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Tre anni pericolosi (1): la Ue e la sua nuova ideologia


4 Giu , 2025|
| 2025 | Visioni

L’Unione europea sta cercando di andare oltre i suoi limiti attuali, che essa stessa si è data. Progetta di farlo con un modo semplice: la guerra.

Il progetto di integrazione europea incarnato nella Ue si è sostanzialmente identificato con la causa dell’Ucraina di Zelensky contro la Russia. Si tratta di una novità allarmante che esige una spiegazione e suscita numerosi interrogativi. I più scottanti per l’immediato futuro riguardano il futuro di tale progetto, se cioè associandosi ad una guerra destinata ad essere persa esso abbia firmato la sua condanna: simul stabunt, simul cadent. Questa eventualità appare probabile, anche se non in termini di collasso repentino del potere della Commissione e della governance ad essa associata. Ma prima di azzardare previsioni è indispensabile capire come e perché sia avvenuta tale identificazione, un assunto propagandistico affermato con enorme dispendio di mezzi.

Pensiero unico nella politica estera

Dallo scoppio della guerra nel 2022 la politica estera dell’Unione europea si è definita con un incondizionato sostegno a Zelensky, marcando una discontinuità: è più corretto dire che in precedenza una politica estera dell’Ue nel suo complesso non esisteva proprio. Il cosiddetto “Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza” è sempre stato più simile al portavoce di un gruppo litigioso che ad un reale ministro degli Affari Esteri, ed in quanto tale la caratteristica più calzante era l’abilitá di fingere che esistesse una posizione comune mentre ognuno teneva una propria linea conforme ai propri interessi nazionali, ovviamente  divergenti.

Oggi invece tale dissenso non è tollerato; il sostegno all’Ucraina contro la Russia è diventato un dogma così ferreo per tutta la diplomazia e nomenclatura comunitaria da marginalizzare o ridurre allo stato di paria politici chi non lo condivide con entusiasmo (si pensi all’Ungheria), nonostante che l’opzione diplomatica fosse enormemente più conforme agli interessi della stragrande maggioranza dei paesi europei. 

Una proxy-war per gli Usa?

Numerosi osservatori considerano la guerra in Ucraina come un’operazione fondamentalmente made in Usa per indebolire la Russia nel quadro di una competizione geopolitica globale. Questa interpretazione ha molti punti a suo favore: dal famoso documento della Rand che prefigura la guerra di sanzioni già nel 2019 alle numerose ricostruzioni riguardanti la penetrazione statunitense nel paese dalle piazze di Euromaidan (fine 2013-inizio 2014) in poi sul piano militare, politico ed economico. Considerare l’Ucraina come uno stato fantoccio al servizio di Washington non dovrebbe escludere che l’oligarchia europea, sia pur in maniera subordinata e in assetto di netta inferiorità abbia fatto i suoi conti e che stia promuovendo una sua agenda autonoma sperando di trarre dei vantaggi da una ubbidienza così apparentemente autolesionista. In effetti tanto la leadership russa che quella Usa paiono inclini a considerare l’oligarchia del Vecchio continente una manica di utili idioti da non prendere nemmeno in considerazione. Trump lo sta mostrando con spietata chiarezza.

Nel primo mese di guerra, a marzo 2022, sono stati gli europei ad imporre per primi e più in profondità le sanzioni contro Mosca. Da allora si è avuto una convergenza crescente: da una parte gli Usa di Biden hanno sviluppato una retorica aggressiva e intensificato il sostegno militare a Kiev; dall’altro chi come Macron e Scholz aveva azzardato timide aperture diplomatiche e tentennamenti si è allineato rapidamente al bellicismo in nome della democrazia di von der Leyen. Tale convergenza non ha avuto nemmeno una incrinatura quando alle vacillanti aziende europee, indebolite dalla crescita dei prezzi dell’energia per la rinunzia al gas russo, Biden ha visto bene di dare un bel calcio alle ginocchia con un provvedimento di inaudito profilo protezionista: l’Inflaction Reduction Act.

Va notato che mentre l’opposizione repubblicana ha posto ostacoli all’entusiasmo di Biden per la fornitura di armi a Kiev, le forze politiche europee hanno visto le destre conservatrici come Fratelli d’Italia marciare al passo dell’oca coi Verdi europei in un odio viscerale per il governo russo e mostrando un inedito amore per il diritto internazionale, stranamente assente verso altre invasioni (quelle sponsorizzate dagli Usa).

