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Perché gli Stati Uniti hanno attaccato l’Iran?

Alla fine, è accaduto. Il solstizio d’estate di quest’anno ha segnato non soltanto un passaggio stagionale, ma l’inizio di una nuova e drammatica stagione bellica.
Alle 2:10 iraniane della notte tra il 21 e il 22 giugno, dopo nove giorni di continui bombardamenti israeliani, sono intervenuti i velivoli bombardieri B-2 americani che, trovandosi la strada del cielo completamente spianata, hanno agito in profondità nel territorio nemico e sganciato le loro bombe sui siti nucleari di Fordow e Natanz. Contemporaneamente i sottomarini nucleari della U.S. Navy posizionati nel Mar Arabico colpivano con una ventina di missili da crociera Tomahawk il sito di Isfahan, nel quale è presente l’impianto in cui l’uranio naturale viene processato per poi essere trasferito nelle centrifughe di Natanz e Fordow.
I B-2 hanno, invece, attaccato Fordow e Natanz con le ormai famigerate bunker buster bombs, sganciandone un totale di 14, in quello che è il più importante raid aereo mai svolto con questo tipo di armamento.
Questa particolare e potente bomba che può essere trasportata e sganciata solo dai B-2 statunitensi, ha capacità di distruzione nel sottosuolo ed è, infatti, stata impiegata sui siti di Fordow, costruito all’interno di una montagna una novantina di metri sottoterra, e di Natanz, costruito parte in superfice e parte sotto.
Se una valutazione più precisa dei danni effettivi può essere fatta soltanto con il passare delle ore, le dichiarazioni iraniane e americane tendono a contraddirsi. Secondo Donald Trump l’attacco avrebbe completamente distrutto le centrali nucleari iraniane; mentre secondo fonti iraniane non ci sarebbe stata nessuna fuoriuscita di radiazioni, come per il momento ha confermato anche l’AIEA, ma ci sarebbero alcuni feriti e nessuna vittima. Il numero dei feriti e delle loro condizioni non è stato invece divulgato.
Apparentemente ad avere subito i danni maggiori sembra essere stata la centrale di Natanz, mentre la posizione di Fordow è più complicata da valutare, anche se membri delle istituzioni iraniane hanno dichiarato che tutto il materiale pericoloso era stato preventivamente evacuato e che la contraerea che si è efficacemente attivata ha evitato danni importanti a tutto l’impianto.
Ormai sembra quasi scontato dirlo, ma è sempre bene farlo, che questi attacchi americani, come i precedenti israeliani, sono stati compiuti in palese e aperta violazione del diritto internazionale. Nessuna risoluzione delle Nazioni Unite ha, infatti, autorizzato qualsivoglia operazione militare contro l’Iran.
È importante dirlo perché troppo spesso il diritto internazionale viene evocato a intermittenza, piegato alle necessità politiche contingenti. E gli attori che più frequentemente si ergono a difensori dell’ordine legale internazionale, come i paesi europei e l’Unione Europea, oggi o tacciono o sostengono apertamente questa violazione, così come hanno taciuto e sostenuto le continue violazioni israeliane prima in Palestina, Libano, Siria, Yemen e, infine, in Iran. E ciò avviene senza nessun tipo di remora, dato che lo stesso cancelliere tedesco Merz ha esplicitamente ringraziato Israele poiché “fa il lavoro sporco per noi”.
È evidente che dopo ciò, qualsivoglia argomentazione che includa la violazione del diritto internazionale, anche presunta, e che verrà nuovamente utilizzata per giustificare future aggressioni, condanne o sanzioni contro Stati considerati ostili all’Occidente, non potrà vantare alcuna legittimità.
Tuttavia, è importante cercare di capire cosa abbia spinto gli Stati Uniti a bombardare direttamente l’Iran, entrando con tutti e due i piedi nella guerra di Israele ed esponendosi ad un conflitto di proporzioni potenzialmente disastrose.
