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Sul paradigma prossimo venturo

Passano gli anni, i treni, i topi per le fogne, i pezzi in radio, le illusioni, le cicogne.
Passa la gioventù, non te ne fare un vanto, lo sai che tutto cambia, nulla si può fermare.
Cambiano i regni, le stagioni, i presidenti, le religioni, gli urlettini dei cantanti.
E intanto passa ignaro il vero senso della vita, si cambia amore, idea, umore, per noi che siamo solo di passaggio.
L’Informazione, il coito, la locomozione, diametrali delimitazioni, settecentoventi case.
Soffia la verità, nel libro della formazione, passano gli alimenti, le voglie, i santi, i malcontenti.
Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, né prevedere i cambiamenti di costume.
E intanto passa ignaro il vero senso della vita, ci cambiano capelli, denti e seni, a noi che siamo solo di passaggio.
FRANCO BATTIATO ( “Di passaggio”, 1996)
Come il paradigma cristiano è scemato a favore di quello galileiano, così quest’ultimo lascerà il posto a una nuova visione dell’uomo e del mondo. Non è dato a sapersi quali saranno le sue caratteristiche specifiche, né quanto durerà il travaglio. Quel che è certo è che “tutto scorre”, e che il paradigma corrente ha fatto il suo tempo. I segnali del suo declino, forti e chiari, sono inesorabili. L’alba del nuovo “rinascimento”, che rischiarerà la “eclisse della ragione”, è solo questione di tempo. L’incubo della “ragione strumentale” è la fase terminale di quel “sonno della ragione” dal quale in tanti si stanno già risvegliando.
Un chiaro segnale che i tempi sono maturi viene dalle strategie inquisitorie che il clero tecnoevale mette in campo nel tentativo di preservare quello “spirito del tempo” che ha ormai assunto i connotati di un’agonia. Ma gli eretici, anziché dileguarsi, si stanno moltiplicando. Sempre più persone stanno acquisendo consapevolezza che il dogma della crescita, il credo neoliberista e il mito del progresso tecno-scientifico illimitato configurano ormai, nel loro complesso, una sorta di psicosi collettiva. Una gara patologica proprio perché, mancando la linea d’arrivo, non può che concludersi per esaurimento psico-fisico dei concorrenti. È ormai chiaro a tanti che, se non ci ritiriamo in tempo da questa patetica corsa senza traguardo, ci ritroveremo presto, esausti e sfiniti, in un deserto inospitale, privo di risorse e disseminato di rifiuti.
Un’altra prova del fatto che l’attuale assetto di potere è alla frutta si lascia cogliere nei suoi intenti distorsivi. Come il clero medioevale ha distorto il messaggio cristiano al fine di accrescere e perpetuare il proprio potere, arrivando ad ardere vivi gli infedeli in nome di Dio misericordioso, così il clero tecnoevale ha distorto il messaggio galileiano fino a perseguitare in nome della scienza – che si basa sull’esercizio sistematico del dubbio – chi osa dubitare della tecno-salvezza. Come quella dispensata a piene mani nel periodo pandemico. Come quella che passa per la corsa del vecchio continente ai nuovi armamenti. Come quella che ci assicurerà l’intelligenza artificiale. Non c’è niente di più blasfemo, nel tecnoevo, che mettere in discussione la salvezza terrena offerta dalla tecnica. Chi osa parlare di tecno-tracotanza, di hybris, di dismisura, viene messo all’indice. Ed è proprio questo il segnale più chiaro che il tecno-barocco ha gli anni contati: la pseudocultura “no limits”, quella sbronza tecnocratica che ignora tanto i limiti termodinamici dell’ecosistema quanto quelli psicofisici dell’umano, è il più cogente fra i limiti della civiltà tecnoevale.
Non mi cimenterò qui nell’improbabile tentativo di profetizzare i tratti del nuovo paradigma. Proverò invece a tratteggiare una sua caratteristica che mi sembra desiderabile, perlomeno dal punto di vista di un uomo del XXI secolo. E lo farò partendo da una visione cosmologica. La cosa può apparire singolare solo se non tiene conto del ruolo che ha svolto la rivoluzione copernicana nel diradare le tenebre dell’oscurantismo medioevale.
