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Il volto nudo dell’occupazione


13 Giu , 2025|
| 2025 | Sassi nello stagno

Il colonialismo sionista, l’ipocrisia occidentale e la verità negata: perché la Palestina oggi non ha futuro — e perché abbiamo il dovere morale di dirlo.

Non è (solo) Netanyahu. È Israele. È il suo sistema. È la sua ideologia fondativa. È l’impalcatura culturale, religiosa e militare che regge da decenni uno Stato costruito sulla rimozione sistematica del popolo palestinese e sulla trasformazione della propria identità da rifugio per un popolo perseguitato a potenza teocratica, fanatica e colonialista.

La narrazione dominante in Europa – e, in modo ancora più accentuato, negli Stati Uniti – racconta una favola rassicurante: che esisterebbe un “buon Israele” laico, democratico, pluralista, insidiato solo recentemente da un estremismo politico incarnato da Benjamin Netanyahu e dai suoi alleati ultranazionalisti e ortodossi. Ma questa narrazione è falsa. O meglio: è consolatoria, perché serve a scindere ciò che invece è organicamente unito.

La verità è che Netanyahu non è un incidente. Non è un’eccezione. Non è neppure una degenerazione. È l’espressione più efficace – e oggi più trasparente – del sionismo contemporaneo. E il sionismo, nel 2025, non è più una dottrina di autodifesa ebraica. È diventato, nella sua forma concreta e statuale, una dottrina suprematista, segregazionista, esclusivista. È l’unica ideologia politico-religiosa del mondo occidentale ad essere ancora al potere in uno Stato armato fino ai denti, che gode dell’impunità diplomatica delle democrazie occidentali e del sostegno economico-militare di Washington.

Il problema non è la destra. Il problema è la maggioranza. Perché anche oggi, mentre i carri armati devastano Gaza e gli F-16 colpiscono il nord dell’Iran, meno del 20% degli israeliani dichiara di opporsi in modo netto alla politica estera e militare del proprio governo. Un dato in calo, secondo le rilevazioni del Israel Democracy Institute. La maggioranza della popolazione sostiene le operazioni militari, la retorica dell’annientamento del nemico, la giustificazione preventiva dell’uso della forza come unica grammatica geopolitica.

Questo non accade in un vuoto neutro. Accade in uno Stato che, pur presentandosi come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, esclude per legge milioni di palestinesi dal diritto di voto, confina due milioni di persone a Gaza in una prigione a cielo aperto, militarizza la scuola, la religione, l’identità. Uno Stato che ha codificato nella propria legge fondamentale – nel 2018 – il principio per cui solo il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione. Come si può ancora parlare di democrazia?

Israele non è uno Stato come gli altri. È uno Stato fondato su una religione, per una sola etnia, contro un’altra popolazione, e difende questo principio con le armi. Si può discutere all’infinito sulla natura del sionismo originario – socialista, laico, pluralista – ma ciò che conta è ciò che il sionismo è oggi: un progetto etnocratico protetto da una dottrina teologica che considera i territori occupati non come oggetto di negoziazione, ma come eredità divina.

Da qui, l’uso della Bibbia come mappa politica, dei rabbini come consiglieri militari, dei coloni come avanguardia armata. Da qui, il fanatismo non più marginale, ma centrale. Un fanatismo benedetto, non censurato. E che l’Occidente finge di non vedere.

Allora no, non è (solo) Netanyahu. È tutto il castello. È l’ideologia, la pedagogia, la scuola, la memoria, il modo in cui si cresce un bambino israeliano a vedere l’altro come nemico. È il potere della religione sul diritto. È il fondamentalismo istituzionale. È il sostegno popolare a una guerra permanente. È la negazione strutturale dell’altro – arabo, palestinese, islamico – come soggetto umano e politico.

Israele è uno Stato-nazione che ha sostituito la Shoah con il trauma eterno, la giustizia con la vendetta, la difesa con l’aggressione preventiva. E ha trasformato la condizione della vittima storica in una licenza perenne di impunità.

Non è (solo) Netanyahu. È Israele. Ed è ora che l’Occidente smetta di nascondere la testa sotto la sabbia.

Ogni volta che un esponente occidentale apre bocca su Gaza, su Hamas, su Israele, la parola magica è sempre la stessa: conflitto. Come se fosse una rissa, una lite fra due vicini, un duello tra eguali. Come se davvero si potesse parlare di due parti in guerra, due eserciti, due popoli armati che si contendono una terra da spartire. Niente di più falso, niente di più tossico. Chiamarlo “conflitto” serve solo a mantenere in vita l’equilibrismo criminale dell’Occidente, a fingere che la verità sia nel mezzo, a giustificare l’ingiustificabile.