La bomba nucleare iraniana: il pretesto
Ogni guerra richiede il sostegno dell’opinione pubblica, e tale consenso è più facilmente ottenibile quando si fornisce una motivazione apparentemente razionale: una minaccia concreta che possa mettere in pericolo la sicurezza stessa delle popolazioni dei Paesi coinvolti. Serve, in altre parole, una giustificazione.
Il pretesto e la conseguente giustificazione di questo conflitto contro l’Iran è la minaccia nucleare. Secondo la narrazione israeliana e conseguentemente americana, l’Iran non può e non deve dotarsi dell’arma atomica. Questa linea è ovviamente condivisa anche dagli altri leader occidentali. D’altronde, cosa riesce a mobilitare l’opinione pubblica meglio del timore di una minaccia nucleare imminente?
Eppure, l’Iran non possiede armi nucleari, né risulta fosse prossimo a svilupparle. Tale posizione è stata esplicitata anche da Tulsi Gabbard, attualmente a capo dei servizi segreti statunitensi, durante un’audizione al Congresso tenutasi lo scorso marzo. Solo in seguito, nei giorni recenti, ha parzialmente ritrattato, affermando che “l’Iran potrebbe essere in grado di realizzarla”.
Al di là delle ambiguità retoriche e delle contraddizioni interne a queste dichiarazioni, vi sono alcuni elementi tecnici e politici che meritano una riflessione approfondita.
Anzitutto, benché raramente venga sottolineato, il programma nucleare iraniano è ufficialmente destinato alla produzione di energia a uso civile. Inoltre, il Paese non dispone delle risorse e delle tecnologie necessarie per sviluppare un’arma nucleare moderna. Le bombe nucleari moderne (specialmente le termonucleari a fusione) usano tipicamente plutonio-239 weapons-grade come materiale fissile o una combinazione di uranio arricchito e plutonio, risorsa, quest’ultima, che l’Iran appunto non possiede, come non possiede alcun reattore utilizzabile a questo scopo. E questo è un dato confermato da anni di monitoraggio da parte di enti internazionali.
Diverso, ma comunque distante da una minaccia concreta, è il discorso dell’atomica ad uranio arricchito al 90%, una bomba equiparabile a quella dell’Enola Gay, considerata oggi un’arma obsoleta e comunque complessa da mettere a punto, e infatti ciò richiederebbe parecchio tempo, mentre da più di 30 anni Netanyahu avverte il mondo che l’Iran sarebbe proprio a un passo dal costruirla.
Ma per realizzare un’atomica serve anche altro: un sistema di esplosione controllata estremamente sofisticato, che l’Iran non pare avere; e il vettore, ovvero un missile su cui montare la bomba che sia in grado di bucare le difese aeree nemiche.
In ogni caso, il pretesto bellico è stato accuratamente costruito.
Il giorno prima dell’inizio degli attacchi israeliani, l’AIEA – Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (in inglese International Atomic Energy Agency), un’organizzazione intergovernativa che promuove l’uso pacifico dell’energia nucleare e ne impedisce la proliferazione per scopi militari e che controlla che il programma nucleare iraniano rispetti gli accordi sottoscritti – ha approvato una relazione di dura condanna nei confronti dell’Iran, accusandolo di aver aumentato l’arricchimento dell’uranio fino al 60% e di aver incrementato in modo significativo la quantità di materiale stoccato.
La relazione è stata votata con una maggioranza di 19 favorevoli, ai quali si sono opposti 3 contrari (Russia, Cina, Burkina Faso) e ben 12 astenuti, mentre 2 paesi non hanno partecipato al voto, secondo la stampa.
Allo stesso tempo è fondamentale tenere presente gli stati promotori della relazione: Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania.