Se ripercorriamo gli ultimi mesi a partire dall’insegnamento della nuova Amministrazione repubblicana si vede come dalla armoniosa convergenza si è passati agli schiaffoni. Gli uomini di Trump hanno rapidamente messo in chiaro che lo scacchiere europeo non è nelle loro priorità, mentre il Presidente scandalizzava l’intero continente mostrando una disponibilità al dialogo con la leadership russa, in precedenza oggetto di una insistita denigrazione (con paragoni con la Germania di Hitler all’ordine del giorno). Ma anziché allinearsi ai desideri del “nuovo sceriffo in città” (per citare il vicepresidente Vance) le classi dirigenti europee, escluse dalle negoziazioni col brusco piglio padronale di Trump, si sono intestardite a proseguire nella stessa direzione, denunciando l’inaffidabilità del nuovo inquilino della Casa Bianca (anzi, degli Usa nel loro complesso) e agitando velleitari desideri di autonomia strategica. 

Pare di sognare. L’Europa era considerata un continente incline alla diplomazia e renitente al bellicismo imperialista degli Usa, che per una consistente parte delle classi colte del continente era considerata una nazione primitiva e violenta, la cui passione per le armi in patria rifletteva il ruolo della guerra nella sua politica estera, che specialmente i progressisti consideravano spregevole è ripugnante. Oggi invece un presidente come Trump parla di diplomazia e pace, mentre l’oligarchia comunitaria (soprattutto nella sua componente progressista!) insiste per preferire la guerra rispetto ad un compromesso favorevole alla Russia, contro l’interesse dei propri paesi.

Questo atteggiamento pare completamente estraneo ad una base razionale, e viene spiegato con una perdurante subordinazione atlantista, di legami con l’apparato Usa più legato ai democratici (che userebbero i governi europei come utili idioti contro Trump), come se le classi dirigenti europee non avessero nessuna volontà propria. Non vengono considerati tuttavia i caratteri strutturali cioè economico-produttivi di tale zona geoeconomica. 

L’assetto economico disegnato dai Trattati

I due tratti più peculiari della costruzione comunitaria sono la disciplina di bilancio, l’enfasi sulla concorrenza e la finanziarizzazione. 

Quest’ultima è la meno importante in questa prospettiva, dato che è comune a molti altri paesi, e nella anglosfera è anche più sviluppata. Tale dinamica è stata promossa esplicitamente dalle istituzioni comunitarie, in specie dalla Commissione e dalla BCE, assimilandola un po’ di più agli Usa. Molto più caratterizzanti invece sono i primi due elementi.

Le limitazioni al deficit di bilancio e al debito pubblico sono considerate dal resto del mondo un’anomalia senza nessuna base concettuale seria, traducendosi in un bizzarro mix di liberismo e pedantesca burocrazia ma sono state utili per fare spazio al mercato riducendo le prerogative statali.

La concorrenza è il principio fondamentale dell’ordinamento comunitario; compare nel TUE (art. 3, lettera f: “creazione di un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune”), e ne permea l’intero ordito, come sostengono studiosi come l’ex giudice della Corte Costituzionale Giuseppe Tesauro, per il quale i valori ai quali 

s’ispira l’intero sistema comunitario sono quelli cd. liberali dell’economia di mercato, nel rispetto dei quali il grande mercato europeo deve consentire agli imprenditori di competere tra loro ad armi pari e sulla base delle rispettive capacità e possibilità; ed ai consumatori di scegliere i prodotti e i servizi che ritengono migliori e dove siano più convenienti (G. Tesauro, Diritto Comunitario, Padova 2001, p. 526).

Le istituzioni Ue non sono finalizzate a disattivare o smorzare la logica di mercato concorrenziale, ma a stimolarla. L’obiettivo era di rendere le società più basate sulla competizione individuale e meno sulla dimensione collettiva, dando più importanza al mercato e ritagliando con taglio sartoriale l’assetto sociale su misura dell’impresa privata (meglio se quotata in borsa). Si può dire che nell’ambito del conflitto sociale le istituzioni comunitarie abbiano portato tutto il loro peso dalla parte datoriale; in paesi come l’Italia il declino delle tutele sociali e la deflazione salariale sono stati imponenti.

In tal senso la Ue è sostanzialmente un progetto completamente riuscito, sempre che se ne colga la reale effettività: un’operazione di ingegneria istituzionale volto a plasmare le società verso un modello competitivo e mercatista, detronizzando il lavoro nella gerarchia dei valori costituzionali a favore di mercato, impresa, concorrenza ed ottenendo privatizzazioni e deflazione salariale. Ma perché allora le stesse oligarchie se ne lamentano tanto da proporre riforme ad ogni piè sospinto?