Ma la verità, cruda e bruciante, è che questa non è una guerra. È una struttura coloniale. È una forma storica di dominio, aggiornata al XXI secolo, che riproduce i meccanismi classici del colonialismo d’insediamento: occupazione del territorio, esproprio delle risorse, segregazione della popolazione indigena, cancellazione della sua identità. E tutto questo, nel caso israeliano, viene portato avanti con gli strumenti moderni della tecnologia, dell’intelligence, della retorica democratica e dei media embedded.

Israele non è solo uno Stato che ha occupato militarmente la Cisgiordania e assediato Gaza. Israele è, a tutti gli effetti, un progetto coloniale d’insediamento, fondato sull’idea che la Terra Promessa non appartenga a chi la abita, ma a chi la reclama in nome di un mito, di una religione, di una narrazione identitaria esclusiva. I palestinesi non sono visti come cittadini da integrare o vicini con cui convivere: sono ostacoli da contenere, bombe a orologeria da neutralizzare, presenze da confinare o far scomparire.

Lo storico Patrick Wolfe l’ha detto senza giri di parole: “Il colonialismo d’insediamento è una struttura, non un evento.” E in Israele questa struttura è visibile ovunque. Nelle centinaia di insediamenti illegali costruiti in Cisgiordania (oltre 700.000 coloni, sostenuti da miliardi in fondi pubblici israeliani), nelle strade riservate solo agli israeliani, nei checkpoint che trasformano ogni spostamento palestinese in un’odissea, nel muro dell’apartheid lungo più di 700 chilometri, che taglia villaggi, separa famiglie, distrugge campi e spezza la continuità territoriale.

È visibile nella pratica sistematica dell’espulsione: basti pensare a Sheikh Jarrah, a Silwan, a Hebron. È visibile nella legislazione discriminatoria: la “Legge sullo Stato-Nazione” del 2018 ha sancito che solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione nello Stato di Israele. E gli altri? Esseri umani di serie B. Reietti nel proprio Paese.

È visibile soprattutto in una cosa: il diritto al ritorno negato a milioni di rifugiati palestinesi, mentre chiunque, ovunque nel mondo, possa dichiararsi ebreo, ha diritto automatico alla cittadinanza israeliana. L’ebreo argentino che non ha mai messo piede in Medio Oriente ha più diritti del palestinese nato a Haifa o Jaffa, costretto da tre generazioni a vivere in un campo profughi in Libano.

Non è un “conflitto”. È una sostituzione etnica lenta, normalizzata, difesa dalla diplomazia occidentale e coperta da un racconto tossico che dipinge Israele come “unico baluardo democratico del Medio Oriente”. Come se le democrazie potessero sopravvivere praticando l’apartheid. Come se la democrazia potesse coesistere con l’occupazione militare e con la negazione sistematica dei diritti umani a milioni di persone.

Il dramma è che questo sistema coloniale non solo è sopravvissuto alla decolonizzazione del Novecento, ma si è adattato: ha imparato a usare il linguaggio dei diritti solo per sé, ha colonizzato il linguaggio stesso. “Sicurezza”, “difesa”, “terrorismo”, “ordine pubblico”: parole usate per giustificare qualsiasi cosa. Anche un missile su un ospedale. Anche la fame imposta a due milioni di persone.

E l’Occidente, intellettualmente e politicamente complice, finge di non vedere. Finge che si tratti di una faida religiosa, di un ciclo eterno di vendette, di un ennesimo scoglio nei difficili equilibri del Medio Oriente. Ma è tutto più semplice, e più crudele: c’è un popolo colonizzatore e uno colonizzato. C’è chi ha il potere e chi ha solo la memoria. C’è chi bombarda e chi scava sotto le macerie per trovare il corpo di un figlio.

Ecco perché parlare di “conflitto israelo-palestinese” è già una scelta politica, e una scelta infame. Perché è il modo più raffinato e subdolo per negare che qui siamo davanti a un colonialismo attivo, presente, militante. E finché non lo chiameremo così, finché ci limiteremo a invocare “pace” senza giustizia, senza parità, senza verità, allora non faremo che alimentarlo.