La cosmologia attuale è per lo più orientata a favore della teoria del “big-bang”. Ci sono evidenze piuttosto stringenti a sostegno della tesi secondo cui, circa quattordici miliardi di anni fa, la temperatura, la densità e la curvatura dell’universo erano estremamente elevate. A ciò sarebbe seguita un’espansione iniziale rapidissima, chiamata “inflazione”. In seguito l’espansione avrebbe rallentato, ma le osservazioni astronomiche mostrano che prosegue e accelera tuttora. Nell’immaginario collettivo ciò significa che l’universo è nato quattordici miliardi di anni fa, e che prima non c’era niente.
A mio avviso, questo modo di vedere le cose è quantomeno discutibile. Mi sta bene pensare che quattordici miliardi di anni fa l’universo fosse estremamente caldo e concentrato, e che poi si sia espanso e continui a farlo. È quello che suggeriscono i dati empirici disponibili. Quello che non mi sembra affatto credibile è che prima di allora non ci sia stato nulla. Su questo, non abbiamo alcuna evidenza. Il fatto che molti, invece, ci credono, non mi stupisce poi più di tanto. Tutto sommato, l’idea che il modello cosmologico del “big bang” suggerisca un inizio dell’universo, una creazione ex nihilo, è stata preceduta da millenni di creazionismo di matrice biblica. Nulla di più facile, dunque, che proiettare sul piano scientifico un pregiudizio di matrice religiosa così profondamente radicato.
Le civiltà antiche avevano una concezione ciclica del tempo e del mondo. Del resto, basta guardarsi attorno, basta osservare il ciclo delle nascite e delle morti, il susseguirsi delle stagioni, i moti celesti, le equazioni della meccanica quantistica per rendersi conto che l’Essere, la Natura, oscilla come un pendolo che non si smorza. È questa oscillazione che scandisce il tempo universale. E le oscillazioni sono proiezioni di rotazioni, come ci si può facilmente rendere conto facendo ruotare un sasso attaccato a uno spago – come “La Fionda” di Davide – sopra la vostra testa: Golia che vi osserva dall’alto vede la rotazione, mentre il pavido che guarda tenendosi a distanza di sicurezza vede un sasso che va avanti e indietro, come se fosse attratto verso la vostra mano da un elastico. Un’oscillazione, per l’appunto.
«Il suo fondamento prenderà per noi l’inizio da questo: che nulla mai si genera dal nulla per volere divino» diceva Lucrezio.« Se tieni in mente questa verità, libera ti apparirà in un istante la natura, priva di superbi padroni, compiere spontaneamente ogni suo atto, da sé, senza influssi degli dèi». «Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma» dirà più tardi Antoine de Lavoisier riprendendo questo principio che risale almeno a Parmenide e a Democrito. «Tutte le cose hanno origine l’una dall’altra e periscono l’una nell’altra, secondo la necessità. Esse si rendono l’un l’altra giustizia, e si ricompensano per l’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo». Così Anassimandro sintetizzava la sua visione cosmologica. Un universo al quale, se chiedete come va, non vi risponde “Tutto bene!“. Vi risponde “Alti e bassi!”. Un universo onesto.
Per quello che può valere il mio parere, l’universo c’è, c’è sempre stato e sempre ci sarà. «L’essere è e non può non essere» diceva Parmenide. «L’energia di un sistema isolato si conserva» diciamo noi oggi. Anche questo principio di conservazione, che ad oggi non ha mai conosciuto smentite, dovrebbe dissuaderci dal dare credito a certe idee malsane, come quella che l’universo abbi avuto un inizio. Una cosmologia ciclica può ben ammettere fasi singolari, in cui le condizioni fisiche raggiungono valori limite, senza che queste segnino né l’inizio né la fine dell’universo. Quello che non può ammettere sono le funzioni monotone, che continuano a crescere (o a diminuire). Le sole funzioni che una cosmologia ciclica può ammettere sono quelle oscillanti. Onde. Alti e bassi. L’entropia e il tasso di espansione, in una cosmologia ciclica, non possono crescere per sempre. Prima o poi, anche loro «si rendono l’un l’altra giustizia, e si ricompensano per l’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo», ma non è detto che questa fase del ciclo cosmico sia compatibile con la vita come la conosciamo.
