei giudici popolari (comuni cittadini estratti da apposite liste di uomini e donne disponibili). Salvo ipotizzare che i togati abbiano manipolato i giudici popolari, il che è indimostrato, si deve allora concludere che, se errore giudiziario vi sia mai stato, di ciò è responsabile anche, quantitativamente di più, il popolo italiano rappresentato da quei sei cittadini.

 Fuochino, però, solo fuochino. La questione di fondo è un’altra, questa. In processi del genere si chiede alle persone chiamate a costruire una decisione – a partire dalle prime indagini fino alla sentenza conclusiva – quel che in assoluto esse non potranno mai rendere: cioè la certezza sul come una certa vicenda si sia svolta nella realtà storica. Già l’istituzione diritto e l’istituzione processo giudiziario sono connotati ex se da un grado notevole di ubris che, in greco antico, indica tracotanza, bizzarria, baldanza: c’è tutto questo sì e potremmo anche semplificare affermando che c’è presunzione, la presunzione che l’interazione tra schemi o tipi astratti di condotte e accertamenti concreti e temporalmente distanti dai fatti in decisione possa consegnarci quasi la fotografia dell’accaduto e, dunque, inequivocabilmente la responsabilità o la negazione della medesima, dunque una sicura condanna o una sicura assoluzione.

 Talora accade così, quando le prove siano inconfutabili: si pensi alla confessione, alla riproduzione cinematografica o fotografica, alla convergenza delle deposizioni di più testimoni. Accade così, ma anche in presenza di evidenze del genere potrebbe esservi sempre spazio per interpretazioni diverse o antitetiche, con la conseguenza che le valutazioni e i giudizi saranno altrettanto tali, cioè vari.

 Ma in altri casi, direi nella maggioranza, non accade così: le prove o, meglio, quelle che si immaginano essere tali non ci restituiscono alcuna certezza e restano ambigue, armando così decisioni plurime e contrastanti. Ecco dove sta l’ubris delle due istituzioni prima nominate: ubris significa anche violenza e violenza arrecano o possono arrecare quelle sentenze che, in contesti probatori incerti, decidono egualmente in quanto debbono decidere perché così impone la legge. Il codice penale dispone che la condanna è consentita, anzi dovuta, se la colpevolezza dell’accusato risulti «al di là di ogni ragionevole dubbio». Ora, la ragionevolezza implica la necessità di una ponderazione fondata su argomenti solidi, come tali valutabili se non universalmente,  certo dai più. Ma in camera di consiglio statistiche del genere non trovano ovviamente campo. La formula del codice arriva allora dove può, senza eliminare, anche se questa era l’ambizione, i varchi dell’interpretazione o, anche, della discrezionalità.  

 Si può condannare dunque anche se vi sia margine di dubbio sulla colpevolezza dell’imputato purché questo margine sia ridotto. Ma chi ci garantisce che una qualunque giuria avverta correttamente l’istruzione del legislatore? Quando poi questa istruzione non  esclude essa stessa, ma accetta, il rischio dell’errore? Con ciò si arriva alla questione nodale: la legge permette di condannare anche al massimo della pena sulla scorta di semplici indizi, consente cioè non solo la praticabilità, ma l’esito condannatorio dei processi indiziari.

 Certo non basterà un indizio, ne occorrerà una pluralità, questi dovranno essere rilevanti ai fini della decisione e non generici, dovranno concordare tra loro e offrire nel complesso un contesto di credibilità: ma uno, più, tanti indizi resteranno sempre quel sono, cioè ambigui, non ci daranno mai quel che vorremmo, la prova inoppugnabile. Il caso di Garlasco appartiene tipicamente a quest’ambito: se la ricerca è indiziaria e di altro i giudici non dispongano, non dobbiamo meravigliarci dell’aleatorietà e contraddittorietà degli esiti istruttori. Alberto Stasi è stato assolto in Tribunale e in Corte d’Appello, poi la Cassazione ha annullato la sentenza di quest’ultima a cui ha rinviato per un’ulteriore sentenza che, però, è risultata condannatoria.

 Stasi e infiniti altri come lui possono essere innocenti o colpevoli. Ma siamo disposti a correre i rischi che sono intrinseci, connaturati a un qualunque processo indiziario? Siamo disposti a consentire che innocenti siano condannati, magari all’ergastolo? L’indizio introduce il sospetto e la congettura: si può condannare in queste condizioni cognitive?

 Nel 2000 si è proposta la questione di costituzionalità del processo indiziario e la Corte l’ha ritenuta infondata. Ma il dubbio, al di là della Costituzione, sulla compatibilità con la struttura dello stato di diritto e, ancor più, con la funzione istituzionale dell’amministrazione della giustizia resta, eccome. Il processo è uno strumento di conoscenza: se nonostante l’impegno seriamente profuso, non pervenga alla conoscenza piena, non c’è alcun fallimento perché il difetto non è degli uomini addetti, ma dei limiti insuperabili in cui può andare incontro qualunque esperienza umana di ricerca che, lo sanno i ricercatori, incontra spesso e volentieri l’area dell’inconoscibile. In questi casi, nei processi giudiziari, che si assolva. Ma perché i giudici lo possano fare, occorre modificare la legge. Modifichiamola allora e proviamo a introdurre un maggior equilibrio per il quale è necessario anche ripensare il sistema, talora troppo generoso, degli sconti di pena et similia in confronto di chi sia certamente, e gravemente, colpevole.  

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