Non sorprende, dunque, che il giorno seguente alla pubblicazione del rapporto, Israele abbia dato il via agli attacchi contro l’Iran, con l’obiettivo dichiarato di smantellarne il programma nucleare e, al contempo, colpire in modo mirato infrastrutture militari strategiche. Tel Aviv ha inoltre rivendicato con fierezza l’eliminazione di diversi scienziati iraniani coinvolti nel programma nucleare, cioè civili, uccisi deliberatamente. Un’azione, come ampiamente e tristemente noto, non certo inedita nella politica militare israeliana.
In sostanza, la minaccia rappresentata da una bomba che non esiste ha innescato uno dei conflitti potenzialmente più pericolosi degli ultimi decenni. E benché, la stessa AIEA abbia detto per bocca del suo Segretario Generale che l’Agenzia ha la capacità di monitorare che l’Iran non arrivi mai all’arma atomica, ciò non è bastato per evitare le ostilità aperte.
È possibile, ma non definitivamente accertato, che l’Iran abbia deciso di arricchire dell’uranio (ma sicuramente non fino al livello necessario per ottenere la bomba), probabilmente per rafforzare la propria posizione negoziale nei colloqui con gli Stati Uniti e più difficilmente per arrivare a costruire un ordigno, ma il sospetto è sufficiente a scatenare una guerra? Sì, se non è la reale motivazione dietro ad essa.
Il ruolo di Israele
Per comprendere le motivazioni che hanno condotto gli Stati Uniti ad attaccare direttamente l’Iran, è necessario innanzitutto interrogarsi sulle ragioni che hanno spinto Israele a dare il via alle ostilità.
La domanda è complessa e la risposta ugualmente necessita di tenere insieme diversi fattori.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu attraversava, nei mesi precedenti l’attacco, un periodo di crescente isolamento diplomatico. Le cancellerie europee avevano iniziato improvvisamente ad accorgersi che a Gaza stava succedendo qualcosa e avevano iniziato a chiedere ad Israele di morigerarsi, anche se nessun leader europeo di governo, o quasi, ha parlato espressamente di genocidio.
Le pressioni internazionali cominciavano a farsi pesanti per Israele e la sua reputazione globale ha subito negli ultimi mesi un repentino e drastico calo. D’altronde non poteva essere diversamente con la trasmissione in diretta globale degli attacchi missilistici, dei bombardamenti e dell’invasione via terra di Gaza che non ha risparmiato i civili, poco importa che fossero uomini, donne, anziani, malati o bambini.
In questo contesto, a Netanyahu serviva un’operazione che potesse avere un duplice scopo comunicativo: a) ritornare tra le grazie degli alleati; b) togliere l’attenzione da Gaza per poter continuare l’operazione militare contro i civili palestinesi senza interferenze esterne e mascherare le difficoltà e i limiti di un conflitto ancora lontano dall’essere risolto.
L’assist (volontario? È naturale chiederselo) fornito dalla relazione presentata all’AIEA da Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito ha dato vita all’attacco cominciato la notte tra il 12 e 13 giugno che ha effettivamente raggiunto entrambi gli obiettivi.
Il bisogno di una svolta dal punto di vista dell’immagine e delle pressioni internazionali si è, però, coniugato anche con la strategia di potenza.
Colpire l’Iran significa colpire il pesce grosso nel Medio Oriente, significa dare una spallata agli equilibri egemonici nella regione e assumere influenza maggiore. Dopo aver completamente decapitato la macchina paramilitare di Hezbollah e di Hamas e aver contribuito in maniera determinante al progressivo e definitivo logoramento del regime di Bashar al-Assad in Siria, Netanyahu, che per rimanere a galla sembra necessitare della guerra perpetua, ha deciso di puntare Teheran per tentare il colpo che possa chiudere la partita con i nemici storici dello Stato d’Israele. Un tentativo, appunto, perché il rischio, senz’altro accuratamente calcolato, è quello di un’ostilità lunga.