Il lettore si starà chiedendo dove intendo andare a parare con questa digressione/trasgressione cosmologica. Dunque, vengo al punto. Immaginatevi un pendolo che oscilla – un tipico esempio di processo ciclico – e chiedetevi: è il passare del tempo che fa oscillare il pendolo, o è l’oscillazione del pendolo che fa passare il tempo? A meno che l’esperimento mentale non vi abbia indotti in uno stato ipnotico, presumo conveniate sulla seconda possibilità. Questo per dire che, se la Natura è ciclica, è ciclico anche il tempo naturale. Il nostro, invece, non lo è. Il nostro tempo va dalla creazione all’eschaton, va dall’inizio alla fine. Il nostro è un tempo lineare. Ma «la necessità è di gran lunga più forte della tecnica» diceva già Prometeo. Come a dire, la Natura è di gran lunga più forte di noi. Se il tempo naturale è ciclico, rimanere ancorati all’idea di tempo lineare vuol dire farsi del male da soli. Vuol dire condannarsi a sbattere la testa contro un muro di cemento armato dai limiti fisici del pianeta. «Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista» diceva Kenneth Boulding (che era un economista). Ora, io non so se il tempo naturale è effettivamente ciclico. Ne sono convinto sulla base di quanto sopra considerato, ma non ne sono sicuro. Però so che ci stiamo comportando come fosse assodato che il tempo naturale è lineare. E se ci sbagliassimo?
Se il tempo naturale fosse ciclico, comportarsi come se fosse lineare avrebbe delle conseguenze sociali, politiche ed economiche la cui portata è difficile da sopravvalutare. Un esempio su tutti è quello del capitalismo, la dottrina economica che prevede la crescita illimitata del capitale. Se la Natura è ciclica, i processi naturali – e le dinamiche umane sono processi naturali – non ammettono crescite (o decrescite) illimitate. In quest’ottica, il capitalista che incrementa continuamente il proprio capitale agisce contro Natura. Ma la Natura è più forte dell’uomo, delle sue dottrine e delle sue ambizioni, per questo ogni tentativo di andare contro Natura è destinato a fallire miseramente. Per questo il fallimento del capitalismo è inscritto nelle premesse della sua dottrina. La ricchezza si accumula e cresce, ma non indefinitamente. A un certo punto crolla, e i cocci sono di tutti, non solo di chi ha rotto il vaso giocando a risiko con la Natura. Per questo la storia del capitalismo è costellata di crisi economiche dagli effetti disastrosi. L’andamento a “dente di sega”, che alle risalite euforiche fa seguire dolorosi precipizi, è quello che ci si deve aspettare nella misura in cui ci si allontana dall’andamento naturale, che è quello “sinusoidale”. Onde. Alti e bassi. La disonestà del “tutto ok!” non può che preludere alla depressione più profonda. Sull’ingenza dei danni che la dottrina capitalistica ha inferto all’umanità non occorre spendere troppe parole.
Anche le guerre dell’età moderna – e la volontà di potenza che le muove – sono in un certo senso sono figlie della concezione lineare del tempo introdotta dalla Bibbia. «Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione, quando fu di fronte al mare si sentì un coglione, perché più il là non si poteva conquistare niente. E tanta strada per vedere un sole disperato: è sempre uguale, è sempre come quando era partito». Così cantava Roberto Vecchioni. Peccato che, dal palco di “Una piazza per l’Europa”, non abbia disdegnato il piano di riarmo europeo.
Gli effetti nefasti della concezione lineare del tempo si lasciano avvertire anche nelle aberrazioni linguistiche di cui, più o meno inconsapevolmente, ci rendiamo partecipi. Avete notato che “nuovo” è diventato sinonimo di “migliore”, sebbene i loro significati siano del tutto diversi? Su questo equi-voco si basa, in ultima analisi, il mito del progresso tecno-scientifico illimitato. Se ciò che è nuovo è di per sé migliore, non ci resta che proseguire nell’innovazione, e ciò migliorerà automaticamente il nostro vivere. Non è questo, in ultima istanza, il cortocircuito logico che esonera il progresso tecnico e scientifico – così come il capitale – da ogni forma di controllo e di limitazione?
Non si tratta qui di demonizzare la tecnica che, almeno per quanto mi riguarda, è e resta “l’essenza dell’uomo”. Si tratta invece di capire che gli eccessi non pagano, soprattutto se – volenti o nolenti – facciamo parte di una Natura che è “di gran lunga più forte della tecnica” e non ammette andamenti monotoni, quelli che portano all’eccesso. La tecnica, in quanto rimedio alla fatica e alla sofferenza del vivere, è come un farmaco: va dosata. Non è vero che più ce n’è e meglio è. È come assumere un farmaco oltre il dosaggio consigliato: invece di farti star meglio, ti fa stare peggio. Gli incrementi iperbolici dello stress, delle ansie, delle depressioni, delle psicosi, dell’autolesionismo, dei suicidi, del malcontento che attanagliano e divorano in particolare gli abitanti dei paesi tecnicamente sviluppati sono, a mio avviso, chiari sintomi dell’avvelenamento tecnico che ci siamo procurati con le nostre stesse mani, della maledizione tecnica verso la quale stiamo correndo con le nostre stesse gambe. La hybris, la tecno-tracotanza, la dismisura tecnologica è la cifra della civiltà tecnoevale.