La pace non è possibile se non si riconosce la realtà. E la realtà si chiama occupazione, esproprio, apartheid. La realtà si chiama colonialismo sionista. Solo chiamandolo per nome possiamo cominciare a smontarlo. E a restituire ai palestinesi non solo la terra, ma la dignità di essere visti, capiti, difesi.

Ma per restituire dignità, serve anche verità. E la verità è che da tempo nessuno ci crede più.

Ci fu un tempo — neanche troppo lontano, appena qualche decennio fa — in cui perfino l’Occidente più ipocrita si aggrappava, almeno a parole, a una formula di salvezza: “due popoli, due Stati”. Lo dicevano gli europei in cerca di equilibrio, lo ripetevano gli americani per non perdere la faccia, lo sottoscrivevano gli israeliani moderati per conservare l’anima, lo invocavano i palestinesi come diritto storico. Oggi quella formula è un’eco svuotata, un palliativo diplomatico, un relitto semantico senza corpo. Non esiste più alcun processo di pace. Non c’è un negoziato in corso. Non c’è una road map, né una volontà politica, né un progetto concreto che possa anche solo far immaginare la nascita di uno Stato palestinese. Nessuno lo dice apertamente, ma tutti lo sanno.

La pace, quella vera, è stata sepolta sotto le ruspe delle colonie, sotto gli spari nei campi profughi, sotto il disprezzo sistemico della dignità araba. È stata asfaltata dall’ideologia del “muro di sicurezza”, addomesticata nei salotti ONU e infine dimenticata, come una promessa rotta da troppo tempo per poter essere ancora rinfacciata. E se questo è vero da anni, oggi è tragicamente evidente: non solo non ci sarà uno Stato palestinese in tempi ragionevoli, ma non c’è nemmeno qualcuno che lo stia davvero chiedendo, al potere.

Eppure, di questo fallimento nessuno si assume la responsabilità. L’Occidente finge che sia colpa del terrorismo, come se le decine di risoluzioni ONU ignorate da Israele non esistessero. Israele finge che sia colpa dell’intransigenza palestinese, mentre colonizza la Cisgiordania metro per metro. Ma il punto è proprio questo: Israele non ha mai voluto davvero due Stati. E oggi meno che mai.

Il governo attuale, guidato ancora una volta da Benjamin Netanyahu, è il più fanatico, ideologizzato e violento della storia d’Israele. Non è un’opinione, è un dato. Basta leggere i nomi e ascoltare le parole. Al suo interno siedono Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, e Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale — due esponenti dell’estrema destra religiosa ebraica, entrambi noti per le loro posizioni suprematiste, razziste e messianiche. Smotrich ha detto testualmente: “Sono un omofobo, razzista, fascista. E non mi vergogno di esserlo.” Parole sue. Eppure è ministro. Anzi: è determinante.

Perché Netanyahu, che ama apparire come stratega moderato, è politicamente tenuto per la gola proprio da questi estremisti. La sua coalizione esiste grazie a loro. Senza di loro, il governo crollerebbe. E loro lo sanno. È un ricatto aperto, sfacciato, e funziona: se Bibi anche solo ipotizzasse una tregua duratura, verrebbe abbandonato. E probabilmente sostituito da qualcuno ancora più spietato.

E qui si manifesta il timore più amaro: che la Palestina non abbia più alcun orizzonte davanti a sé, se non quello della resistenza disperata, della sopravvivenza sotto assedio, del martirio quotidiano. Perché oggi, in Israele, non c’è solo chi rifiuta lo Stato palestinese: c’è chi vuole completare la pulizia etnica. Chi parla apertamente di “trasferimento”. Chi sogna un solo Stato ebraico, esclusivo, monoreligioso, senza arabi, senza musulmani, senza “nemici interni”. E questo sogno, oggi, è seduto al governo.

Ben Gvir, del resto, ha sempre inneggiato a Meir Kahane, il rabbino razzista la cui organizzazione fu messa fuorilegge perfino da Israele per terrorismo. Oggi Kahane è vendicato dal potere. Smotrich, da parte sua, ha giustificato il pogrom dei coloni a Huwara dicendo che “il villaggio andava raso al suolo dallo Stato”. Parole da criminale di guerra. Pronunciate da un ministro. E tutto questo avviene con il silenzio assenso degli alleati occidentali, più preoccupati di non irritare lobbies e mercati che di difendere il diritto internazionale.