La capacità di Israele di colpire nel cuore dello stato iraniano è stata ampiamente certificata, non soltanto in questi giorni (basti pensare all’uccisione dell’ex presidente iraniano Raisi). Il livello di infiltrazione dei servizi israeliani all’interno anche delle stesse forze armate iraniane è profondo. Israele ha, infatti, subito colpito con facilità diversi obiettivi militari, pur non eliminando completamente la capacità operativa dell’Iran. Ha colpito in superficie anche i siti nucleari, però senza arrecare eccessivi danni.
L’obiettivo più probabile, in questo scenario, è la demilitarizzazione dell’Iran, perché uno Stato che non è capace di proteggere i suoi cittadini è uno Stato che può essere spinto verso un cambiamento di regime dall’interno. Una prospettiva, sicuramente presa in considerazione da Israele, che appare favorita dal costante lavoro di intelligence svolto dai servizi americani e israeliani negli ultimi anni al fine di fomentare proprio un cambio di regime. Tuttavia, i processi politici non sono equazioni matematiche e spesso non seguono logiche lineari: una popolazione sottoposta a bombardamenti stranieri può, al contrario, ritrovarsi compatta attorno alla propria leadership, anche in presenza di disaccordi politici pregressi.
L’incapacità di Israele di riuscire ad arrivare all’obiettivo pubblicamente dichiarato, invece, ovvero annientare il programma nucleare iraniano è, in definitiva, il motivo principale che ha visto entrare in questa guerra gli Stati Uniti. Sarà da valutare successivamente se l’entrata in guerra si limiterà a questa singola azione, come ribadito da più parti dell’amministrazione americana, o avrà un suo seguito anche in base alle eventuali risposte iraniane e internazionali.
Malgrado le relazioni tra Netanyahu e Trump non siano esattamente idilliache, il rapporto tra Stati Uniti e Israele trascende la politica contingente, ma è strutturalmente stretto, fraterno. Per gli Stati Uniti non è ammissibile in alcun modo che Israele venga visto fallire dal mondo intero, inoltre le pressioni interne ed esterne su Washington per non lasciare solo lo Stato ebraico hanno fatto il resto, insieme alla necessità americana di riportare ai fasti la propria immagine di superpotenza dopo l’impotenza percepita in altri scenari, in particolare proprio mediorientali.
Il calcolo geopolitico
L’egemonia e le sfere d’influenza giocano un ruolo fondamentale nel quadro della geopolitica.
Se da una parte Donald Trump è probabile che non sia entusiasta di impantanare nuovamente gli Stati Uniti in una guerra in Medio Oriente, pur a suon di missili piuttosto che “stivali sul terreno”, è sempre vero che dalla contingenza l’obiettivo è di strappare il miglior risultato possibile, e anche in Medio Oriente si gioca la partita dell’egemonia globale e della sfida americana al multipolarismo con lo scopo di rimanere leader del mondo.
Trump preferirebbe concentrare le sue forze nella sfida ben più complessa dell’Indo-Pacifico, nel confronto con la Cina, e in questo senso va anche il progressivo, seppur altalenante, spostamento e ritiro dei contingenti americani anche dai teatri come il Medio Oriente. Ritiro che diventa, ovviamente, impossibile in caso di guerra e piani che quindi slittano nel tempo. In questo senso, va letta la fretta nelle brevissime dichiarazioni del Presidente americano fatte dopo l’attacco, dove ha invitato l’Iran a fare la pace, ribadendo che l’attacco serviva a distruggere il programma nucleare iraniano e non a scatenare una guerra più ampia. Certo, affermazioni singolari, addobbate di contraddizioni e pure di riferimenti evocativi agli attacchi militari, quasi come se si trattasse di un film di Hollywood, ma che rendono l’idea dei piani nella testa dell’attuale Presidente. La guerra all’Iran non sembra tanto essere una guerra di Trump, ma una guerra americana con volontà bipartisan, al quale nessun inquilino della Casa Bianca si sarebbe potuto sottrarre. Da non dimenticare che Kamala Harris in campagna elettorale disse esplicitamente che “l’Iran è il più grande avversario degli Stati Uniti”. La differenza, piuttosto, la possono fare le tempistiche con le quali si sceglie di impegnarsi nel conflitto e la qualità degli attacchi.