Padroneggiare la tecnica non significa lasciarsi rifliare – o addirittura salutare con entusiasmo – tutte le diavolerie che escono dal vaso di Pandora. Vuol dire saper dire “SI” alle tecniche che ci migliorano la vita, e “NO” a quelle – come l’intelligenza artificiale – per le quali è del tutto prevedibile che creeranno più problemi di quanti potranno risolverne. Lo scienziato è uno “stregone” in quanto è in grado di carpire alla natura segreti che gli conferiscono un grande potere. Ma è uno “stregone” alquanto ingenuo, perché distribuisce questo potere – si pensi all’energia atomica – a chi non ha la statura spirituale per usarlo saggiamente, né ha lo spessore umano per dire “NO” quando è il caso di dirlo.
Il tempo lineare è il tempo della “salvezza”, a mio avviso una delle idee più tossiche che l’uomo abbia concepito. Poiché la salvezza è individuale – questo tanto nel cristianesimo quanto nel technesimo – la sua ricerca innesca inevitabilmente una competizione tra individui. Una gara che, in particolare nel technesimo – dove la salvezza si accontenta della sua versione terrena – si declina in tutte le sfumature dell’adagio mors tua vita mea. Tutti contro tutti, e si salvi chi può. E siccome la salvezza è sempre domani, l’attesa messianica della tecnosalvezza finisce per assumere i connotati demenziali di quella gara senza traguardo cui accennavo prima. Le sole cose dalle quali dobbiamo salvarci, forse, siamo noi stessi e l’idea di salvezza che abbiamo partorito, e che ci sta conducendo per mano verso il ciglio del baratro.
L’idea di salvezza non ha diritto di cittadinanza nel tempo ciclico, dove non v’è passato, né futuro, e dunque neanche presente. Il tempo ciclico è il tempo dei processi reversibili, quelli che non aumentano l’entropia. È il tempo delle oscillazioni, degli alti e dei bassi. Non elimina la sofferenza, che è e resta una dimensione ineludibile del vivere, ma la accetta e con ciò la riduce al minimo. Il tempo lineare, con la sua ossessione per la salvezza, vorrebbe sbarazzarsene, ed è proprio questa sua tensione innaturale, teleologica, a procurarci la sofferenza aggiuntiva che tutti sperimentiamo “in quest’epoca di pazzi”. “Ci mancavano gli idioti dell’orrore”, chiosa Franco Battiato.
A proposito di “orrore”, mi appresto a concludere con una riflessione sovvenutami leggendo l’ultimo contributo a “La Fionda” di Geminello Preterossi, “Uscire dalle catacombe, contro l’apocalisse culturale”. Scrive Preterossi: «Non occorre invece un sapere capace di fare i conti con la complessità dell’umano, oltre che con l’ineludibile dimensione simbolica della nostra esperienza (peraltro in sintonia con le acquisizioni più interessanti e sorprendenti della fisica contemporanea, come quelle legate agli sviluppi della meccanica quantistica)? Ma un sapere siffatto non può più essere meramente tecnico-ingegneristico-applicativo, perché produce una torsione dell’umano, che ci allontana dal nostro centro più intimo e distorce la nostra percezione del reale. E quindi ci allontana anche dalla verità, per noi inagguantabile in modo compiuto e definitivo, ma allo stesso tempo avvertibile come risonanza della sua totalità.»
Werner Heisenberg, il padre biologico della meccanica quantistica (MQ), aveva intuito che le sue equazioni «governano il possibile, e non l’effettivo». A chi non ha dimestichezza con questa teoria, la cosa potrebbe apparire poco più che un’ovvietà. Dopotutto, anche le leggi umane «governano il possibile, e non l’effettivo», nel senso che stabiliscono che cosa si può fare – o, in alternativa, che cosa non si può fare – e non ciò che effettivamente facciamo. Tuttavia, tra le leggi della MQ e quelle umane passa una differenza abissale.