Una motivazione potrebbe essere: rispondere agli umori popolari. La governance Ue è essenzialmente antidemocratica ed ha suscitato enormi resistenze e voglia di ritorno alla sovranità. Ma a ben vedere le proposte vanno nella stessa direzione antipopolare, estremizzando ancora di più tale logica. Perché quindi? 

La risposta può essere espressa da un vecchio proverbio: il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

Il prezzo del neoliberismo

L’assetto appena tratteggiato ha delle conseguenze importanti. La prima è che l’indebolimento dei salari e della spesa pubblica hanno minato un solido percorso di crescita e la coesione interna dell’Unione, pregiudicando irreparabilmente il suo ruolo internazionale. In merito al pil lo stesso Financial Times ha rilevato la crescente divergenza rispetto agli Usa:

Nel 2008 l’economia dell’UE era un po’ più grande di quella americana: 16,2 trilioni di dollari contro 14,7 trilioni di dollari. Entro il 2022, l’economia degli Stati Uniti era cresciuta fino a 25 trilioni di dollari, mentre l’UE e il Regno Unito insieme avevano raggiunto solo 19,8 trilioni di dollari. L’economia americana è ora quasi un terzo più grande. È più grande di oltre il 50 percento rispetto all’UE senza il Regno Unito.

La seconda è una crescente divergenza interna. La disciplina di bilancio, infatti, avvantaggia i paesi più ricchi che possono rispettare le severe soglie all’indebitamento senza pregiudicare la coesione sociale e gli investimenti; i malfamati parametri, poi, hanno avuto una applicazione decisamente a geometria variabile: quando Francia e Germania hanno sforato sono stati risparmiati in virtù della loro importanza che li rende più influenti sulla Commissione. Possiamo sintetizzare la asimmetria dell’integrazione Ue in tal modo: teoricamente tutti gli Stati membri cedono sovranità a favore degli organi comunitari, ma i più grandi e importanti la recuperano col controllo di essi, gli altri la perdono e basta.

L’enfasi sulla concorrenza, del resto, ha spinto i paesi a competere gli uni contro gli altri: in un sistema molto competitivo i governi sfruttano i loro poteri al massimo grado per favorire le loro aziende. È quindi il neoliberismo in salsa Ue ad aver impedito ulteriori passi verso la centralizzazione di poteri in capo alla Commissione, non i “nazionalismi risorgenti” che popolano le lagne degli europeisti. Vi sono stati significativi successi solo nei settori che rappresentano il core business dell’Unione: regolazione della concorrenza, le politiche monetarie e di bilancio (sull’onda della Crisi del Debito Sovrano), e si sputa sangue per adeguare le politiche fiscali. Gli esecutivi sono renitenti a cedere poteri  ad un organismo europeo che potrebbe essere controllato dai loro competitors – e sono quelli più piccoli a nutrire i massimi timori. Ovviamente pensare che gli interessi dei singoli paesi possano fondersi o sublimarsi in un comune “interesse europeo” ha la stessa razionalità del credere alla trasformazione del pane e vino della messa nel reale corpo e sangue di Gesù.  È ovvio che gli Stati competono sotto il manto della “comune casa europea” a livello politico ed economico, e che i provvedimenti spesso sono una faticosissima mediazione fra parrocchiette e gruppi che lottano con le unghie e coi denti per non cedere di un millimetro. Solo le coalizioni degli interessi più grandi, riconducibili agli Stati più potenti, riescono ad ottenere risultati – e non sempre.

L’ovvio risvolto è che la Ue non è riuscita a costituirsi come un soggetto importante a livello internazionale, dandosi una direzione unitaria e una leadership forte. Il centro franco-tedesco non ha avuto né la volontà né la forza di imporre una reductio ad unum, preferendo affermare i suoi interessi con una rete di alleanze intergovernative. E’ molto dubbio che sia mai esistita la reale possibilità di unificazione, data l’eterna tutela Usa sul continente, che ne fa sul piano militare un’appendice della NATO o del fronte euroatlantico saldamente controllato dagli Usa. Ma all’interno dei paletti di una sostanziale subalternità ad essi la centralizzazione di poteri a Bruxelles resta un progetto largamente condiviso dall’establishment unionista. Il pontefice massimo di questa prospettiva è ovviamente Draghi.

Il quadro quindi è questo: i fattori strutturali intrinseci dell’architettura Ue spingono verso la divergenza o la frammentazione (o persino la disintegrazione) mentre la volontà politica dell’oligarchia (non unanime però) cerca di ottenere ulteriore potere alla Commissione. 