Valutando ciò, si potrebbe pensare che gli attacchi americani della notte scorsa possano essere stati un modo per accontentare Netanyahu e per cercare di chiudere subito la questione, facendo credere di aver raggiunto l’obiettivo, con l’Iran che dovrebbe soltanto fare “la parte del morto” per reggere il gioco e cessare, almeno per ora, le ostilità.
Certo, potrebbe essere un’opzione, ma allo stesso tempo potrebbero essere stati anche un modo per testare la volontà iraniana di difendersi e di eventuali altri attori internazionali di alzare la voce. Non è oltretutto detto che ciò fermi Israele, e in questo caso Trump sarà pronto ad andare fino in fondo e far cadere un altro alleato di Russia e Cina cercando, in qualche modo, di strappare alla loro influenza un altro pezzo importante di Medio Oriente, senza rischiare di subire reazioni.
Possibili conseguenze
È improbabile che la Federazione Russa o la Repubblica Popolare Cinese rispondano con un’azione militare diretta in difesa dell’Iran, sebbene Teheran faccia formalmente parte dei BRICS+. Questi ultimi appaiono più come un’alleanza di natura tattica ed economica che non come una coalizione strategica dotata di coesione militare, politica e ideologica.
Seppure i rapporti tra Teheran e Mosca siano solidi e la Russia abbia recentemente perso un alleato rilevante nello scacchiere mediorientale e non può permettersi di vedere ulteriormente compromessa la propria rete d’influenza nella regione, l’impegno militare sul fronte ucraino, che continua a logorare risorse, rende poco plausibile un coinvolgimento diretto in un secondo teatro di guerra ad alta intensità. Analogamente, la Cina sembra non avere alcuna intenzione di esporre la sua forza militare, malgrado l’Iran rappresenti un partner strategico e abbia contribuito lei stessa allo sviluppo di parte del programma nucleare iraniano fornendo tecnologie.
Ciò non toglie il fatto che saranno svolti altri tipi di tentativi, potenzialmente anche decisi, da parte delle due potenze per evitare un’ulteriore escalation. Tanto che nella mattinata odierna è previsto un incontro a Mosca tra il Ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi e il Presidente russo Putin, dal quale difficilmente gli iraniani torneranno senza aver ottenuto una qualche forma di supporto.
Dal canto suo l’Iran, che ha già risposto colpendo pesantemente Israele, come già minacciato, potrebbe decidere di reagire chiudendo lo stretto di Hormuz mandando completamente in crisi l’economia europea e globale. Da quel corridoio marittimo fondamentale tra Iran e Oman, infatti, passa circa 1/5 del commercio globale di idrocarburi. Certo, questa decisione porterebbe a un importante aumento della tensione e all’estensione quasi certa della guerra, che in questo caso non si fermerebbe senz’altro. D’altronde, però, questa arma geografica è a disposizione di Teheran e se ritenesse gli attacchi di Israele e degli Stati Uniti una minaccia esistenziale, avrebbe tutta la facoltà di disporne.
Allo stesso tempo, la flotta statunitense al largo del Bahrein potrebbe diventare un obiettivo di Teheran, qualora decidesse di replicare con tutte le sue forze, così come le numerose basi americane dislocate nei vari paesi del Medio Oriente.
Se è difficile prevedere ciò che succederà perché dipenderà da numerosi fattori e dalle mosse delle prossime ore, quello che appare ormai certo è che le azioni di Israele e Stati Uniti, con il placido assenso dell’UE, stanno alimentando non poco la fiamma del disordine globale, con conseguenze che rischiano di essere a dir poco incendiarie.

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