Il possibile, in MQ, appare più “reale” dell’effettivo. Se ci limitassimo ai primi quattro postulati della teoria, avremmo un mondo in potenza. Del resto, come osserva lo stesso Heisenberg: «Negli esperimenti sugli eventi atomici noi abbiamo a che fare con cose e fatti, con fenomeni che sono esattamente altrettanto reali quanto i fenomeni della vita quotidiana. Ma gli atomi e le stesse particelle elementari non sono altrettanto reali; formano un mondo di possibilità e potenzialità piuttosto che un mondo di cose o di fatti.» O, ancora: «Se si considera la parola “stato” come una descrizione della potenzialità piuttosto che di una realtà, allora il concetto di potenzialità coesistenti è abbastanza plausibile, poiché una potenzialità può comportare la sovrapposizione con altre potenzialità».
Ma siccome a noi il mondo appare in atto, non in potenza, abbiamo dovuto aggiungere “a mano” un quinto postulato che sistemi le cose. È il cosiddetto postulato del “collasso della funzione d’onda” o della “riduzione del vettore di stato”, secondo il quale l’osservazione di un sistema fisico lo costringe a “prendere posizione”, cioè ad assumere uno solo tra i suoi stati possibili, quelli che sovrapponeva prima dell’osservazione. Per questo Abner Shimony, un fisico che è stato molto attivo nell’esame dei fondamenti concettuali della teoria, può scrivere del tutto appropriatamente: «Heisenberg ha tratto dalla meccanica quantistica una tesi metafisica profonda e radicale: che lo stato di un oggetto fisico è una raccolta di potenzialità. Ma la sua scoperta è incompleta, in quanto la transizione dalla potenzialità all’attualità rimane misteriosa». Un vero mistero.
Il mondo quantistico ricorda, per certi versi, l’esperienza onirica. Nei sogni, le persone, i luoghi, le situazioni, sono spesso sovrapposte, e per andare «da Torino a Palermo, dal cielo all’inferno» – come cantava Francesco de Gregori – non è necessario salire in macchina o prendere un treno o un aereo. Prima sei li, dopo sei là. «Vagavo per i campi del Tennessee. Come vi ero arrivato chissà? Non hai fiori bianchi per me? Più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare.» cantava Franco Battiato. Del resto, già William Shakespeare diceva che «siamo fatti della stessa sostanza dei sogni». Sarà vero?
Per dare un’altra mano di colore alla cosa, mi avventuro a dire che il mondo descritto dalla MQ è una sorta di cinema multisala, nelle cui sale girano tutti film possibili. Il fatto è che noi siamo seduti nella sala “horror”. Il film che gira non ci entusiasma, ma qualcuno ha detto che questo è il migliore dei mondi possibili, e noi ci abbiamo creduto. “Forse questo ti sembrerà strano, ma la ragione ti ha un po’ preso la mano, ed ora sei quasi convinto che non può esistere un’isola che non c’è” cantava Edoardo Bennato. Il clero tecnoevale ci ha fatto credere che il tempo è lineare, che l’esistente esaurisce il possibile, e noi gli abbiamo dato retta. La MQ, invece, sembra di tutt’altro avviso. Che facciamo?
Non è chiaro se, in che modo e in che misura sia la coscienza a selezionare uno in particolare tra i “mondi possibili”, il film che gira nella sala in cui siamo seduti, né se questa eventuale facoltà sia prerogativa della coscienza individuale o collettiva. Le questioni restano apertissime, ma se continuiamo a privilegiare la spiritualità della trascendenza, e a trascurare quella dell’immanenza, credo che difficilmente ne verremo a capo. Certo, se continuiamo a pensare che “there is no alternative”, dalla sala “horror” non ci schioderemo né da soli né in buona compagnia. Ciò detto, auguro buon nuovo paradigma a tutti.
Ci possiamo chiedere come mai una teoria così difficile da comprendere, così articolatamente contestata da Einstein, come la MQ abbia mantenuto fino ad oggi in modo talmente rigido il monopolio della descrizione dei fenomeni atomici e subatomici. La risposta, come vedremo, sta nel fatto che nella MQ c’è una parte di vero, quello che invece non sta assolutamente in piedi è “l’interpretazione di Copenhagen”, basata sull’idea balzana di “complementarietà”. Ma, forse, c’è di più: la rinuncia della MQ a comprendere la realtà, limitandosi a formulare ricette per agire sulla materia in senso tecnico ed economico, per il potere politico ed economico è di fatto una benedizione, che permette l’assoggettamento della scienza, senza gli impopolari roghi e scomuniche che furono necessari alla Chiesa al nascere della scienza moderna.
GIULIANO PREPARATA (memoria del 1998)
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