Ovviamente l’oligarchia non ha nessuna voglia di rinunciare al primo fattore, quindi occorreva un fattore di coesione che potesse dare una spinta sufficientemente forte.

“Ed è arrivata la guerra…”

Ed è arrivata la guerra in Ucraina.
Questa non è solo una guerra mossa dalla Russia contro l’Ucraina.
È una guerra contro la nostra energia, la nostra economia, i nostri valori e il nostro futuro.
È uno scontro tra l’autocrazia e la democrazia.

Così suona un passo del discorso sullo Stato dell’Unione di Ursula von der Leyen il 14 settembre 2022. Dispiega una retorica celebrativa (“gli europei non si sono tirati indietro né hanno esitato. Hanno trovato il coraggio di fare la cosa giusta”), i cui fasti raggiungono veramente una magniloquenza hitleriana (“Un’intera nazione di eroi si è levata […] Gloria a un paese di eroi europei”). Ma gli elementi più notevoli sono l’identificazione del progetto di integrazione con la vittoria di Kiev basata su una dicotomia manichea: autocrazia vs. democrazia. Molta enfasi è sulla unità: il titolo del discorso è Un’Unione è forte solo se unita

Non si tratta solo di retorica di circostanza. Siamo al cospetto di una vera e propria ideologia democratico-europeista che non mancherà di dispiegare effetti concreti, nel tentativo di controbilanciare le tendenze alla frammentazione determinate dai caratteri strutturali precedentemente delineato. 

Al di là della retorica ci sono molte attestazioni che tale progettualità è reale. Pierre Haroce, per esempio, nel suo testo What Security Guarantees Can the EU Provide to Ukraine? della primavera del 2023, caldeggia una Ue più unita nelle sfide globali, e più attiva nel campo della sicurezza. Scrive per l’Institut Jacques Delors.

Lo storico e saggista Luuk van Middelaar rilascia un’intervista all’Institut Montaigne in cui dice più o meno lo stesso, apprezza l’unità espressa a febbraio del 2022 (cioè le azioni contro la Russia) e carezza la prospettiva di un’Europa geopolitica. Il roccaforteTitolo dell’intervista è L’Ucraina e il momento storico dell’Europa.

L’influente pensatoio Bruegel – una  del dogmatismo europeista più granitico – ha pubblicato contributi sia in merito ai vantaggi che presenterebbe alla Ue accogliere l’Ucraina, sia sul piano economico che industriale.

Anche il Centre for European Policy Studies (pensatoio di Bruxelles, per il quale l’unità europea è paragonabile all’eucarestia per il culto cattolico) ha un intero progetto di ricerca volto a delineare le possibilità di una postura strategica da parte dell’Ue.

Sparate da europeisti che sognano l’impossibile? Può darsi. Ma se guardiamo alla identità degli autori, è gente con una preparazione seria e molto contigua all’establishment, abbastanza differente dal Calenda di turno. Per esempio nessuno parla di “Stati Uniti d’Europa” o altre amenità velleitarie. La costruzione del “nemico comune” (l’autocrazia, qualsiasi cosa ciò significhi, incarnata nella Russia) ha abbastanza funzionato da cementare un consenso trasversale ai partiti di maggioranza dei governi europei (salvo Ungheria e Slovacchia) e nelle istituzioni comunitarie, ma può raggranellare sufficiente energia politica da cambiare il volto istituzionale della Ue? In altre parole, pare assodato che l’oligarchia Ue intenda superare la mancanza di coesione, uniformità e di leadership condivisa sull’onda emotiva di una emergenza che riguarda una guerra su suolo europeo, e (assai più fantasiosamente) una invasione del continente. La mossa di sfruttare uno shock di massa (reale e/o indotto) trasformando machiavellicamente una crisi in opportunità in altri contesti ha funzionato. Non aveva forse detto Jean Monnet che l’Europa (intesa come progetto unitario) si sarebbe rafforzata con le crisi come somma delle misure adottate per farvi fronte?

Occorre fare un esercizio di realismo analizzando quanto di concreto abbia effettivamente prodotto tale progettualità e la sua nuova ideologia. La risposta dev’essere meditata, perché sono processi lenti e spesso sotto traccia, ma fin da ora possiamo azzardare che se il risultato non è uno zero assoluto, il carniere non è così pieno come si sperava. Le cose non sono andate molto secondo i piani, e l’ostacolo più possente, ancora una volta, non è un nemico esterno, ma interno alla Ue stessa.

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