Netanyahu ha tutto l’interesse a portare la guerra fino in fondo. La guerra lo tiene in vita. Politicamente e giudiziariamente. La guerra gli permette di non affrontare i suoi processi per corruzione. La guerra anestetizza l’opinione pubblica israeliana, sempre più radicalizzata e militarizzata. La guerra gli consente di essere “l’uomo forte” in un Medio Oriente debole. E anche se Smotrich e Ben Gvir lo minacciassero di uscire dalla coalizione, le elezioni non sarebbero un pericolo per lui: i sondaggi dicono che il blocco di destra ultraortodossa è ancora in vantaggio. Questo non è solo un governo. È un consenso.

E allora che fare? Continuare a credere che Israele tornerà alla ragione? Che si sveglierà una sinistra sionista? Che i coloni si ritireranno? Che l’Occidente smetterà di fornire armi, scudi politici e silenzio? No. Bisogna avere il coraggio di dirlo: la pace, oggi, non è all’orizzonte. Non perché sia impossibile in sé, ma perché nessuno dei potenti la vuole davvero.

Eppure, anche questo non ci autorizza a cedere al nichilismo. Il dovere morale della denuncia resta. Il dovere storico della memoria resta. Il dovere politico del boicottaggio civile resta. Ma soprattutto resta il dovere umano di dire che chi vuole cancellare un popolo non potrà mai essere chiamato “democratico”, né tantomeno “vittima” permanente.

Israele non è solo Netanyahu. È una struttura. Una cultura. Un paradigma coloniale. E come ogni paradigma, deve essere decostruito, non con odio ma con verità. La prima delle quali è questa: non può esistere libertà per gli ebrei, se è costruita sulla schiavitù dei palestinesi.

Tutto questo, mentre chi poteva alzare la voce ha preferito attendere.       

Meglio tardi che mai. Ma nel frattempo, sono morti in 60.000. A Gaza. Sotto le bombe. Sotto le ruspe. Sotto il silenzio.

La grande manifestazione di Roma per la Palestina — quella del 7 giugno, finalmente unitaria, finalmente in Piazza San Giovanni, finalmente con PD, M5S e AVS insieme — è arrivata dopo otto mesi. Mesi in cui i bambini venivano sepolti senza nome, in sacchi di plastica. Mesi in cui si bombardavano scuole, edifici, ambulanze.

Non basta una piazza. Ce ne volevano cento. Una a settimana, in tutte le città. Se davvero volete difendere il diritto di esistere di un popolo, non basta un palco: serve una campagna politica quotidiana, popolare, visibile.

Invece, fino a pochi giorni prima, c’era chi – da Italia Viva ad Azione, passando per i “moderati” del PD – firmava manifesti cerchiobottisti dal titolo grottesco: “Due popoli, due stati”. Un modo elegante per dire: “Lasciateci in pace”.

Ma due popoli, due stati, dove, esattamente? Su quale mappa? Con quale governo palestinese, con quale territorio, con quali frontiere, con quali garanzie? Non è più una formula di pace, è un alibi.

E intanto, il PD resta un partito atlantista fino al midollo. Non si può difendere la pace mentre si votano le armi. Non si può difendere i diritti umani mentre si tace sulla NATO che protegge Netanyahu.

Quello che accade oggi non è un incidente della storia. È il frutto di tutte le ambiguità, di tutte le reticenze, di tutte le neutralità comode. E non basta più la vergogna. Serve la rottura. Etica. Politica. Umana.

Il problema non è solo Netanyahu. Non è solo l’estrema destra messianica che oggi lo tiene in ostaggio: Bezalel Smotrich, Itamar Ben-Gvir, fanatici religiosi che minacciano la caduta del governo se la guerra si ferma. No: il problema è strutturale. È il sionismo stesso, nel modo in cui si è storicamente realizzato. Il problema è uno Stato fondato su basi etnico-religiose, su un’idea di superiorità storica, su un progetto coloniale mai terminato.

Non sono antisemita. Non lo sono mai stato. Difendo la memoria della Shoah, ebraica e universale. Ma se il sionismo è quello che vediamo oggi, allora non possiamo più difenderlo. Allora, essere antisionisti etici non è odio: è giustizia.

E forse, a questo punto, la verità va detta con dolore, ma senza più infingimenti: lo Stato di Palestina, oggi, non esiste. E difficilmente esisterà, almeno nel futuro prossimo. Non con questa Israele. Non con questa Europa. Non con questo silenzio.

Ma almeno, almeno, possiamo iniziare a dire le cose come stanno. Senza più ipocrisie, senza più slogan, senza più diplomazie assassine. Le parole non bastano più. Ma almeno scegliamole bene.

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